... laddove, a partire dalla vicenda di Socrate, si affronta il tema del rapporto del cittadino con le leggi.
I Sofisti, Socrate e le leggi
Nel V-IV sec. a.C. si sviluppò in Grecia – e particolarmente nelle città a regime democratico, come Atene – la Sofistica.
I Sofisti con lunghi discorsi miravano alla persuasione mediante un saper parlare abile e suggestivo, puntando principalmente sulla capacità comunicativa. Loro principale problema era “la formazione dell’uomo politico”: essi erano “i primi professori d’insegnamento superiore”, “uomini di mestiere per i quali l’insegnamento è una professione, la cui riuscita commerciale attesta il valore intrinseco e l’efficacia sociale”. Era loro necessario procurarsi “una clientela” attraverso “una serie di procedimenti pubblicitari”, andando “di città in città in cerca d’allievi”, lì effettuando “un’esibizione”,“proponendo conversazioni di propaganda” a prezzo promozionale ed esercitando una “onesta pubblicità” non esente da “una certa ciarlataneria” (cfr. H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium, Roma, 1971. pp. 77-94).
Erano insegnanti, ma anche un po’ giornalisti, in quanto attraverso il loro girovagare facevano circolare nuove notizie e nuove idee , esperti in comunicazione efficace e in marketing ; precursori degli avvocati, insegnavano ai loro clienti a difendere direttamente in tribunale le proprie cause. Per certi versi succedeva allora pressappoco quanto avviene oggi, in tempi in cui predominano la suggestione comunicativa e i sondaggi, per cui si dice ciò che la gente vuole sentirsi dire nel modo in cui essa ama sentirselo dire: l’apparire prevaleva sull’essere, l’immagine sulla sostanza, il topos (luogo comune) sul logos (discorso razionale).
Le esigenze etiche di coerenza, politiche di competenza, conoscitive di verità, che animavano Platone, non potevano che contrapporre i Sofisti al suo Socrate.
Platone, nell’Apologia, sottolineava l’estrema limitatezza della conoscenza di Socrate, affermando questi di non riconoscersi sapiente, ma anche l’ignoranza di coloro che credevano di sapere, ma in realtà non sapevano.
Il filosofo, rivoltosi a un uomo politico, affermava : “Conversando con lui, parve a me che quell’uomo sembrasse sapiente a molti altri uomini, ma che in realtà non lo fosse. Mi provai perciò a dimostrargli che egli si credeva sapiente, ma in realtà non lo era." Conseguentemente, continuava: “Certo io sono più sapiente di quest’uomo. E infatti sembra che di noi due nessuno sappia alcunché di bello e di buono, ma lui ritiene di saper qualche cosa e non lo sa; io invece non so nulla, ma neanche credo di sapere. Mi sembra dunque ch’io sia più sapiente di lui almeno in questo poco, che non credo di sapere quello che non so.”
Nella sua ricerca di un autentico sapiente, Socrate si era rivolto ai poeti, ma aveva scoperto che anche loro dicevano “molte e belle cose”, ma senza sapere nulla di ciò che dicevano. Si era accorto che lo stesso più o meno valeva per gli artigiani, i quali sapevano cose che egli non sapeva, e in ciò erano più sapienti di lui. Ma, “per il fatto stesso che disimpegnava bene la propria arte, ciascuno presumeva di essere sapientissimo anche nelle altre cose di maggiore importanza. E questo errore offuscava la loro sapienza”.
La conclusione di Platone era che “il più sapiente tra gli uomini è colui il quale sa, come Socrate, di non avere alcun pregio in fatto di sapienza” (cfr. Apologia di Socrate, capp. VI, VII, VIII).
Nel Critone, dopo la sua condanna a morte, viene proposto a Socrate di fuggire dal carcere, ma egli rifiuta decisamente tale possibilità e immagina che le Leggi stesse così gli si rivolgano qualora attui questa ipotesi: “Noi, che ti abbiamo generato, allevato, educato, e che abbiamo fatto partecipi di tutti quei beni che erano in nostra facoltà te e tutti quanti gli altri cittadini, prescriviamo che colui al quale eventualmente, noi non siamo gradite possa benissimo uscire dalla città, prendendo tutti i suoi beni, e andarsene dove voglia”. Esse affermano, proseguendo, che chi resta nella polis “di fatto, ha dato il suo consenso” ed è quindi tenuto all’obbedienza dopo aver attribuito implicitamente l’adesione alle sue norme. Se così facesse, le Leggi rimprovererebbero a Socrate: “Egli nemmeno cerca di persuaderci che facciamo non bene di qualche cosa” e, mentre “noi permettiamo di persuaderci o di ubbidire, egli non fa né l’una né l’altra di queste”: infatti,“che altro fai – lo rimproverano - se non trasgredire quei patti e quegli accordi con noi, che tu avevi accettato non perché costretto né ingannato, e neppure perché costretto a decidere in poco tempo, ma in un periodo di ben settant’anni, durante i quali ti era permesso di andartene, se noi ti eravamo sgradite e se gli accordi non ti sembravano essere giusti.” Ma a Socrate “più che a tutti gli altri ateniesi piacevano la città e, evidentemente, le Leggi. E ora non vuoi stare agli accordi?” esse chiedono (Platone, Critone, capp. XIII-XIV).
Mi pare plausibile che Socrate condividesse con i Sofisti l’idea della convenzionalità delle Leggi, ma fosse anche convinto del loro carattere moralmente vincolante per chi avesse voluto godere i vantaggi che esse comportavano nella convivenza civile, non attribuendo loro una mitica sacralità, ma un’obbligatorietà derivante dal consenso.
La Sofistica, partendo da una posizione relativistica sul piano della conoscenza, dell’etica, del diritto e della politica (“l’uomo è misura di tutte le cose” sosteneva Protagora), elaborò la distinzione tra natura e convenzione, la prima essendo stabile, la seconda essendo caratterizzata da regole frutto di accordo fra gli uomini e quindi variabili nello spazio e nel tempo; a tal punto che secondo il sofista Antifonte “giustizia consiste nel non trasgredire alcuna delle leggi dello Stato di cui uno sia cittadino; e perciò l’individuo applicherà nel modo a lui più vantaggioso la giustizia, se farà gran conto delle leggi, di fronte a testimoni, ma in assenza di testimoni, seguirà piuttosto le norme di natura; perché le norme di legge sono accessorie, quelle di natura, essenziali, quelle di legge sono concordate, non native, quelle di natura, sono native, non concordate. Perciò, se uno trasgredisce le norme di legge, finché sfugge agli autori di esse, va esente da biasimo e da pena; se non sfugge, no. Ma se invece violenta oltre il possibile le norme poste in noi da natura, se anche nessuno se ne accorge, non minore è il male né è maggiore se anche tutto lo sappiamo; perché si offende non l’opinione, ma la verità.” Infatti “la maggior parte di quanto è giusto secondo legge, si trova in contrasto con la natura”, che sostanzialmente prevede da parte di ciascuno la ricerca dell’utilità e del piacere, il che condurrebbe al trionfo della legge del più forte (fr. 44 dell’edizione Laterza de I Presocratici).
Risulterebbe comunque da ciò che il punto nodale del contrasto fra Socrate ed i Sofisti non fosse la sacralità delle leggi, a cui nemmeno Socrate credeva, ma l’esigenza etica della coerenza dell’obbedire loro da parte di coloro che usufruivano dei vantaggi da esse derivanti.
La faccenda sembra essere ancor oggi di un qualche interesse.
Relativismo, responsabilità e democrazia
Il cardinale Joseph Ratzinger, futuro Benedetto XVI, l’8 aprile 2005, presiedendo la cerimonia funebre per Giovanni Paolo II, pronunciava un discorso in cui affermava: “Il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e lá da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”.
Compariva qui una forte denuncia della “dittatura del relativismo”, ricondotta alle “voglie dell’io”: una posizione abbastanza diversa, almeno nello stile e nei toni, dalle posizioni del papa attuale. Sarebbe infatti almeno talora da ricondurre tale “relativismo”, piuttosto che a “voglie” capricciose, a una onestà intellettuale che è troppo facile attribuire al capriccio di taluni. ”La questione per chi non crede in Dio sta nell’ obbedire alla propria coscienza. Il peccato, per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza”, risponde a Scalfari papa Bergoglio: “Io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità ‘assoluta’”(in Dialogo fra credenti e non credenti, Einaudi-La Repubblica, Roma, 2013, p. 42).
Nell’ambito delle concezioni filosofiche e pedagogiche, si possono individuare due fondamentali opzioni teoriche in merito al problema dei valori: quella che li riconduce a un orizzonte oggettivo, assoluto, metafisico, universalmente e necessariamente valido, e quella che li rapporta a orizzonti di senso storici, antropologici, esistenziali, quindi plurali, legati allo spazio e al tempo, a opzioni individuali o collettive, a valutazioni di efficacia rispetto alle esigenze umane. All’interno di questa seconda posizione, Gustavo Zagrebelsky (in Contro l’etica della verità, Laterza, Roma-Bari, 2008) da un lato pone il “relativismo” come correlato della “democrazia”, dall’altro lo distingue dallo “scetticismo” e dal “nichilismo”. Una democrazia, “relativistica, non assolutistica” per definizione, include - a mio avviso - un ampio spazio per valori non assoluti, ereditabili all’interno di una tradizione, ma anche esistenzialmente decisi in un contesto di scelte non garantite, che vede gli uomini come produttori dei valori stessi. “La democrazia – scrive Zagrebelsky nel suo “decalogo contro l’apatia politica”– implica la rivedibilità di ogni decisione (sempre inclusa quella sulla democrazia stessa). Le soluzioni definitive ai problemi, senza possibili ripensamenti e correzioni sono dei regimi della giustizia e della verità assolute. In quanto perennemente dialogica, la democrazia non ha e non può volere verità né a priori, come frutto per esempio di mandati divini, né a posteriori, come conseguenza di decisioni popolari, anche se unanimi . La strada per dire ‘ci siamo sbagliati’ deve restare sempre aperta” (cfr. ivi, pp. 122-131).
Una lettura antidogmatica del concetto di valore - il quale non è un dato empirico, né una verità logica, e come tale non è verificabile né falsificabile - può portare alla messa in primo piano delle responsabilità e delle scelte politiche, individuali e collettive. È per questo che le Costituzioni democratiche, per quanto rigide - come quella italiana - prevedono procedure di revisione, possibili quando vi sia una chiara e forte volontà politica in questo senso. Se i tradizionali fondamenti del potere non sono più né in Dio (diritto divino) né nella natura (diritto naturale), fungerà quindi da fondamento un tertium che sia contemporaneamente esito di un processo storico e di una condivisione di fatto, cioè istituzioni che diano una concreta possibilità di esercizio a poteri costituzionalmente previsti in una democrazia rappresentativa.
Mi sembra dunque applicabile alla nostra democrazia la saggezza socratica: se non facciamo, a nostre spese, obiezione di coscienza, o se non ci avvaliamo, con quanto ne consegue, della possibilità di ribellarci all’ordine costituito, la civile convivenza non può che essere garantita dall’autorità della Legge fondamentale dello Stato. Non dalla Verità né di Chiese né di Imperi.