Home - Ripensare la scuola - La centralità dell'inclusione

a cura di insegnareRipensare la scuola

16/10/2016

La centralità dell'inclusione

Spunti per la discussione, a cura di Emanuela Annaloro 

Sintesi della sessione a cura di Rosanna Angelelli 

Contributi di "insegnare" sul tema 

 



Spunti per la discussione, a cura di Emanuela Annaloro

Etica è la fatica che fa avvenire nel mondo alcune verità.
Alain Badiou         

Eterogeneità e dialogo etico
Il paradigma inclusivo che si delinea all'orizzonte è sempre più complicato, perché le frontiere dell'eterogeneità sono mobili e ampie. Si spalancano questioni inclusive nuove, come quelle poste dai confini, fisici o mentali, che si aprono o si chiudono di fronte ai migranti. In ogni caso l'omogeneità delle classi è ormai un'illusione. La scuola è calata dentro l'eterogeneità della vita. Per affrontarla dovremmo innanzitutto ricostruire le condizioni per lavorare insieme, per rifondare un sistema di alleanze. La prima di queste condizioni diviene allora la capacità di ascolto e di critica che si attuano nel dialogo e nel conflitto delle opinioni.
E' in quest'ottica - critico-riflessiva ma dialogante - che discuteremo della centralità dell'inclusione con Raffaele Ciambrone e Luigi Guerra. Alla “postura d'attacco” di chi pensa che nel mondo della scuola e del mondo della scuola non si possa più discutere se non in termini risentiti e violenti, cercheremo di opporre un discorso etico capace di implicare i conflitti e riconoscere le differenze, perché «etica è la fatica che fa avvenire nel mondo alcune verità».

Analisi e prospettive
Nella discussione cercheremo di analizzare innanzitutto le attuali condizioni del nostro sistema inclusivo, senza ignorare che esistono delle contraddizioni materiali che a volte rendono impervia, se non impossibile, l'integrazione scolastica.  I BES, ad esempio, sono stati introdotti per spingere tutti gli insegnanti a occuparsi di tutti gli alunni in modo attento e riflessivo. Ma oltre la flessibilizzazione dei dispositivi didattici, che alcuni hanno interpretato come a rischio di burocratizzazione, medicalizzazione  e stigmatizzazione, non sono state previste misure di accompagnamento che permettessero di modificare concretamente il setting didattico, ad esempio tramite il rafforzamento e la valorizzazione delle forme di co-docenza. La questione della personalizzazione degli insegnamenti è stata impostata in questi anni in modo sufficientemente concreto?  A dicembre i BES compiono 5 anni. Stemperate le polemiche e chiariti i contorni della loro attuazione, è forse ormai il tempo di tentare un primo bilancio. Al di là delle più recenti novità il nostro sistema d'integrazione scolastico presenta inoltre punti di forza e punti di debolezza “storici”. Un'analisi attenta e condivisa di questi aspetti è forse necessaria più ancora dell'introduzione di nuovi dispositivi. Ci chiederemo quali sono i veri punti di debolezza del nostro sistema inclusivo, quali correzioni possono intervenire e a che livello; quali sono le tendenze negative da affrontare. L'inclusione inoltre è sempre stata terreno di sperimentazione e di innovazione dal basso. Forse perché laddove ci sono difficoltà si ricercano soluzioni. Da qualche anno a questa parte, però, la polarità sembra essersi invertita: i cambiamenti vengono proposti dall'alto. Come mai? Gli insegnanti italiani hanno perso di slancio? Si è rotta l'alleanza tra pedagogia istituente, realtà delle scuole, livello politico? Oppure il sistema scolastico italiano è ormai formato da livelli che non comunicano più tra loro?

Le proposte
In questo frangente di problemi e questioni si prospettano nuovi cambiamenti all'orizzonte che riguardano, tra l'altro, la formazione dei docenti all'inclusione e la revisione del ruolo dei docenti specializzati.  Ma siamo certi di conoscere quali sono gli aspetti più carenti del sé professionale dei docenti italiani? E quale “idealtipo” di insegnante inclusivo abbiamo in mente nel progettare i cambiamenti richiesti? Verso quale forma di articolazione funzionale può tendere il nostro sistema? Sul groviglio delle proposte possibili campeggia infine una domanda che potrebbe vanificare ogni sforzo: esistono oggi le condizioni politico-culturali e civili per migliorare le pratiche inclusive delle nostre scuole, dunque non solo per emanare delle direttive ma per applicarle, agirle dal basso, renderle effettive? Potrebbe sembrare una domanda sul consenso o sull'opportunità politica di alcune scelte, ma non lo è. E' una domanda sul destino comune. Le comunità si cementano se sentono di avere un destino comune. E' ancora così per la scuola? Saremo capaci di sostenere «la fatica etica» che fa avvenire al mondo alcune «verità»?


 

Sintesi della sessione a cura di Rosanna Angelelli

Coordina: Emanuela Annaloro
Discussant: Raffaele Ciambrone e Luigi Guerra

 

“Il paradigma inclusivo che si delinea all’orizzonte della scuola italiana è sempre più complicato: l’omogeneità delle classi mai come oggi appare nella sua relatività illusoria; le frontiere dell’eterogeneità sono sempre più mobili e ampie”, con queste considerazioni Emanuela Annaloro introduce la discussione in argomento. E inoltre –aggiunge- “del mondo della scuola e nella scuola spesso si parla in termini feroci nei confronti di una integrazione difficile che non può essere addossata solo a una mediocre e frammentaria funzionalità, ma a disagi e ritardi sociali, politici, amministrativi di quella realtà di cui la scuola è un rispecchiamento prismatico”. Ė necessario ricostruire le condizioni per lavorare insieme, per rifondare un sistema di alleanze, un’etica educativa, e non solo con le Associazioni degli insegnanti. Perché, se l’etica, come dice Alain Badiou, “è la fatica che fa avvenire nel mondo alcune verità”, la prima domanda da porre è: “Come fare per (ri) creare un discorso anche etico capace di implicare i conflitti e riconoscere le differenze? 

Risponde Raffaele Ciambrone (via skype): Le parole chiave sono tre: formazione, formazione, formazione. E poi cita l’art. 27 del Contratto direttivo, dove si prescrive che il docente deve avere una conoscenza relazionale e psicopedagogica del ragazzo a disagio di inclusione. Il diritto allo studio per tutti deve essere assolutamente garantito, ma come fare? Come migliorare l’inclusione? Ciambrone sceglie di parlare della problematica inclusiva riguardante BES e DSA e difende il lavoro istituzionale del Miur per formare specialisti del sostegno da disseminare a loro volta come tutor nelle scuole. Ricorda che il percorso è iniziato nel 2011 con 70 master e 7000 insegnanti formati, diventati ciascuno l’esperto di una scuola, ma la platea delle necessità non si è esaurita tanto che la L 107 prescrive una formazione obbligatoria, un finanziamento pro capite (i 500 eur) e uno generale di 350 milioni. Ma c’è anche un altro aspetto da delineare: chi erogherà una formazione di qualità? L’università? Altre agenzie culturali? Perché la cura è educativa e tutte le scuole devono parteciparvi rafforzando le carenze. Il Miur dà linee di indirizzo che le scuole devono interpretare con interventi appropriati e diversificati: i DSA, per esempio, non hanno bisogno di sostegno come i BES, ma di programmi personalizzati.

Annaloro pone una seconda domanda: “Che tipo di variazione si può prevedere nel contesto didattico?”

Risponde Luigi Guerra, che condivide con Ciambrone la centralità della formazione, anche se in questa sede l’argomento specifico è l’inclusione. Vanno fotografate pertanto le diverse dimensioni delle differenze, dell’eterogeneità cui si riferisce Annaloro, ma va creata anche una normativa che serva a tutta la realtà scolastica. Così come la formazione non deve riguardare solo gli insegnanti, ma i DS, gli operatori del territorio in strutture diverse dalla scuola, per esempio nei SERT e nelle ASL. Perché la formazione deve incidere fortemente sul sentire comune e riguardare soggetti svantaggiati di ogni tipo: come fa un italiano a prendersi carico dei BES e non dei migranti? E per quanto riguarda i BES e i DSA essi sono soggetti centrali ai fini dell’inclusione, ma li si deve difendere da un eccessivo atteggiamento assertivo e rivendicativo delle loro difficoltà comportante il rischio della logica dello sconto e/o della rassegnazione su un possibile loro miglioramento della relazione e dell’apprendimento.

Annaloro incalza: “Qual è il bilancio sui BES dopo 5 anni?”

Risponde Ciambrone, che al momento non può esibire statistiche, ma che stabilisce un confronto tra la normativa italiana e quella europea, in particolare quella belga. In Belgio c’è un’apposita Agenzia per i BES, differenziati in 9 tipi, ciascuno dei quali inserito nella classe di riferimento, mentre i non disabili sono divisi in gruppi di livello e distribuiti in classi omogenee. Insegnamento e valutazione sono uguali per tutti in ogni fascia.
In Italia, invece, 37 anni fa, si decise l’inclusione di tutti in una classe, con difficoltà enormi per gli insegnanti nel trovare un denominatore comune per una didattica soddisfacente.. Ė prevalso dunque l’intento di comunità educante in cui si cresce insieme e si gestiscono competenze sempre più ampie. In 5 anni si sono sperimentate tante buone pratiche che il Miur intende raccogliere.

“Fu una scelta coraggiosa –commenta Guerra-, ma le classi sono davvero omogenee?” Il nostro Paese non riesce a garantire agli insegnanti una base formativa comune. Dopo l’esperienza delle SSIS c’è stato un vuoto, che ora si sta riempiendo con il TFA, che però non si può definire certo una esperienza nella scuola concreta e generalizzata per tutti. Bisogna invece fare un investimento maggiore dentro la scuola, usando anche una tecnologia adeguata allo handicap. Ma bisogna anche, come già detto, formare le persone fuori della scuola, per esempio, gli assistenti sociali, gli educatori di strada, i volontari ecc., i quali rappresentano altre “ore” di apprendimento e al di fuori della scuola.

Annaloro osserva che l’inclusione è sempre stata terreno di sperimentazione e di innovazione dal basso. Forse perché laddove ci sono difficoltà si cercano soluzioni tratte dalla pratica didattica sul campo. Da qualche anno a questa parte, però, la polarità sembra essersi invertita: i cambiamenti vengono proposti dall’alto. “Come mai? Gli insegnanti italiani hanno perso di slancio? Si è rotta l’alleanza tra pedagogia istituente, realtà delle scuole, livello politico? Oppure il sistema scolastico italiano è ormai formato da livelli che non comunicano più tra di loro?”  

Ciambrone: Tutto quello che è stato proposto viene dal mondo della scuola. La traduzione degli intenti nelle slide di un PPT è una opzione, quello che interessa è la partecipazione degli insegnanti.

Guerra: C’è difformità tra docenti e tra scuole. E andando nel vivo di una pratica didattica c’è da chiedersi che cosa significhi la personalizzazione se non è legata alla individualizzazione pedagogica. Inoltre le competenze devono essere sviluppate in primis in tutti gli alunni e con una visione “olistica” della didattica. Poi ci sono dei piani mirati al singolo. Altrimenti si rischia di diventare soltanto “badanti” del bambino svantaggiato. Una certa tendenza alla medicalizzazione  fa comodo ai medici, agli insegnanti e alle famiglie, che in un certo senso si rassegnano sulle difficoltà e implicitamente rischiano di costruire per lo svantaggiato un sostegno banalizzato e riduttivo.   

Ciambrone è d’accordo con Guerra e ricorda che a partire dalla legge sull’Autonomia il principio della individualizzazione è basilare. Riguardo al rischio di medicalizzazione, è stupito di come si sia rovesciato il problema sulla diagnosi del BES. Un intervento educativo non deve partire dalla certificazione di una diagnosi ma da una competenza pedagogica. La didattica di supporto deve rivolgersi a bisogni flessibili.

Guerra: Nella letteratura in proposito, si dettaglia una differenza tra l’individualizzazione, che riguarda una didattica “antica”, basata su una mediazione dall’oggetto di apprendimento al bambino, e la personalizzazione, che parte da un/quel bambino per arrivare a un contenuto che diventi competenza solo se l’insegnante si impegna su entrambi i versanti.

Ciambrone: il problema sta tutto qui: come passare dall’oggetto alla competenza.

Dalla discussione con gli insegnanti e i DS presenti emerge che una certificazione aprioristica del disagio rischia di non considerare il soggetto svantaggiato nella sua plasticità di giovanissimo potenzialmente mutabile e disponibile al cambiamento; si deve evitare quel giudizio ormai frequente dell’insegnante che, per descrivere il livello di una sua classe, dice: “Classe pazzesca: “Ho” due BES; Tre DSA e cinque immigrati, di cui due che non sanno parlare (in italiano)!”; sui BES, i DSA, gli immigrati l’approccio non può essere condotto solo nell’individuazione delle difficoltà; i processi di apprendimento vanno a braccetto con quelli psicologici; le famiglie vivono le diagnosi dei loro figli con costernazione, ma tuttavia sono costretti ad accettare livelli e limiti della diagnosi.

Guerra: la certificazione non deve avallare un atteggiamento rassegnato sul raggiungimento di certe competenze.

Ciambrone: Si deve fare un piano educativo differenziato per raggiungere uno stesso obbiettivo con modalità differenti

Mario Ambel: Una valutazione che misura livelli e con voti (o giudizi), è coerente con il sistema belga. A scuola oggi dobbiamo descrivere le competenze: che cosa quale soggetto sia riuscito a ottenere, se messo naturalmente a suo agio. Bisogna rinunziare alla distopia che esiste nella valutazione: la sufficienza non esiste, esistono semmai le sufficienze. Ma prima ancora dobbiamo decidere quali contenuti culturali trasformare per sviluppare le competenze di cittadinanza.

Guerra: Per certi indirizzi scolastici il livello di competenza è definito dalle professioni.

Ambel: Tra le competenze di cittadinanza e quelle professionalizzanti, che cosa certifica la scuola e che cosa serve davvero alla realtà professionale?

Ciambrone: In proposito è interessante la sperimentazione a Biella e a Trapani. Noi che abbiamo il più basso rapporto europeo tra numero di insegnanti e alunni, abbiamo pur sempre le classi più numerose. Questo perché c’è una grande polverizzazione disciplinare. La pedagogia non si intreccia all’organizzazione didattica.

Guerra: Sono d’accordo su queste osservazioni, ma la pedagogia vi entra poco. Il discorso è disciplinare. Si ragiona su un curricolo che non favorisce le competenze.

Nella seconda parte di discussione con il pubblico emerge quanto segue: il disallineamento del processo di scuola tra come si muovono la ricerca, il Miur, la politica; l’opinione che il lavoro del docente sia poco rispettato e quindi appaia poco desiderabile nella società italiana; le difficoltà a collegarsi con i genitori; un cambiamento quasi antropologico nella comunicazione dei bambini che si esprimono in modo emotivo e frammentario (come nei cartoon).

Annaloro: In questo frangente di problemi e questioni si prospettano nuovi cambiamenti all'orizzonte che riguardano, tra l'altro, la formazione dei docenti all'inclusione e la revisione del ruolo dei docenti specializzati.  “Ma siamo certi di conoscere quali sono gli aspetti più carenti del sé professionale dei docenti italiani? E quale “idealtipo” di insegnante inclusivo abbiamo in mente nel progettare i cambiamenti richiesti? Verso quale forma di articolazione funzionale può tendere il nostro sistema?” 

Ciambrone: Per la certificazione di cui parlava Ambel si dovrebbero usare dei livelli omogenei e non una differenziazione di criteri e di modelli tra Regione e Regione. Certamente occorre un rafforzamento formativo all’inclusione per gli insegnanti di sostegno, ma senza una loro permanenza assoluta in questa specializzazione. Anche gli insegnanti delle discipline curricolari dovrebbero aumentare le loro conoscenze psico-pedagogiche generali e nello specifico quelle sui vari disagi. Il modello ideale è l’insegnante più preparato. Nel ricordare la lunghissima permanenza formativa iniziale dell’insegnante finlandese, Ciambrone ribadisce la necessità di organizzare anche in Italia una formazione diffusa che privilegi il tirocinio scolastico come esperienza di verifica e di applicazione delle teorie apprese, in pluralità di situazioni e di contesti diversi. Ci sono anche altri contesti in cui l’insegnante può apprendere, con esperienze e strumenti diversi, per esempio il Service-Learning [1], per certi versi sperimentato da Eraldo Affinati, o i programmi di software didattico in rete. 

Guerra: Il modello ideale riguarda in realtà tutti gli insegnanti: l’insegnante è un intellettuale che fa ricerca possibilmente interdisciplinare. Deve sapere e poi saper relazionare. Ha qualche perplessità sul modo di selezionare degli Scandinavi.

Annaloro: Il dibattito è arrivato alla conclusione del tempo che il convegno gli ha destinato, non già delle problematiche che vi sono state trattate. Infatti rimane aperta la domanda sull’esistenza di condizioni politico-culturali e civili valide per migliorare le pratiche inclusive delle nostre scuole, dunque non solo per emanare delle direttive ma per applicarle, agirle dal basso, renderle effettive Potrebbe sembrare una domanda sul consenso o sull'opportunità politica di alcune scelte, ma non lo è. Ė invece una domanda sul destino comune. Le comunità si cementano se sentono di avere un destino comune. “Ė ancora così per la scuola? Saremo capaci di sostenere «la fatica etica» che fa avvenire al mondo alcune «verità»?”


 

 

Note

1. Il Service-Learning è un metodo pedagogico-didattico che unisce il Service (il volontariato per la comunità) e il Learning (l’acquisizione da parte degli studenti di competenze professionali, metodologiche e sociali). I progetti Service-Learning propongono compiti “di realtà” da risolvere. 


Contributi di "insegnare" sul tema

Andrea Morniroli, Far scuola nelle periferie, marzo 2016

Luigia Amoroso, A proposito di "inclusione", marzo 2014

Gloria Calì, Chi c'è in classe?, marzo 2014

 

 

 


 

Presentazione, sintesi e materiali dei lavori del Convegno Nazionale del Cidi - Foggia 21/22 ottobre 2016

Programma 



 Per tornare alla bacheca