La pedagogia dell’Attivismo tende a sottolineare - pur con molte sfumature e varianti - i diritti del bambino, la sua spontaneità, la sua naturale bontà, la sua creatività e la sua espressività, la sua esigenza di libertà e di crescita autonoma, il suo bisogno di fare e di apprendere attraverso il fare, di liberazione dalla coercizione e dall’autoritarismo. D’altra parte, con poche eccezioni - il caso estremo è rappresentato dal libertarismo anarchico di Leone Tolstoj (1828-1910) - tutte le pedagogie e le metodologie, comprese quelle attivistiche, si caratterizzano di fatto nel contemperamento di coppie di concetti almeno apparentemente antitetici, quali: libertà/ autorità, spontaneità/regole, autonomia/dipendenza, libero sviluppo/condizionamento, attività disinteressata/educazione finalizzata, natura/cultura, istinto/abitudine, innato/ acquisito, bambinocentrismo/maestrocentrismo, ecc. La libertà e la spontaneità devono sempre fare i conti con dei condizionamenti ambientali e delle scelte educative, le quali inevitabilmente comportano il riferimento a un modello di donna e di uomo storicamente e socialmente determinato, che l’educatore fa proprio più o meno consapevolmente.
Scrive Giorgio Bini a proposito del ‘900 (in La pedagogia attivistica in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1971, pp.7-8): “Il secolo che iniziava doveva essere il secolo del fanciullo, l’auspicava Ellen Key. Nel campo dell’educazione bisognava liberarsi dall’idea della perversità innata dell’uomo, del peccato originale e accogliere la nuova idea di un’educazione secondo natura”.
Dal canto suo Ellen Key (in Il secolo del fanciullo, Milano, Bocca, 1906, p.70, cit. in Giorgio Bini, op. cit, pp. 7-8) aveva puntualizzato che: “Educare vuol dire permettere che la natura lenta e sicura lavori da sé, ed impedire alle circostanze di contrariarla. Insegnate ai fanciulli a guidare, a contenere le loro passioni, ma non cercate di soffocarle. Lo studio continuo di opprimere la natura propria del bambino per sostituirgliene un’altra è il gran delitto pedagogico che commettono anche i più caldi fautori - a parole - di un’educazione individuale”.
In queste parole, che esprimono una visione puerocentrica (o bambinocentrica) dell’educazione, si evincono facilmente i vincoli a cui comunque l’educando non può non sottoporsi, seppur senza una coercizione pesante: bisogna “impedire”, “insegnare”, “guidare”, “contenere” e, con tutto rispetto dei suoi diritti, il bambino inevitabilmente viene sottoposto a una “autorità” e a dei “condizionamenti”: non v’è natura senza cultura e senza società, con le loro esigenze e limitazioni. L’educazione può essere non repressiva (e personalmente ritengo che sia possibile e oggi doverosa un’educazione non autoritaria orientata alla democrazia), ma esige comunque una guida adulta.
Più specificamente, in ambito cattolico, l’educazione non può prescindere da alcuni valori fondamentali, come chiaramente teorizzato dal filosofo tomista e personalista Jacques Maritain (1882-1973), sostenitore di un “umanesimo integrale” comprensivo delle dimensioni individuale, sociale e religiosa. Maritain evidenziava il carattere intenzionale dell’educazione, diretta verso la verità e indirizzata alla formazione integrale della persona, individuando “gli errori dell’educazione contemporanea”: “ il misconoscimento dei fini”, “false idee riguardo al fine”, “il pragmatismo”, “il sociologismo”, “l’intellettualismo”, “il volontarismo”, l’idea che “ogni cosa può essere insegnata” (Cfr. Maritain J., 1947, L’educazione al bivio, La Scuola, Brescia, pp.13-40). Si trattava quindi di un’educazione nettamente orientata da una ragione integrata dalla fede, rispetto a cui doveva essere l’adulto consapevole ad assumere le sue responsabili decisioni, ma era dovere dell’educatore indirizzare verso il vero, il bene, il giusto, il bello, in una dimensione oggettiva e metafisica di finalità non controvertibili. Quindi l’educatore doveva condizionare gli educandi
Altre posizioni filosofiche da questo punto di vista portano ad analoghe conseguenze sul piano educativo - è necessario dirigere la formazione delle giovani generazioni - , rimandando anch’esse a valori, quantunque diversi da quelli trascendenti.
Cosi il marxista Antonio Gramsci (1891-1937) polemizzava contro un’educazione spontaneistica in cui non si sapesse da quali influssi ambientali il soggetto “riceverà gli impulsi per le sue abitudini, i suoi modi di pensare, i giudizi morali”: se si rinuncia ad “intervenire” e “guidare”, “usando dell’autorità”, “avverrà senza alcun dubbio che la formazione spirituale sarà il risultato meccanico dell’influsso casuale di tutti gli stimoli di quest’ambiente. Io ho l’impressione che le generazioni anziane hanno rinunziato a educare le generazioni giovani”(Antonio Gramsci, Lettere dal Carcere, Einaudi, Torino, 1965, cit . in Manacorda M. A. (a cura di), 1972, Antonio Gramsci, L’alternativa pedagogica, La Nuova italia, Firenze).
Sul piano psicopedagogico il fatto che non si può non condizionare è teorizzato radicalmente dal Comportamentismo. Scrive John B. Watson (1878-1958): “Datemi una dozzina di bambini sani e normali e consentitemi di organizzare a mio modo l’ambiente in cui educarli. Vi garantisco che potrei trasformare ognuno di loro in un qualsiasi tipo di specialista – dottore, avvocato, artista, commerciante, e, perché no?, anche mendicante e ladro - indipendentemente dal loro talento, dalle loro inclinazioni, dalle loro tendenze, abilità ed orientamenti e dalla razza dei genitori” (J. B. Watson, A proposito degli istinti, in Meazzini P., (a cura di), 1976, Watson, Il Mulino, Bologna, pp.111-112).
Tale posizione paradossale ipotizzava una situazione limite, quella del totale controllo della formazione di un soggetto da parte di una sola persona, il che di fatto è irrealizzabile. Essa non teneva conto della inevitabile problematicità degli esiti dei processi educativi, dei quali è di fatto impossibile controllare tutte le variabili. È vero però che in una società chiusa e autoritaria è più facile esercitare il controllo che in una società aperta e pluralistica, che a volte corre il rischio dell’anomia, cioè della mancanza di regole e di punti fermi di riferimento nell’orientare la vita degli individui.
Resta il fatto che l’autorità può essere soft o hard, suadente o persino violenta. È una questione di equilibrio, ma si tratta sempre di esercitare più o meno efficacemente un’autorità. Anche senza autoritarismi.