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di Mauro Pirasl'arte politica

12/11/2015

Lettera aperta agli amici del cidi

Giovedì scorso sono stato all’apertura dell’anno Cidi a Torino. I due relatori erano Giuseppe Bagni, presidente nazionale del Cidi, e Domenico Chiesa che, come si dice, non ha bisogno di presentazioni. Un incontro importante, per le personalità, e per il momento, segnato dall’approvazione della riforma della scuola (Legge 107/2015), e dalle divisioni che ha scavato tra i docenti. Ne sono nate queste riflessioni.

Care amiche, cari amici del Cidi,

quando sono venuto all’incontro giovedì scorso, sapevo che le critiche alla legge di riforma della scuola sarebbero state molto dure, ma sapevo anche ci conosciamo bene, che i legami sono di lunga data e fondati sulla stima reciproca, quindi che l’incontro sarebbe stato fecondo. E lo è stato. Certo, mi ha colpito che l’opposizione alla Legge 107, da parte dei relatori, fosse a tutto tondo, sulla base del presupposto che essa sarebbe sostenuta da un unico e fortissimo intento ideologico neoliberista. A me questa legge sembra molto più un bricolage improvvisato, con alcuni elementi di ideologia meritocratica abborracciata, e molti pezzi di altre cose messe lì disordinatamente, alcune utili altre dannose. Ma Bagni e Chiesa hanno buoni argomenti. Per esempio sui pericoli della competitività e di un eccessivo individualismo, soprattutto nella scuola primaria. Quindi fin qui tutto bene. Anzi ho, come sempre, imparato qualcosa di fondamentale. Soprattutto quando lo sguardo si è spostato sulla didattica. Bagni ci ha ricordato che alla fine apprende solo chi vuole apprendere, cioè chi ama quello che studia, e che un insegnante deve mirare a questo, a far amare quello che insegna, non a svolgere i programmi, mettere i voti, riempire la testa dello studente di nozioni ecc. Nella crisi che attraversa oggi la scuola superiore, questa esortazione, per quanto ovvia, dovremmo ripetercela ogni giorno. E Domenico Chiesa ci ha ricordato un’altra ovvietà sempre sul punto di essere dimenticata: il voto è lo strumento peggiore per incentivare all’apprendimento, perché il voto inchioda a un momento e a una prestazione, stabilisce gerarchie, genera frustrazione.

La mente segue queste riflessioni, e si dice che oltre la politica bisogna ritrovare il terreno di intesa su questi problemi. Ma resta sempre qualcosa che stona, in quello che sento, qualcosa che mi mette a disagio, mi lavora dentro. Che cosa? È una impostazione generale, ideologica, direi, del discorso dei relatori, e condivisa da quasi tutto l’uditorio. Spesso gli amici “più di sinistra” (di me) mi hanno criticato, in questi mesi, per non aver voluto guardare il contenuto ideologico della legge, cioè il progetto generale che ci sta dietro, una certa concezione delle persone, dei rapporti umani nel mercato. Accetto questa critica, forse il mio sguardo è stato troppo miope, troppo attento ai dettagli. Ci tornerò. Ma intanto, accettando questo modo di leggere le cose, dico alcune cose sull’“ideologia” che sta dietro i discorsi ascoltati al Cidi. Uso però il termine “ideologia” in senso neutro, banale, come visione e progetto generale. Non quindi in senso negativo.

Quello che vedo è questo: una concezione da “avanguardia rivoluzionaria”, che conosce il bene in anticipo sulle masse, e si irrita se la politica segue invece gli umori della maggioranza, dell’opinione pubblica. Bagni e Chiesa hanno detto che la legge di riforma della scuola è demagogica, perché risponde a certe richieste che vengono dalla società, la quale a sua volta ha una visione conservatrice e distorta della scuola. La società vorrebbe più merito, più competizione, un maggiore ruolo delle famiglie, la scuola come servizio ai clienti, e la legge offre queste cose. Alla ricerca del consenso elettorale sul breve termine, il governo si muove con una strategia di marketing: risponde alle esigenze più sentite, offre la merce che si vende meglio. C’è molto di vero in questo, dato lo stato delle nostre democrazie; ed è vero che il populismo di Renzi lo spinge a cercare un rapporto diretto con certi umori dell’opinione pubblica, scavalcando i corpi intermedi (i partiti, i sindacati) e le istituzioni (il parlamento, la scuola). C’è molto di vero, ma respingere senza mediazioni “gli umori delle masse” non è la soluzione giusta.

La democrazia, da sempre, vive in una tensione inevitabile: da un lato, la maggioranza espressa dai cittadini è la fonte di legittimazione delle deliberazioni pubbliche; dall’altro, questa maggioranza può essere manipolata, ricercata e ottenuta con strumenti non democratici (propaganda, marketing ecc.). I cittadini attivi, animati da spirito critico, spesso diffidano degli umori delle maggioranze, per la seconda ragione. Allo stesso tempo, si richiamano alla democrazia, quindi non possono negare il primo principio. Quanto è espresso dall’opinione pubblica deve essere oggetto di critica e dibattito pubblico perché rischia di generare la dittatura della maggioranza. Tuttavia, questo pericolo non deve mai far dimenticare il principio di legittimazione iniziale. Quindi, il sospetto nei confronti delle “maggioranze” non può essere pregiudiziale. Purtroppo, invece, ho avvertito negli interventi al Cidi una intonazione che tende ad assumere questo sospetto pregiudiziale. Cerco di spiegarmi meglio.

Se si dice che la legge è demagogica perché risponde alle richieste della società, senza analizzare che cosa effettivamente la società vuole dalla scuola, questa critica è frutto di un sospetto pregiudiziale. In piccolo, qualcosa del genere si avverte nei rapporti dei docenti con le famiglie: quando queste criticano l’operato dei docenti, in prima battuta la reazione di questi ultimi è di diffidenza. A priori, le famiglie sono sentite come ostili; ma soprattutto, si presuppone che le loro critiche nascono da una prospettiva distorta sulla scuola. Invece, le critiche andrebbero prese per quello che sono, e accettate se giuste. Analizzandole una per una. Lo stesso avviene nei rapporti generali tra la scuola e la società. Chi lavora nella scuola tende a diffidare pregiudizialmente di chi ne sta fuori; e quindi tende a pensare che le richieste della società siano necessariamente distorte, non ricevibili. Cerchiamo invece di vederne alcune.

In sostanza, girano tutte intorno alla valutazione dei docenti. Le famiglie sono stanche di alcune cose. Prima di tutto, del fatto che la qualità dell’insegnamento sia affidata al caso: quando si mandano i figli a scuola si dice sempre “è una questione di fortuna”, perché non si può sapere se gli insegnanti saranno buoni o meno buoni. Quindi ci si aspetta qualcosa che permetta di migliorare e rendere più affidabile la qualità della didattica. In questo senso, per esempio, ci si può aspettare che il lavoro dei docenti sia valutato, anche da parte del loro superiore diretto, cioè il dirigente scolastico, che è la persona più vicina a quel lavoro. Inoltre, le famiglie vorrebbero che gli insegnanti del tutto inadempienti fossero sanzionabili, in qualche modo, per ridurre i danni che possono fare agli alunni. Ancora, non capiscono perché la retribuzione dei docenti debba essere uguale per tutti, anche quando appare evidente che ci sono docenti che si impegnano a fondo, e altri che si limitano a ripetere schemi sempre uguali, o addirittura tirano via. Infine, vorrebbero spesso, per la scuola secondaria, una didattica “meno frontale”: una didattica cioè più coinvolgente, basata su uno stile di insegnamento più interattivo e più rispettoso dell’autonomia dei ragazzi. E vorrebbero soprattutto, per tutti i docenti, una maggiore attenzione alla “relazione didattica”, cioè alla qualità del rapporto degli insegnanti con gli alunni.

Non si possono liquidare queste richieste come frutto di una visione conservatrice e distorta della scuola. Bisogna riconoscere che questi problemi ci sono, e proporre soluzioni serie. Bisogna accettare che la valutazione dei docenti va fatta, e impostata in modo che i docenti rendano conto non solo ai dirigenti scolastici, ma anche alle famiglie e agli studenti. Invece proprio questi contenuti della Legge 107, cioè l’introduzione di genitori e studenti nel Comitato di valutazione, e il potere assegnato ai dirigenti scolastici di valutare i docenti, sono stati attaccati come puramente demagogici. Sono i contenuti che vengono considerati frutto di una ideologia meritocratica e antiegualitaria, generata nel corpo sociale dalla vittoria definitiva del “neoliberismo”. Il problema però è che evocare il neoliberismo come causa di ogni conflitto politico o sociale non ci aiuta molto; rischia di diventare la notte in cui tutte le vacche sono nere, perché è semplicemente il tutto dell’ordine sociale che spiega qualsiasi azione sociale. E, più importante, in questo modo si rifiutano le opinioni della maggioranza, perché le si considerano “ideologiche” in senso negativo, marxiano: cioè falsa coscienza. Ed ecco quindi che emerge l’atteggiamento di cui ho parlato: l’“avanguardia politica” rifiuta di prendere sul serio certe esigenze, perché non sarebbero frutto di una coscienza politicamente educata. Insomma, la maggioranza è manipolata, e chi segue la maggioranza è demagogico.

A me qui non interessa il merito della legge. La si può respingere, anche in blocco, mostrando che in ogni punto è completamente fuori strada. E anche mostrando, se si vuole, che è animata da uno spirito individualista e competitivo. Ma non si può sostenere che le richieste provenienti dalla società siano solo questo, rifiutandosi di prenderle sul serio. La democrazia impone di prendere sul serio l’opinione di tutti, altrimenti il principio di eguaglianza viene violato, dalla presunta superiorità degli esperti, delle persone competenti, delle “persone veramente democratiche”, delle “persone veramente di sinistra” ecc. Se la maggioranza è fuori strada, perché non segue il bene additatole dalla minoranza illuminata, questa si chiude in una monotona e triste condanna dei tempi presenti, che rischia di mancare spesso il bersaglio nell’analisi sociale ma, soprattutto, di diventare del tutto impolitica.

Con affetto,
mp

(Torino, 7 novembre 2015)

 

 

 

Cercarono, dunque, di radunarsi e di salvarsi fondando città: ma ogni qualvolta si radunavano, si recavano offesa tra di loro, proprio perché mancanti dell’arte politica, onde nuovamente si disperdevano e morivano. (Platone, Protagora, 322b).

Di che cosa parliamo

La scuola non vive senza la politica e questa non vive senza la scuola. L’arte politica tiene insieme i cittadini nella giustizia, virtù che esiste solo se condivisa e acquisita in un processo educativo permanente. D’altro lato, le finalità sociali della scuola non possono realizzarsi senza una politica orientata a un’idea di eguaglianza e di giustizia. Discuteremo qui temi di attualità politica e politica scolastica, guidati dall’ideale di una società di cittadini eguali e liberi, che trova nelle istituzioni giuste e nella scuola le sue strutture fondanti.

L'autore

Insegna Filosofia e Storia al Liceo Classico “Gioberti” di Torino. Scrive di filosofia politica e teoria sociale, e di attualità politica. È tra gli autori del sito www.leparoleelecose.it.  Coordina il Seminario di Filosofia Politica presso il Centro Einaudi di Torino e si occupa di politica scolastica per il Dipartimento Istruzione PD di Torino.