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Cidi TorinoSì, cambiamo la scuola (davvero)!

01/06/2015

3. La scuola e il tempo dopo la scuola

La scuola è un tempo della vita, l’esperienza pubblica più importante nell’età dell’infanzia e dell’adolescenza. La scuola cura lo sviluppo della maturità umana e culturale attraverso lo studio riflessivo, l’esperienzialità, l’assunzione di responsabilità personali e collettive, la pratica di azioni con valenza sociale.

La scuola e la partecipazione alla vita pubblica ---vai--->
La scuola, tempo della formazione culturale e laboratorio di vita democratica, prepara alla cittadinanza attiva.


La scuola e il lavoro ---vai--->
Scuola e lavoro rappresentano due esperienze centrali della nostra vita. La scuola è consapevole che consegnando i propri studenti al mondo adulto li consegna anche al lavoro e sa che è fondamentale che il lavoro arrivi quando si è in grado di viverlo con padronanza. Per questo la scuola dell’obbligo rappresenta un'esperienza insostituibile almeno fino a 16 anni.


La scuola e la qualità della vita   ---vai--->
Un adulto sereno nasce dalla gioia con cui riesce a compiere le prime esperienze di apprendimento e collaborazione con altri. L’esperienza scolastica deve diventare un tempo pieno di vita con al centro la soddisfazione di conquistare le chiavi del sapere e il piacere di stare con gli altri.


La scuola e l'apprendimento per tutto l'arco della vita  ---vai--->
L’esercizio della cittadinanza attiva e del diritto-dovere al lavoro impongono oggi un aggiornamento costante della strumentazione alfabetica e culturale: la scuola deve accompagnare in modo flessibile e vario la vita delle persone.



La scuola e la partecipazione alla vita pubblica 
La scuola, tempo della formazione culturale e laboratorio di vita democratica, prepara alla cittadinanza attiva.

Quando si conclude il percorso scolastico è importante disporre della strumentazione necessaria a sostenere le scelte proprie della cittadinanza. La scuola ha una parte non marginale di responsabilità nella costruzione di tale bagaglio che contiene la formazione culturale e umana, senza cadere nell’indottrinamento e nella retorica.
Si può partire da N. Bobbio: «Ciò che sta alla base di uno stato democratico non è il popolo. Sono i singoli cittadini». La scelta dei cittadini al posto del popolo è determinante perché il popolo può essere dis/educato dai mezzi di comunicazione di massa, mentre l’educazione del cittadino presuppone una istituzione, prevista dalla Costituzione, che si chiama scuola pubblica.
È il problema della responsabilità, della capacità che devono avere i cittadini di essere attivi: «la democrazia sarebbe da definire come quella forma di governo che fa di ogni membro della società, in forma maggiore o minore, un individuo responsabile della possibile convivenza di ognuno con tutti gli altri, e quindi della permanenza e persistenza di una libera e pacifica società»; si viene a delineare il concetto di partecipazione alla vita pubblica: «una delle caratteristiche della società democratica, rispetto a tutte le altre, è l’enorme estensione della sfera pubblica».
Emerge anche la necessaria rivalutazione di quel concetto di stato sociale tanto in crisi e tanto offeso: non più nell’idea che lo Stato deve pensare al cittadino ma nella prospettiva di uno Stato che promuove il cittadino, le sue capacità.
La scelta del cittadino
In relazione alla politica, a cui anche la scuola è chiamata a formare le persone, Hannah Arendt sottolinea il significato di luogo “pubblico”, come sede della libertà, come spazio del cittadino singolo e diverso in contrasto con il luogo “privato”, territorio dell’uomo economico, replicante privato di individualità. La convivenza democratica è un prodotto storico della cultura umana, non è determinata dall’esterno ed è faticosa, impegnativa poiché prevede la consapevolezza e la responsabilità del cittadino e il rifiuto della ”servitù volontaria” del suddito..
La democrazia è protetta e garantita solo dalla consapevole, intransigente e cocciuta risolutezza della grande maggioranza dei cittadini, stretti attorno alla cultura dei limiti dei poteri, del principio della responsabilità e del primato della legalità e dello Stato di diritto. Vi è un concetto molto caro a Norberto Bobbio che riassume il senso: «non vi può essere democrazia senza uomini che possiedano gli strumenti e la consapevolezza necessari per farla vivere e crescere».
Il luogo pubblico della convivenza
Il problema non è più quello dell’educazione morale ed etica in generale (su cui tanta pedagogia si è sciupata in retorica), bensì del rapporto tra educazione e società; rapporto che non è indifferente al tipo di società e dunque si coniuga nel rapporto, specifico e fortemente connotato, tra educazione e società democratica.
John Dewey offre una risposta pragmatica ed efficace alla questione di che cosa significa “educare” per una stato democratico e in quanto tale laico: «una società democratica deve avere un tipo di educazione che interessi personalmente gli individui alle relazioni e al controllo sociale, e sappia formare la mente in modo che possano introdursi cambiamenti sociali senza provocare disordini».
Educare alla cittadinanza comprende quindi sia l’educazione alla partecipazione politica nel senso di educazione alla vita collettiva, alla dimensione pubblica, alla legalità e sia l’educazione intellettuale, la formazione culturale.
Il rapporto fra educazione e società democratica
La scuola pubblica è stata la risposta che la Costituzione ha dato al problema del rapporto tra scuola e crescita della democrazia, che ha percorso e segnato il dibattito sull'educazione per tutto il secolo passato e non si è trattato di una scelta preconcetta e ideologica o di parte, ma la risposta individuata come più coerente al bisogno di consolidare la democrazia.
C’è un brano di Tristano Codignola che rappresenta la più efficace lettura dell’indirizzo posto dalla nostra Costituzione: «Tramontato il mito dello stato etico, la Costituzione democratica della Repubblica ha inteso riaffermare che lo Stato non possiede proprie filosofie e che esso esercita la sua funzione primaria, quella educativa, organizzando e confrontando ogni posizione di pensiero».
In questo modo lo stato esercita la propria funzione educativa proprio attraverso la promozione della libertà nella scuola sostanzialmente intesa come «luogo del dialogo». La scuola, in questi e nei prossimi anni, non può che potenziare tra le proprie finalità quella di far crescere, laicamente, valori di civiltà e di solidarietà.
Per farlo la scuola può anzitutto assumere la democrazia come prassi: la scuola è un laboratorio di democrazia, un luogo in cui si praticano regole di democrazia, in cui si respira la democrazia, il luogo dei diritti e dei doveri, della significatività e della certezza delle regole.
Contemporaneamente solo la scuola può formare la consapevolezza e le competenze culturali necessarie per l'assunzione di responsabilità del singolo verso la collettività e per la salvaguardia dell’autonomia del cittadino in quanto titolare di diritti civili e politici.
È questo il compito, il “mandato” che la scuola pubblica ha ricevuto dall’articolo 3 della Costituzione: essere veicolo per rimuovere gli ostacoli che si oppongono alla costruzione della cittadinanza per tutti e quindi lo strumento che la Repubblica stessa dispone per far crescere la democrazia, espressione stessa dell’irrinunciabile vocazione alla democrazia.
Scuola e crescita della democrazia
La scuola (quella pubblica, della Costituzione) non è, dunque, un «bene negoziabile», una merce e neppure un servizio a domanda individuale o di gruppo: è il luogo della cittadinanza e lo scolaro e lo studente non sono né utenti di un servizio, né clienti, né consumatori: sono protagonisti del diritto/dovere di apprendere.
Per questo solo la dimensione “pubblica” è in grado di assicurare che la libertà della scuola non entri in contraddizione con la libertà nella scuola. La scuola pubblica e, in quanto tale, pluralista e laica è in grado di contrapporsi al rischio che il diritto alla libertà di insegnamento entri in conflitto con il diritto alla libertà dello studente e con il diritto alla libertà della “proprietà” della scuola. Al centro si pone il diritto dello studente, di ogni studente, a vivere in una scuola pluralista, e questa può essere garantita solo dalla reale libertà di insegnamento, solo se la scuola, se ogni singolo istituto scolastico, è sede di confronto, è luogo che attiva il confronto.
Il nostro sistema scolastico, tra tante mancanze, possiede un valore che forse sottovalutiamo (e alcuni vorrebbero cancellare): è la sua dimensione “pubblica”, di scuola come prassi e costruzione di democrazia, dove le stesse diversità possono essere usate in funzione di una formazione aperta e tollerante.
Un bene non negoziabile
Per educare nella e alla democrazia, non dobbiamo alterare o sviare in alternative apparenti il centro della scuola: nella scuola la crescita culturale e lo sviluppo della consapevolezza democratica non possono essere pensati separatamente. Ci dobbiamo muovere perciò nella logica del superamento della storica e sterile contrapposizione tra "scuola che educa" e "scuola che istruisce": La scuola educa e lo fa attraverso l’istruzione non ridotta alla trasmissione del sapere, bensì assunta come il risultato di un lungo lavoro di formazione culturale e ricostruzione sociale dei saperi.
In realtà la crescita della scolarizzazione, ovvero della scuola di massa sorretta dal principio del diritto allo studio come diritto all'istruzione, si è sviluppata in un contesto sociale, economico e culturale in cui il rapporto tra formazione del cittadino, formazione culturale e formazione alle professioni non è riuscita a realizzarsi senza forti contrapposizioni o esclusioni: formazione culturale estranea alla formazione del cittadino o caricata da forzature ideologiche, formazione culturale contrapposta o subalterna alla formazione alle professioni. Sono questi i limiti e i vincoli di cui ci dobbiamo liberare. Scriveva qualche tempo fa Giancarlo Lombardi: «...la scuola prima ancora che fattore decisivo di sviluppo economico, è il luogo di acquisizione sistematica e critica della cultura, luogo in cui si promuove lo sviluppo dalle persona umana. La scuola, insomma, prima che risorsa economica, è una risorsa civile in quanto sede dei processi di umanizzazione e socializzazione delle nuove generazioni. Ma è altrettanto vero che una scuola di qualità è in sé condizione indispensabile per lo sviluppo economico del Paese».
Educare alla democrazia

 

La scuola e il lavoro
Scuola e lavoro rappresentano due esperienze centrali della nostra vita. La scuola è consapevole che consegnando i propri studenti al mondo adulto li consegna anche al lavoro e sa che è fondamentale che il lavoro arrivi quando si è in grado di viverlo con padronanza. Per questo la scuola dell’obbligo rappresenta un'esperienza insostituibile almeno fino a 16 anni.
 

Scuola e lavoro rappresentano due esperienze centrali della nostra vita. Nella discussione sul loro rapporto si sovrappongono spesso i due piani su cui si può ragionare sul lavoro: il piano che affronta il lavoro nell’accezione sociologica di “attività umana volta a una produzione o a un servizio che prevede una retribuzione ed è regolata da un rapporto economico/giuridico” e quello che sottolinea del lavoro l’aspetto più generale e culturale legato alla capacità di utilizzare risorse per il raggiungimento di uno scopo in un contesto relazionale e sociale.
In riferimento al primo ambito, lavoro e scuola sono separati dall’età minima per l’assunzione al lavoro e fino a tale età la scuola rimane l’esperienza pubblica determinante come orienta anche la Convenzione 138/1973 dell’OIL (Organizzazione internazionale del lavoro): «Ciascun membro per il quale la presente convenzione è in vigore si impegna a perseguire una politica interna tendente ad assicurare l’abolizione effettiva del lavoro infantile e ad aumentare progressivamente l’età minima per l’assunzione all’impiego o al lavoro ad un livello che permetta agli adolescenti di raggiungere il più completo sviluppo fisico e mentale. (…) L’età minima (…) non dovrà essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, né in ogni caso inferiore ai quindici anni».
Tenendo presente questi due livelli si propone qui che l’incontro con il lavoro sia presente in tutto il percorso scolastico con modalità da delineare con molta attenzione:
- fino a 16 anni: nello studio, nell’esperienzialità, nell’assunzione di responsabilità e autonomia personali e collettive, nella richiesta di azioni con valenza sociale (avere problemi da risolvere, risorse limitate da utilizzare…)
- dopo i 16 anni: come nel periodo precedente e, in più, nelle forme di stage/tirocini, di lavoro sociale, di progettazione individuale e/o cooperativa di manufatti e opere d’ingegno; da questa età diventa possibile il contratto di apprendistato come alternativa di formazione.
La legge 296/06 aveva innalzato l’obbligo di istruzione a 16 anni spostando a tale soglia l’età minima per il lavoro. Con la successiva accettazione dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione anche attraverso la formazione professionale e l’apprendistato si è tornati al limite imposto dalla convenzione OIL del 73.
Qui non possiamo prescindere dalla conferma dell’innalzamento dell’istruzione (da otto a dieci anni) nei bienni unitari della scuola secondaria di 2° grado, dove non si realizzi una specifica preparazione allo svolgimento di un lavoro (propria della Istruzione - Formazione Professionale) bensì il compimento della formazione culturale necessaria per “raggiungere il più completo sviluppo fisico e mentale”, fondamentale anche per l’esperienza lavorativa.
Due esperienze centrali
Nella fascia di età 14-18/19, non essendo conclusa la formazione culturale di base, il lavoro non può ancora avere una valenza formativa autonoma, soprattutto nei primi due anni. Per questo motivo è fondamentale che la tappa della formazione culturale tra i 14 e i 18/19 anni non sia saltata o vissuta in modo non adeguato anche perché non potrebbe essere pienamente recuperata successivamente. Va inoltre sottolineato che le possibilità reali di accesso alla formazione per tutta la vita sono direttamente proporzionali alla qualità della formazione culturale acquisita prima dei 18 anni: anche per la formazione gli svantaggiati sono sempre gli stessi!
Rimane pienamente valido il processo di avvicinamento formativo all’età adulta e poi di successivo consolidamento, suddiviso in grandi tappe dell’esistenza.
Il periodo dell’istruzione (fino ai 16 anni) rappresenta, per tutti, il “tempo della scuola”, della formazione culturale da consolidare e rendere persistente e stabile, dell’acquisizione delle competenze culturali di base in grado di sostenere la capacità di apprendere per tutta la vita. Deve essere articolato in fasce scolari in modo da corrispondere ai bisogni formativi che caratterizzano le diverse età (0-3, 3-6, 6-11, 11-14, 14-16/19)
- Il periodo appena successivo (16÷19 anni) costituisce il tempo del “confine”, dell’intreccio e della contaminazione tra i sistemi formativi (scuola formazione professionale, formazione sul lavoro). In particolare è importante recuperare e far evolvere l’esperienza e l’elaborazione realizzate negli istituti professionali, costruendo un nuovo rapporto con gli istituti tecnici all’interno dei poli della scuola secondaria di 2° grado.
- Nella formazione per tutto l’arco della vita, nel “tempo del lavoro”, la scuola deve rimanere un punto di riferimento significativo sia a livello della riconversione professionale che dell’approfondimento culturale. Sarà fondamentale intercettare l’esperienza e le competenze di cui l’adulto è portatore e dalle quali deve partire il percorso d’approfondimento culturale e professionale.
- Nella formazione per tutto l’arco della vita, oltre il “tempo del lavoro”, la scuola e altre agenzie formative garantiscono, ai soggetti che intendano avvalersene, la possibilità di ricongiungersi idealmente e fattualmente con le esperienze di scoperta conoscitiva e culturale proprie dell’infanzia e dell’adolescenza, arricchite dal bagaglio dell’esperienza vissuta e capaci di rappresentare forme di eredità tra le generazioni.
Scuola e formazione al lavoro nella educazione lungo l’intero arco della vita
Per individuare la cultura che serve al lavoro, si potrebbe semplificare dicendo che “serve” quella cultura che garantisce “occupabilità”, concetto che Luciano Gallino specifica come «una caratteristica personale definibile come una somma variabile di competenze formali, di fare pratico, di capacità di lavorare con altri, di esperienza sul terreno», ovvero la caratteristica che «fa venir voglia a quel dato datore di lavoro di assumere subito l’individuo che risulta possederla (…) mentre gli fa sembrare insensata l’idea di licenziarlo/la quando è un suo dipendente».
La cultura del lavoro è dunque quella capacità di dare operatività ad un sistema di conoscenze, di ordinarle, di organizzarle all’interno di un processo lavorativo. Un dato determinante è che essa si è profondamente trasformata e di conseguenza deve mutare il suo rapporto con la cultura scolastica.
Le modificazioni del mercato del lavoro e l’incremento di complessità e di rapidità evolutiva delle professionalità hanno fatto saltare un equilibrio che continuava a reggere, giustificare e governare l’assetto del sistema scolastico gentiliano tra i 14 e i 19 anni, fondato su una vecchia quanto anacronistica tripartizione: una scuola libera, senza apparenti legami con la dimensione lavorativa (liceale, formativa in quanto “oziosa”); una scuola vincolata al raggiungimento di livelli stretti di professionalità (tecnica) e una scuola interna alla dimensione lavorativa (professionale).
Viene a cadere la tesi che, assumendo la scuola come variabile dipendente e passiva nella programmazione economica, vede il mercato del lavoro come il riferimento meccanico per l’orientamento degli indirizzi professionalizzanti, mentre l’area dei licei può rimanere completamente estranea alle dinamiche e alle trasformazioni del mondo del lavoro, da intercettare solo nella tappa formativa successiva.
Il rapporto scuola-lavoro diventa meno lineare, meno determinato e meno determinabile, più complesso, interattivo, in grado di colloquiare con entrambi i percorsi formativi.
Il mutamento produttivo, economico e sociale, l’evoluzione delle conoscenze e in particolare del sapere tecnologico, sono talmente rapidi da produrre profili professionali caratterizzati contemporaneamente da un’alta specializzazione e da una rapida trasformazione e instabilità; è il concetto, ormai abusato, di flessibilità.
La cultura per il lavoro
© cidi torino, 2015 23/27
Ma come costruire figure professionali flessibili e, contemporaneamente, ad alto livello di specializzazione? Non certo anticipando il momento della specializzazione: i tempi lunghi di formazione specialistica e settoriale caratterizzavano i profili professionali rigidi e duraturi tali da coprire l’intero periodo della vita lavorativa.
Cresce invece l’esigenza di possedere le competenze trasversali e le abilità comunicative e di comprensione/interazione all'interno di situazioni complesse e in forte, continua evoluzione.
Il lavoro insomma, tende ad incorporare quantità sempre maggiori di conoscenze/competenze culturali e non solo nelle fasce di professionalità medio-alte. Ogni area significativa di professionalità presuppone sempre più un livello alto di formazione culturale. Proprio la nuova tipologia della specializzazione legata alle nuove tecnologie e il suo bisogno di flessibilità sono compatibili unicamente con una base di formazione di ampio e consolidato respiro culturale che solo ad un certo momento si orienti e si pieghi verso lo specifico settore professionale. Coloro che non possiedono tale base culturale sono destinati a subire la flessibilità che caratterizza il lavoro e i ricatti che ne discendono.
Tutto ciò deriva dal definirsi di un nuovo concetto di professionalità non più statico (non più raggiungibile una volta per tutte nella vita lavorativa) ma dinamico e attivo; della professionalità come capacità di dare ordinamento, organizzazione e operatività ad un insieme di conoscenze, all'interno di un processo produttivo ampio, costruita su un bagaglio di conoscenze (generale e specialistiche), ma soprattutto sulla capacità di "astrarre" dalle conoscenze, di "operativizzare", di apprendere autonomamente. Si tratta di una professionalità come cultura in atto, come competenza agita: parafrasando Cartesio, professionalità come «cultura attiva».
La nuova idea di professionalità
La ricaduta sulla scuola di questi cambiamenti non può che essere significativa: la scuola assume, per tutti i suoi percorsi, un ruolo centrale nel produrre quella formazione culturale da porre alla base della futura professionalità, senza dover mortificare il compito, che le è proprio, di costruire la formazione culturale comune necessaria ai bisogni di crescita e di identità di tutti i giovani cittadini.
La cultura stessa, nel suo valore autonomo, anche in quanto lascito del passato in dialettica critica e interpretativa col presente, diviene base della formazione alle professioni; la formazione culturale generale e quella specifica non più separate nel metodo e nella funzione. Lo specialismo può avere cittadinanza nella scuola della formazione culturale purché sia in grado di riprodurre, di svelare un abbozzo di visione del mondo.
Alla scuola secondaria superiore si ripropone, già dai primi anni, il compito di costruire le basi culturali delle professioni, vale a dire la formazione di base al lavoro, non di raggiungere professionalità compiute. Se si superano le scorciatoie e le semplificazioni il cambiamento del curricolo nella secondaria superiore con l’estensione di “sensate esperienze” diventa una priorità ineludibile.
La ricaduta sulla scuola
Ma ciò può funzionare solo se accanto alla scuola vengono a trovarsi altri momenti formativi in grado di completare il percorso di avvicinamento alle professionalità compiute: è ancora il bisogno di un vero sistema formativo integrato ad emergere.
Innanzi tutto è determinante che la formazione professionale, attraverso una sua profonda riforma, sia messa in condizione di poter sviluppare pienamente la sua vocazione istituzionale di diventare l'anello di raccordo con il tempo del lavoro liberandosi dalla necessità di surrogare e supplire a compiti propri della scuola, per essere in grado di concentrarsi sugli interventi che le sono specifici: dalla qualificazione iniziale successiva all’obbligo, alle forme di professionalizzazione e di perfezionamento successive al diploma, al sistema di rientri con la scuola secondaria, alla riconversione e riqualificazione della forza-lavoro in mobilità.
Diventa inoltre importante che anche l'impresa si proponga e venga riconosciuta come luogo di formazione, proprio l'impresa che oggi sta enfatizzando il ruolo strategico dei processi formativi come fonte primaria delle risorse umane deve risultare impegnata a raccogliere e potenziare lo sforzo educativo-formativo della scuola e della formazione professionale per rendere reali le valenze formative del lavoro, quando questo sia davvero costruito sulla valorizzazione dell'esperienza umana.
Per una rinnovata formazione professionale
Il concetto di “lavoro” così profondamente ridefinito e coniugato nel tempo scolastico si forma progressivamente fin dalla scuola dell’infanzia, prosegue poi nel primo ciclo e si arricchisce nel secondo ciclo purché lo si intenda in modo non strumentale e di certo non alternativo, anzi intrinseco, alla crescita delle competenze culturali. In particolare si concretizza negli anni della scuola primaria quando il gioco (ambito quasi esclusivo dell’apprendimento e della performance nei primi anni-infanzia, che in seguito diventa modalità/metodologia “ludica” per l’animazione di contesti attivi) viene progressivamente sostituito dall’attività finalizzata a un risultato. Si attiva così il circuito virtuoso processo-prodotto, specifico tra l’altro della didattica laboratoriale: il prodotto contiene il processo di cui è la rappresentazione e solo se è così concepito può essere strumento per la riflessione meta-cognitiva, attraverso la ricostruzione del processo stesso e della propria partecipazione attiva e consapevole al processo.
In tal senso il prodotto concepito come “rappresentazione” del processo (conoscenze e abilità coniugate, attraverso la “competenza”, in un tempo finalizzato a un risultato) contiene l’esperienza stessa dell’allievo, marcata dalla soggettività (stili cognitivi e operativi, posizionamento nel percorso comune, etc.). Il “prodotto” dunque, essendo il risultato di una attività svolta attraverso “azioni competenti” (il soggetto in apprendimento che costruisce l’oggetto della conoscenza insieme agli strumenti cognitivi) si riveste della dimensione “autoriale”.
L’azione “educativa” che aiuta l’allievo a diventare consapevole della responsabilità legata a risultati che lo rappresentano in modo così direttamente personale (allievo “autore” delle proprie produzioni) è formativa sul piano della valorizzazione delle capacità/competenze individuali. Ritorna l’attenzione a quella consapevolezza che è alla base della capacità di interpretare la cittadinanza attiva anche in termini di ricerca di una propria strada per un “successo” sociale, anche lavorativo, basato sull’iniziativa che sfrutta gli ambiti individuali di “eccellenza”. Senza per forza dover competere in modo meritocratico per prevalere sugli altri.
In qualche modo questa impostazione del concetto di “lavoro”, nell’ambiente scolastico che in sé è contesto di cittadinanza (alle varie età per l’età che si ha), può riempire di significato e di contenuti anche le diverse citazioni sul tema del “lavoro” e della “auto-imprenditorialità” presenti nel “Profilo dello Studente” contenuto nelle Indicazioni 2012 per il primo ciclo di istruzione e ora divenuto base del modello di certificazione delle competenze.
Analogamente anche le modalità di tale certificazione dovranno fare i conti con l’intero percorso educativo, nell’intreccio ancora tutto da costruire fra disciplinarità e trasversalità degli apprendimenti.
Processo, prodotto e competenze nella  didattica laboratoriale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scuola e la qualità della vita
Un adulto sereno nasce dalla gioia con cui riesce a compiere le prime esperienze di apprendimento e collaborazione con altri. L’esperienza scolastica deve diventare un tempo pieno di vita con al centro la soddisfazione di conquistare le chiavi del sapere e il piacere di stare con gli altri.

Al contrario di quanto asserisce un luogo comune molto diffuso, la scuola non deve formare ad adeguarsi a vivere nella società-giungla. La scuola, luogo e tempo di umanizzazione per eccellenza, è chiamata a rendere irrinunciabile la forma di convivenza costruita sull’ascolto, sul rispetto, sulla cooperazione per costruire orizzonti di senso condiviso, sulla spinta a concorrere con se stessi per migliorarsi, sul riconoscimento, valorizzazione e sviluppo delle differenze. A scuola la pratica della democrazia deve risultare conveniente per tutti e per ciascuno. Semmai la scuola deve aiutare i giovani a costruirsi le spalle larghe e la strumentazione necessarie per contribuire a superare la società-giungla.
L’esperienza scolastica deve diventare un tempo pieno di vita con al centro la soddisfazione di conquistare le chiavi del sapere e il piacere di realizzarlo con gli altri. Il gusto per il sapere/saper fare deve diventare il “vizio” che non si è disposti a perdere quando si lascia la scuola.
È un obiettivo che può essere raggiunto percorrendo e intrecciando contemporaneamente tre piani: un percorso curricolare che connetta la cultura con la qualità della vita; un reticolo di relazioni umane centrate sull’ascolto, sul rispetto e sulla fiducia; un ambiente (fatto di spazi, tempi, strutture, regole) coerente e in grado di sostenere la crescita umana e culturale.
Il compito della scuola è far crescere i bambini e i ragazzi all’interno di relazioni sociali segnate dalla solidarietà e dalla cooperazione, all’interno della cultura di una città, di una nazione e del mondo intero.
In questo senso la scuola deve rappresentare un coinvolgente luogo e tempo di vita, percepito tale dai ragazzi che in esso crescono e in esso acquisiscono la strumentazione per vivere da persone adulte, per rendersi “padroni della cultura” (Tullio De Mauro), per partecipare ad inventare il mondo, a costruire significati, a rendere possibile il futuro (Jerome Bruner).

La scuola, luogo e tempo della vita
I bambini, i ragazzi, gli adolescenti hanno bisogno di un luogo e di un tempo istituzionalizzato, centrato sulle relazioni umane gratuite, fuori dal mercato e dagli indici di ascolto, per realizzare quel processo di apprendimento-con-insegnamento che garantisca loro la strumentazione culturale per essere adulti consapevoli e che sia nel contempo un laboratorio di vita democratica.
Gli insegnanti sono chiamati a far crescere tutte le dimensioni degli allievi: quella cognitiva, quella emotivo-affettiva e quella sociale. La pervasività culturale è nel loro incontro e sviluppo.
Socializzazione, apprendimento, funzione conoscitiva e poi ancora cognitivo, emotivo non sono elementi da contrapporre: c’è uno specifico scolastico che li fa dialogare in un equilibrio continuamente ricostruito; uno specifico dello stare a scuola non totalizzante ma significativo, in cui il dilemma educazione-istruzione si risolve nell’apprendimento come atto di socializzazione, nell’apprendimento situato in precisi ambiti di relazioni sociali, emotive e di stimoli culturali.
L’esperienza conoscitiva, l’esperienza di apprendere non è una delle tante funzioni della scuola da affiancare ad altre o, talmente forte, da produrre l’esclusione delle altre: rappresenta invece il nodo centrale dell’esperienza scolastica, il nodo attorno al quale si costruiscono e si intrecciano le altre dimensioni dello stare a scuola.
Dunque la preoccupazione per l’apprendimento, per la qualità dell’istruzione deve rimanere in primo piano, come distintiva della forma attraverso cui la scuola contribuisce all’educazione.
Per la scuola l'errore e/o il limite non stanno nel possedere una logica specifica di conoscenza (alla quale dovrebbe rinunciare per adottarne altre più efficaci/efficienti e più vicine a quelle spontanee) ma nel non riconoscere con piena consapevolezza, l'esistenza di altre logiche; nel non riconoscere che gli studenti sono "portatori" sani di altre logiche conoscitive, le quali continuano a funzionare anche quando essi si trovano nell'ambiente scolastico: la forza della scuola sta proprio nel sapersi confrontare e rapportare con esse, nel tenerne conto e, eventualmente, nell’utilizzarle come risorsa. In questo senso la scuola è un’esperienza di vita insostituibile per tutti tra i 3 e i 19 anni.
Apprendimento situato in ambiti di relazioni sociali

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La scuola e l'apprendimento per tutto l'arco della vita
L’esercizio della cittadinanza attiva e del diritto-dovere al lavoro impongono oggi un aggiornamento costante della strumentazione alfabetica e culturale: la scuola deve accompagnare in modo flessibile e vario la vita delle persone.

La cultura è sempre più una risorsa indispensabile per il singolo e per la società. Nel diritto/dovere alla cultura di tutti e di ciascuno la scuola fonda il suo principio basilare: quello di formare persone in grado di pensare criticamente, di avere conoscenze e strumenti di interpretazione, di conquistare una disciplina mentale che rifiuti le certezze affrettate e il pensiero semplificato.
Coerentemente con i principi che lo ispirano, tale progetto educativo dovrà porsi l’obiettivo di formare i “cittadini del mondo”, vale a dire donne e uomini capaci di confrontarsi costantemente con gli altri, di mettere in comune i vari punti di vista, di valorizzare le differenze, nel dialogo e nel rapporto con altre storie e altre culture.
La scuola diventa, può diventare il luogo della consapevolezza in cui l'apprendimento spontaneo, televisivo, “elettronico”, del senso comune, dell’esperienza concreta si incontra con il sapere dei “vincoli” che caratterizza la cultura scolastica costruita appunto sui vincoli-"discipline"; ed è questa una lunga, lenta e fondamentale esperienza conoscitiva che tutti devono poter incontrare e percorrere in modo compiuto in modo da poter consolidare gli alfabeti e quelle competenze culturali (compreso il gusto della competenza) che può sorreggerli e renderli attivi, contenendo il rischio di bassa persistenza che la strumentazione conoscitiva porta con sé.
Dunque la cultura della scuola incrocia, come sempre, la modalità con la quale il sapere si è storicamente organizzato e con cui deve fare i conti: il sistema delle discipline, dell’organizzazione culturale e sociale della conoscenza. Il problema è bipolare: da un lato si realizza il rapporto fra cultura-unità del sapere e "sistema delle discipline", dall'altro il sapere organizzato nelle discipline si traduce in percorsi scolastici, per mobilitare l'apprendimento e la capacità/disponibilità di apprendere.
Il diritto/dovere alla cultura di tutti e di ciascuno
Il passaggio dalla scuola dei programmi alla scuola delle competenze culturali è un’operazione più complessa della soppressione dei programmi e della semplice stesura di liste di competenze (che poste così rischiano di risultare solo uno slogan) o di obiettivi: questo passaggio prevede un lungo lavoro sui processi di insegnamento/apprendimento che possano produrre il reale sviluppo di competenze.
In particolare è necessario non semplificare il rapporto discipline-competenze; il rischio di individuare parole d’ordine vuote è alto e pericoloso, ma questo problema non può essere troppo schematizzato e prevede un approfondimento maggiore. Intanto si potrebbe utilizzare il concetto sviluppato nel documento dei "saggi" (giugno 1997): «Le “discipline di studio” vanno pensate come campi di significato che devono fornire un orizzonte intersoggettivo ma anche acquistare un senso personale e tradursi in operatività, non solo in verifiche scolastiche».
Si deve sviluppare una modalità di organizzazione e stesura delle indicazioni alle scuole che preveda l’individuazione dei traguardi irrinunciabili e una serie succinta di tematiche portanti per sostenere il loro lavoro nella traduzione operativa del percorso curricolare in verticale.
All'interno di quest'impostazione il concetto di competenza può assumere realmente un ruolo determinante nella revisione del sapere scolastico: puntare alla costruzione di competenze intese come capacità culturali contestuali e strategiche verso le quali organizzare il lavoro scolastico. Si tratta di utilizzare e approfondire modelli e pratiche di lavoro didattico già ampiamente presenti nel fare scuola come la dimensione laboratoriale che non può certo essere ridotta alla fascia del curricolo opzionale.
L'idea di competenza potrebbe proprio divenire la chiave per guidare il ripensamento dell’uso a scopi formativi delle discipline: ma questo non è un lavoro che può improvvisarsi e deve prevedere l’intercettazione e il recupero dell’esperienza e della ricerca che nella scuola si è realizzata in questi anni.
Dalla scuola del programma alla scuola del curricolo basato sulle competenze culturali
Le discipline sono portatrici di specifiche e potenti modalità di conoscere, ma sono caratterizzate da una forte determinazione storico-culturale e da una coerente organizzazione interna.
É allora necessario che i meccanismi di insegnamento-apprendimento attivati nella scuola siano in grado di promuovere la ricostruzione dell’unitarietà del sapere senza dover pregiudicare la forza conoscitiva dell’approccio disciplinare.

Probabilmente un contributo può venire ricercando nella dimensione culturale e formativa delle discipline, intese, sia come repertorio di contenuti sia come modalità di organizzazione concettuale, quelle dimensioni più generali che sono essenziali per comprendere il mondo simbolico dell'uomo, nelle sue varie forme di razionalità e di costruzione-comunicazione di significati. É nella dimensione culturale e formativa delle discipline che va ricercato l’asse del progetto culturale della scuola.
L’utilizzo scolastico delle discipline a fini formativi prevede una vera e originale mediazione culturale. L’insufficienza di elaborazione che continuiamo a scontare per tutti gli ordini di scuola comporta rischi e difficoltà per l’efficacia dell’apprendimento.
Le discipline vanno ripensate come “macchine che producono conoscenze”: serve la conoscenza prodotta, ma servono in particolare i processi conoscitivi utilizzati.
É la valenza formativa e culturale delle discipline che la scuola è chiamata a mettere in atto, a tarare e organizzare (a livello orizzontale e verticale) nei curricoli dai tre ai diciotto anni da utilizzare come strumenti fondamentali nella costruzione delle competenze.
Il valore di "risorsa" delle discipline sta proprio nella loro capacità di contribuire a strutturare il pensiero, a costruire mondi di significati, a fornire modelli di rapporto con la realtà che rappresentano appunto gli elementi portanti delle competenze.
Lo specifico del sapere scolastico (non così per quello della ricerca) è la reattività con le strutture cognitive degli studenti. Il passaggio dalle discipline nella ricerca (legate agli obiettivi della ricerca) alle materie scolastiche (legate all’obiettivo della formazione culturale attraverso l’incontro con i modelli disciplinari del sapere) non può essere, dunque, che il risultato di lungo e originale lavoro di mediazione culturale; solo in questo modo le discipline possono diventare un efficace “strumento formativo”.
La dimensione formativa e culturale delle discipline

 

 

“Sì, allora cambiamo la scuola (davvero)”
Iniziativa promossa dal Cidi Torino per contribuire all’innovazione della scuola

Di che cosa parliamo


L’azione centrale di questa iniziativa pubblica è argomentare la nostra idea di scuola e costruire una campagna di ascolto, confronto e ulteriore approfondimento riuscendo a raggiungere tutti i soggetti del fare scuola.
Rimane forte l’idea di scuola come la più importante e significativa esperienza pubblica dell’infanzia e dell’adolescenza, necessaria per tutti e finalizzata alla costruzione degli strumenti culturali per affrontare gli ostacoli e le opportunità della vita adulta.
La proposta si basa sulla convinzione che:
a. è necessario cambiare la scuola perché c’è un divario tra il compito a cui è chiamata e la sua capacità di svolgerlo,
b. il cambiamento presuppone la convergenza delle azioni di politica scolastica con le azioni di innovazione del fare scuola quotidiano,
c. nelle scuole esistono le potenzialità per avviare e diffondere l’innovazione.

Chi siamo


Siamo il Cidi Torino 

Il “pubblico” nella sua accezione più autentica è il costituirsi di quell’arena simbolica, mediata dalla cultura, in cui prende forma l’autonomia individuale, in cui ha inizio quella particolare prassi sociale che è l’esercizio dei diritti: diritto di conoscere, di scegliere, di orientarsi, di agire.
(
Gianna Di Caro)


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