Più di tutto, l’odore. L’odore dell’occupazione. E chi è entrato queste ore in una delle scuole occupate in una qualsiasi città sa di cosa si tratta. È come se le aule, i corridoi, i banchi, i muri, l’intero edificio insomma, perdessero strati di pelle.
In un’aula si discute, in un’altra si mangia, in fondo al corridoio si gioca alla play, sulle scale si ascolta musica dividendosi gli auricolari, tra il via vai confuso di studenti che vagano da una classe all’altra, parlano con i ragazzi del servizio d’ordine, salutano i prof e tirano dritto.
Gli istituti occupati rappresentano oramai un momento di passaggio nella vita dell’anno scolastico. Non importa il nome del Ministro dell’Istruzione contro cui urlare, la scuola comunque sprofonda da tempo, e loro – gli studenti – ci provano, per una settimana, dieci giorni – a tirarla su. Niente a che vedere con i ciclostili e gli scontri fisici che accompagnavano le lotte politiche del passato: i rappresentanti dopo aver deciso in assemblea di prendere possesso dell’istituto ne parlano con il Dirigente, prendono impegni, si scambiano reciproche promesse. Se il Dirigente accetta, ovviamente. E spesso non può che accettare.
L’occupazione corre sul web, gli striscioni e gli slogan vengono fotografati ed entrano nelle fotogallery di giornali e comunity nazionali, qualsiasi decisione viene comunicata con un tweet, i contatti su face book valgono più dell’appello sul registro di classe. I siti degli studenti – gli stessi dove durante l’anno ci si passa le versioni di greco e i compiti di matematica – in questi giorni spiegano come si occupa, raccomandano gentilezza ed educazione, richiamano persino l’art. 633 del Codice Penale (invasione arbitraria di immobile) e spiegano come comportarsi in caso di denunce di professori. Consultare per credere: “Occupazione a scuola: istruzioni per l'uso”.
È cambiata davvero l’occupazione. Non che i nativi digitali siano tutti bravi ragazzi incapaci di protestare sul serio, ma la sensazione è che su tutto prevalga il piacere di far parte di un grande movimento, di non sentirsi esclusi e di non sottrarsi a questo impegno di solidarietà tra gli studenti di tutta Italia, che collettivamente hanno persino deciso la data di inizio. A Caserta, la protesta viene ritagliata sui problemi locali, puntando l’attenzione sui problemi ambientali. Anche questo è un diritto per cui vale la pena di “occupare”.
Non tutti sono convinti, certo. Per alcuni alunni è solo un ottimo pretesto per non fare lezione, e dell’occupazione non conoscono nemmeno uno straccio di motivazione; per molti adulti è solo una malattia esantematica, come il morbillo, viene una volta e non torna più sino alla fine dell’anno. Insomma: occupano per essere liberi di fare quello che vogliono. In queste affermazioni c’è un fondo di verità. Ma non è la sola verità delle occupazioni. Dove c’è protesta, dove c’è rabbia, c’è vita, insistono gli studenti, quelli che ci credono, quelli che non accettano – a ragione – di essere disconfermati in questo modo. Siamo appena agli inizi, ma il nodo è tutto qui. Devono essere loro, gli studenti, a crederci per primi. Solo così riusciranno a essere credibili e ad avere una scuola migliore, che meritano e che è loro diritto avere.