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di Simonetta Fasoliscuola, tra il dire e il fare

05/12/2022

Ugualmente differenti

Sulle pagine del quotidiano "la Repubblica" del 28 novembre scorso Achille Occhetto invita la sinistra “a considerare come presupposto della propria identità il fatto che se in una democrazia la libertà non coincide con l’uguaglianza di tutti gli esseri umani non basta dirsi democratici.” Subito dopo, articola ulteriormente il discorso, affermando che “questo presupposto ci consiglia di porre al centro di tutte le sinistre il tema dell’uguaglianza e quindi di una giustizia sociale che muove decisamente nella direzione della redistribuzione strutturale, e non meramente assistenziale, della ricchezza, delle pari opportunità e del sapere.” [1].

Vorrei cominciare da qui, per circoscrivere l’ambito tematico di questo contributo, evidenziandone la centralità all’interno delle politiche e in particolare delle politiche scolastiche, quelle che più da vicino ci riguardano. La questione della ridistribuzione dei beni, a partire dal bene immateriale della conoscenza e dell’istruzione che ne è il veicolo, mi sembra cruciale, a fronte delle crescenti disparità che caratterizzano più che mai il tempo presente, con un andamento da progressione geometrica. È in questo nodo, infatti, che possiamo intercettare il punto di intersezione tra l’idea illuministica di uguaglianza e la teoria della giustizia come equità: l’equità non è contrapposta, né tantomeno alternativa, all’uguaglianza; semmai tende a ricomprenderla dentro l’orizzonte della società complessa. Fondamentale, al riguardo, il riferimento a John Rawls [2].
In estrema sintesi: mentre l’eguaglianza, astrattamente intesa, si ispira al principio dell’uniforme distribuzione dei beni, l’equità – secondo l’approccio teorico appena richiamato – si propone come declinazione contemporanea dell’eguaglianza, assimilando la giustizia ad un criterio distributivo dei beni in cui non contano solo i “livelli medi” complessivi, ma anche le regole di distribuzione tra gli individui e/o i gruppi. Cardine di questo assunto è la possibilità di assumere le disuguaglianze non per cristallizzarle, ma per adottare criteri di azione politico-sociale favorevoli per gli svantaggiati (il cosiddetto “principio di differenza”).

Un punto deve essere chiaro, per evitare uno slittamento di significati (come quelli a cui da tempo stiamo assistendo): il principio, che è anche valoriale, dell’eguaglianza, va tenuto fermo e non “sfumato” verso l’equità come se fosse un retaggio ottocentesco superato (che non succeda, per intenderci, quello che è successo per l’obbligo dell’istruzione, disinvoltamente riformulato dalle cosiddette riforme come diritto-dovere…). Potremmo spingerci a ipotizzare che l’equità sia l’approccio che traduce il principio dell’eguaglianza nelle società complesse. In termini di progetto politico-culturale, significa prendere sul serio le differenze che caratterizzano necessariamente la complessità ma presidiare al tempo stesso i processi di medio-lungo periodo affinché non diventino disuguaglianze.

Cosa vuol dire, questo, in educazione? E’ indubbio che, tra i beni immateriali, la conoscenza si pone come bene primario (appartiene al campo dei diritti non negoziabili) e al tempo stesso fondativo (strumento di accesso/fruizione di altri beni, siano essi materiali o immateriali). Per procedere nel nostro ragionamento, possiamo affermare che un sistema educativo è equo se

1) garantisce le condizioni di accesso al  bene-conoscenza per tutt* e per  ciascun*  (ambito tematico dell’eguaglianza delle opportunità; del diritto allo studio; del carattere unitario del sistema di istruzione);

2) persegue il raggiungimento degli obiettivi formativi delineati negli ordinamenti  ma tutela anche le modalità di distribuzione del bene-conoscenza tra gli individui e/o i gruppi sociali in risposta ai diritti ed ai bisogni (ambito dell’equivalenza degli esiti; delle azioni perequative a livello di sistema, di territorio e di unità scolastica; degli interventi e delle strategie didattiche compensative).

È questo il quadro di riferimento che più direttamente chiama in causa la scuola, intesa come organo costituzionale cui è affidato il compito esemplarmente delineato nell’articolo 3, comma 2: concorrere a trasformare l’uguaglianza formale (affermata nel comma 1) in uguaglianza sostanziale. Per uscire dal campo delle dichiarazioni di intenti, essa deve essere messa in grado di svolgere questo compito: è difficile che ciò sia possibile in una situazione di carenza di risorse, in condizioni strutturali e organizzative inadeguate. Ma su questo la Carta costituzionale non lascia margini di interpretazione: "è compito della Repubblica..." con quel che segue. Non dello Stato, che ne è un'articolazione, ma della Repubblica, come massima istanza in cui si riconosce una collettività.

Nelle prospettive che si stanno considerando in questo contributo, alla scuola compete istituzionalmente porre in essere il percorso che dall’eguaglianza delle opportunità costruisce le condizioni concrete per perseguire quella equivalenza degli esiti, che non ne discende immediatamente. In altri termini è proprio attraverso l’azione di mediazione della scuola che la pluralità dei soggetti, delle identità e delle culture (tipica, dicevamo, delle società complesse e del mondo globalizzato) assunta intenzionalmente, permette alle differenze di diventare generative di modelli solidaristici e non di disuguaglianze escludenti. La mediazione esercitata dalla scuola, di carattere culturale prima ancora che didattico, è infatti un passaggio necessario per superare l’ambiguità insita nella formula stessa dell'eguaglianza delle opportunità, che senza di essa rischia di essere “pubblicità ingannevole”. Quelle persone in carne e ossa che sembrano essere appaiate allo stesso punto di partenza, non sono entità statistiche, ma soggetti che “portano” dentro la scuola storie e condizioni diverse, in molti casi percorsi già segnati da un determinismo sociale tutt’altro che archiviato. Vale allora più che mai il monito di don Lorenzo Milani, secondo cui non c’è peggiore ingiustizia che “fare parti eguali tra diseguali”.

All’interno di questo quadro, può intendersi la cornice istituzionale dell’autonomia scolastica, se non vuole ridursi a mero decentramento di compiti e funzioni amministrative, come in effetti è accaduto: processo che, lo sappiamo, ha messo capo a una pluralità di neo-centralismi. Vale la pena fare qualche ulteriore considerazione in proposito. L’istituzione scolastica è “espressione di autonomia funzionale”, nel senso che realizza le finalità del sistema; ma è anche soggetto titolare di poteri e responsabilità costituzionalmente sanciti (dopo la riforma del Titolo V°) e produce intenzioni e azioni di rilevanza politica: politica nel/del territorio, nella trama interistituzionale di cui è parte integrante. In questo senso, il territorio non è più solo il terminale o il campo neutrale della sua azione progettuale, ma il punto di intersezione tra la mediazione interna alla scuola (scelte di natura organizzativa, didattica, gestionale, esplicitate nel P.T.O.F.) e la mediazione esterna alla scuola (scelte di natura culturale, forme di progettazione integrata, secondo i criteri della cosiddetta “continuità orizzontale”).

Nella prospettiva che qui si suggerisce, un’equa distribuzione del bene-conoscenza e dunque l’equivalenza degli esiti formativi, attenta non solo ai valori statistici ma anche agli effetti qualitativi di coesione sociale dentro un modello cooperativo e non competitivo, postula una scuola capace di elaborare con i suoi interlocutori sul territorio un progetto culturale in cui i percorsi educativo-didattici siano parte di una politica territoriale pensata a sostegno delle fasce sociali deboli.

È significativo il fatto che l’espressione “progettazione integrata” richiami per lo più le esperienze, ampiamente messe in discussione, di “scuola-lavoro”: in realtà, le pratiche inclusive non sono un capitolo, sia pure fondamentale, della pedagogia e della didattica, ma coinvolgono sistemicamente l’intero progetto di cui è responsabile la politica territoriale perseguita dai diversi soggetti, istituzionali e non. Per questo motivo, la progettazione integrata,  ancorata alla regia della scuola che si pone nella piena titolarità del suo specifico mandato,  con le opportunità formative e le risorse strutturali, deve attraversare l’intero percorso scolastico, a partire dalla politiche per l’infanzia e dalle forme istituzionali che hanno assunto (pensiamo al sistema integrato   0/6). È da qui, infatti, che le differenze non “trattate” educativamente possono attivare potenti germi di disuguaglianze: si scavano fossati, si trasformano gap culturali in pretesi “talenti”, si apprende che è meglio correre da soli per vincere, si disegnano futuri rapporti di forza tra detentori di competenze “alte” (dunque produttori forti) e detentori di competenze “residuali” (dunque, consumatori deboli, funzionali al mercato).

Sono consapevole di aver solo dissodato il terreno impervio di questioni che postulano un serrato confronto di idee e di esperienze sul campo: ma questo mi sembra coerente con il senso di uno spazio come questo, che vorrei pensare come stimolo di buone domande e non come repertorio di risposte assertive. Mi piace chiudere con il richiamo ad un’affermazione che ho sentito fare da Domenico Chiesa nel corso del suo intervento al Coordinamento nazionale del CIDI, sabato 26 novembre. Domenico ha detto (lo sto parafrasando, e spero di rendere fedelmente il senso del suo discorso…) che pensa l’uguaglianza come possibilità di compresenza delle diversità: l’ho trovata una sintesi illuminante. Bisogna essere uguali per poter essere ugualmente diversi. Dove l’avverbio è il modo del sostantivo, quello che lo fa intendere nella sua giusta prospettiva.

Note


1. A. Occhetto, "Non basta il pragmatismo. Sinistra significa avere un orizzonte", "la Repubblica", 28.11.2022.
2. 
J. Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, 1982.

Di che cosa parliamo

Contrappunti sulla scuola. Molti dei paradossi della scuola, e attorno alla scuola, nascono dalle separatezze: tra la scuola che si fa e quella di cui si parla; tra i grandi disegni riformatori e l’aleatorietà degli esiti; tra visioni e pratiche...

Si potrebbe continuare. Qui preme sottolineare che una via per rendere compatibili, o addirittura comporre, i diversi piani può essere quella di mettere in luce di volta in volta le dimensioni prioritariamente in gioco: la cornice  istituzionale, le pedagogie sottese o esplicite, l’intenzionalità educativa che si traduce in scelte didattiche, l’orizzonte culturale che dà senso al tutto.

E’ ciò che si propone questo spazio di confronto e riflessione, accettando la sfida di distinguere per meglio analizzare questioni e fenomeni, e al tempo stesso di fare sintesi per comprenderli compiutamente.

L’autrice
 

E’ stata insegnante di materie letterarie nella Scuola secondaria, per circa venti anni, con esperienza prevalente nella Scuola media; dirigente scolastica per i successivi  venti anni nella scuola di base (Scuola media e Istituti comprensivi). Negli anni più recenti (2017/2022) ha svolto attività di insegnamento, in qualità di docente a contratto, nel Corso di Scienze dell’educazione e della formazione presso l’Università la Sapienza. Attiva da lungo tempo nell’associazionismo professionale, è impegnata in particolare in percorsi di ricerca e formazione, rivolti  alle diverse professionalità della scuola sui vari temi attinenti al sistema educativo di istruzione.