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di Antonella Tredicineappunti oltre il brusio ...

03/08/2018

“Mi trovo nelle scure / vie della memoria”

Le responsabilità morali della Storia, di chi la raccoglie e la insegna

Mi trovo nelle scure / vie della memoria: prendo in prestito i versi pasoliniani per dare voce a quello che provo ormai da un po’ di tempo, in particolare dal giorno in cui ho letto quell’ossimorica frase rivolta ai rom: “Schedare per tutelare i bambini”, poi ammorbidita con i più politicamente corretti (?) “ricognizione”, “anagrafe”. Affiancano i versi pasoliniani parole di cui non ricordo l’autore: Se l’opinione pubblica è sorda alla storia, occorre appellarci alla scuola e all’educazione per poter sperare in un nuovo e più umano futuro. Da allora continuo a prendere appunti, occorre lasciar sedimentare le reazioni “di pancia” e trovare la giusta distanza…
Nel contesto attuale, la “paura” dello zingaro si è capillarmente diffusa attraverso la retorica antizigana e i discorsi d’odio (distinguiamo il discorso stereotipato dall’incitamento all’odio e/o alla discriminazione): nel 2017 sono stati registrati 182 episodi di discorsi d’odio nei confronti di rom e sinti, di cui 51 (il 28,1% del totale) sono stati classificati di una certa gravità (si rileva inoltre un incremento del 4% rispetto al 2016). Per quanto riguarda la distribuzione geografica il primato spetta al Lazio: 60 casi registrati (33% del totale, di cui 57 solo nella Capitale), seguito da Veneto, Emilia Romagna, Lombardia, Piemonte, Toscana (Associazione 21 luglio, Rapporto Annuale 2017).

Ripercorrendo la storia di un popolo millenario e la sua stigmatizzazione, notiamo come la comunicazione mediatica e scientifica, elaborata nei secoli dai centri di potere, ne ha fatto una categoria “deumanizzata”, delinquenti per nascita e in modo inequivocabile, una fatalità quasi genetica, impedendole un effettivo riconoscimento culturale e giuridico, preparando la strada all’imperante “romofobia”. [1]
Nonostante i rom siano la prima minoranza presente in Europa, nei loro confronti si nutre un’ostilità che non ha equivalenti in quella verso altre minoranze. Se nel XIV secolo, la reazione al loro arrivo è, inizialmente, di stupore e curiosità per il modo di vivere, vestire, proprio questa stranezza, questo loro sfuggire a un inquadramento, produce ben presto disprezzo e ostilità. Le cronache dell’epoca cominciano a occuparsi non di chi si “integra”, ma di quegli stranieri fuori controllo che girovagano alla ricerca di mezzi di sostentamento.
Dalla fine del XV secolo si amplificano bandi, fustigazioni, imprigionamento,  mutilazioni corporali, esecuzioni, cacce organizzate, seguite poi da politiche persecutorie di esclusione, di reclusione, di espulsione, di assimilazione forzata, di ghettizzazione che avevano in comune il rifiuto della romanipè.

Da allora si è alimentato un allarme sociale ‘funzionale’ che ha favorito e promosso pratiche che di fatto hanno emarginato, anche culturalmente, una popolazione che è arrivata in Europa non con intenti bellicosi né tantomeno con le armi. Tra la metà dell’Ottocento e il primo Novecento, i saggi di Gobineau, Lombroso e Chamberlain, di Galton inventore dell’eugenetica e dell’americano Grant, autore di “The passing of the Great race”, definito da Hitler “la mia bibbia”, pongono le basi per le teorie razziste e influenzano i politici nell’attuazione di provvedimenti contro famiglie romanés.
Tali misure rispecchiavano l’idea della prevenzione sociale attraverso una schedatura dei gruppi romanés  e maggiori informazioni su di loro, oramai acclarati come un problema di ordine pubblico.
La base “scientifica” del Porrajmos, l’olocausto nazista, non ha fatto altro che attuare in pochi anni quanto nell’Europa si tentava di fare da secoli: nel 1936 l’Ufficio di Ricerche per l’Igiene Razziale trova il presunto gene dell’istinto al nomadismo! Due anni dopo, Himmler emana una Circolare sulla lotta alla nocività degli zingari, una piaga di “sangue misto e degenerato”. Sempre nel ’38 viene pubblicato die Zigeunerfrage, La questione zingara, fondamento ideologico dello sterminio, che viene “ratificato” nel 1941 dalle etichette biologiche z, zm…e attuato dal 1943 con la  soluzione finale. 

In Italia, richiamandosi al loro nomadismo, un provvedimento del 1872 prevedeva il controllo e il respingimento alle frontiere delle famiglie romanés e la proibizione di entrare nella penisola. Nel 1914, Il giudice Capobianco pubblica il saggio Il problema di una gente vagabonda in lotta con le leggi, per la quale la sorveglianza non è mai eccessiva e infruttuosa, dove reclamava un intervento tempestivo delle autorità contro il dilagare del crimine zingaresco, la schedatura giudiziaria e certificati antropometrici, reclusione-espulsione: da lì a poco saranno resi obbligatori il fermo preventivo e la schedatura.
Nel 1926, il Ministro dell’Interno ordina ai prefetti di impedire di entrare in Italia anche se muniti di regolari documenti, attuando quei respingimenti alle frontiere oggi così abituali. Sebbene non ci sia esplicito riferimento agli zingari nelle Leggi razziali, è pur vero che si sostiene che “le mutazioni regressive e quindi ereditarie…gli incroci dal punto di vista psichico-morale potevano inquinare la razza”, concetto poi esplicitato dall’antropologo Guido Landra, nel 1940 che in 
La difesa della razza li definisce “individui asociali eterni randagi senza senso morale”. L’11 settembre dello stesso anno, con la circolare n. 63462/10, il capo della polizia Bocchino dispone l’internamento specifico dei Rom e Sinti. 
Il XX secolo si chiude in Italia con accorte misure di sicurezza: “Schedati oltre 300 bambini –schiavi- ai semafori…una sorta di schedatura che ha come obiettivo la loro tutela” , su "La Stampa" del 20.01.1999. 

Nulla di nuovo quindi nella proposta estiva di quest’anno, anzi estremamente coerente con l’idea, che da un po’ serpeggia anche in Italia, di verificare la procedura di adottabilità dei bambini rom “per farli diventare buoni cittadini”. Così Elena Donazzan, Assessora all’istruzione, alla formazione, al lavoro e pari opportunità della Regione Veneto, ha detto mesi fa in una sessione del Consiglio regionale che “se si vuole avere qualche speranza che vengano educati, bisogna togliere i bambini dagli 0 ai 6 anni ai genitori rom e sinti” [2] .
Qualche anno prima Piera Capitelli, dirigente scolastica e sindaco di Pavia, sul complesso problema dell'iscrizione scolastica, aveva affermato: “Nessuno di questi bambini verrà prossimamente inserito nelle scuole perché farlo costituirebbe un incentivo per le famiglie a radicarsi sul territorio” [3].
Spettano a due onorevoli due proposte di legge sul tema. La prima riguarda "Norme per vietare l'ingresso e il transito di nomadi nel territorio della Repubblica nonché per controllare e limitare gli insediamenti esistenti” (onorevole Pezzoli, PDL 5625, 1998). La seconda volta all'Istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione delle donne e dei minori nelle comunità rom presenti in Italia (onorevole Santelli PDL 1052, 2008) dice: “La società degli zingari [...] ammette lo schiavismo e ne fa il principale mezzo di sussistenza: si acquistano e si vendono bambini, li si rapisce, per poi gettarli nelle immonde attività che costituiscono l'unico criterio economico di questo popolo […]. Le donne e i bambini vengono addestrati da subito all'accattonaggio, al furto e indirizzati alla tratta di persone. L'addestramento è feroce, con l'esercizio di qualunque forma di violenza, fino a trasformarli in macchine criminali, capaci di rubare di tutto” [4] .

Dagli anni settanta del XX secolo ad oggi, l’antiziganismo si è sedimentato socialmente, indirizzando e giustificando azioni di governo in difesa dei cittadini: una fabbrica della paura a favore di una politica che da secoli e tuttora incentra sul tema della sicurezza programmi e campagne elettorali.
Se l’opinione pubblica è sorda alla storia, occorre appellarci alla scuola e all’educazione per poter sperare in un nuovo e più umano futuro… La presenza dei rom, dei migranti ci dà la possibilità di costruire “una cultura al plurale”, attraverso la restituzione di laboratori interculturali che promuovano una didattica della pluralità in cui gli alunni siano mediatori culturali e quindi “ponte” per una cittadinanza agita. Verificando colpevoli silenzi e responsabilità nel veicolare i pregiudizi, credo che la Storia possa, debba offrire un’esperienza del profondo atta a ripensare e contaminare la modernità, fornendo le chiavi di lettura per un’ontologia del presente ripartendo dalle “Alterità negate”. A noi insegnanti spetta colmare colpevoli lacune e, attraverso esempi di cittadinanza agita, proporre una riflessione metalinguistica sull’attualità, immaginando un mondo nel quale le coscienze siano allertate a vigilare e farsi divenire.

Alla luce della manipolazione dell’immaginario, che ha sancito il confine tra “persone” e “non-persone”, dialogare con gli alunni insegna a ridefinire mappe etnografiche per ri-orientare l’Antropologia dell’Educazione dal piano della conoscenza a quello del riconoscimento dell’Altro. Una storia ancora tutta da scrivere…insieme. Perché ...
“Noi, rom, siamo belli, ma ovunque il vostro mondo ci imbruttisce” 
[5] .

Note

1. Vedi, per esempio, Elisa Marchi, I Rom e lo Stato, 2011, reperibile in "ADIR- L'altro diritto".
2. Cfr. I bambini rom vanno tolti ai genitori, "La Nuova Venezia", 27.12.2017.
3. L'episodio è ricostruito da Giovanni Giovannetti in "Per gli zingari Sinti un moderno lager oltre la tangenziale", "direfarebaciare".
4. Cfr. Maurizio Cermel, "Porrajmos. Un olocausto dimenticato?", Seminario Università Ca' Foscari, 2011.
5. Dalla “Dichiarazione d’indipendenza e d’amore”, 2016, del "Movimento del 16 Maggio", fondato in ricordo della rivolta di uomini e donne rom contro i nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz Birkenau il 16 maggio 1944; 

Di che cosa parliamo


La rubrica è animata dalla convinzione che dialogare con gli alunni insegna a ridefinire mappe etnografiche per ri-orientare l’Antropologia dell’Educazione dal piano della conoscenza a quello del riconoscimento dell’Altro, conferendole quella dimensione dinamica di rinegoziazione di punti di vista diversi, che decostruiscono nuove e più oculate forme di colonialismo culturale.
Dal brusio delle buone pratiche alla memoria condivisa, resistere alle tendenze omologatrici della  globalizzazione e promuovere un percorso, che, partendo dalle “alterità negate” e attraverso esperienze sul campo,  rappresenti una svolta etica interculturale. Promuovere e condividere la magia dell’educazione, che è un lavorare con e non sugli alunni, andando oltre la siepe della propria cultura, scoprendo il “filone d’oro”  che è in ognuno di loro. Gli alunni ci ricordano che non si può essere maestri se non si è sempre scolari, in un interscambio proficuo e sodale, verso un’educazione aperta ai riposizionamenti dettati dalle esigenze dall’umanità attraversata, prendendo appunti all’insegna di una possibile, rinnovata umanità, vedendo nell’Altro, che si sottrae all’invisibilità,  “qualcosa di buio in cui si fa luminosa / la vita” (Pasolini, La Guinea).

L'autrice


Laureata in Lettere e in Discipline Etno-Antropologiche, insegna Materie Letterarie a Roma. Dopo il conseguimento del Master in Filosofia e Interculturalità,  ha  ideato e promosso progetti di innovazione, di ricerca/azione, convegni e laboratori multiculturali anche in coordinamento con ONG e docenti dell’Università di Roma “La Sapienza”.
Collaboratrice di Alberto Sobrero all’Università di Roma “La Sapienza”, ha al suo attivo vari interventi saggistici su riviste di ambito letterario, poetico e filosofico. 

 

Antonella Tredicine, Pier Paolo Pasolini, “scolaro dello scandalo”, Verona, Ombre corte, 1975​,  pp.135, euro 13,00

Il lavoro nasce dalla convinzione che nell'opera di Pasolini vi siano gli strumenti critici per contrastare un processo di progressiva omologazione delle menti e per cogliere le "sfumature rischiose ed emozionanti delle differenze". In questa direzione la Scuola è il primo fronte contro il pregiudizio; su di essa grava il compito difficile ed esaltante di produrre uomini e donne uguali e diversi. In questo volume l'autrice, con le opere di Pasolini sotto il braccio, ci permette di seguire la sua pratica quotidiana nell'esperienza interculturale, fra ragazzi che spesso sono considerati, per usare un'espressione di Pasolini, poco più che "stracci della storia". È un percorso non breve, esposto a successi e fallimenti, che da parte dei docenti richiede una continua rinegoziazione della propria esperienza, e da parte della Scuola come istituzione, una piena consapevolezza del proprio ruolo nella costruzione di quella società diversa, che è ormai alle porte.
(Da www.ombrecorte.com)

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Leggi su insegnare la recensione di Alberto M. Sobrero