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a cura di insegnareRipensare la scuola

18/10/2016

L'identità professionale degli insegnanti

Spunti di discussione a cura di Caterina Gammaldi 

Sintesi della sessione a cura di M. Gloria Calì 

Contributi di "insegnare" sul tema 


 

Spunti di discussione a cura di Caterina Gammaldi

 

Identità vo cercando …

Si dice che la crisi della scuola è anche crisi di identità professionale degli insegnanti. Una vecchia questione, oggi riproposta alla luce delle indagini internazionali e nazionali sugli insegnanti .
Una semplificazione se non ci si interroga sull’ idea che si possa vivere la scuola senza smarrirsi nella complessità di un mestiere che vive nelle trasformazioni sociali e culturali dirompenti degli ultimi 20 anni.
Pensate allo smarrimento come a una perdita di senso, alimentata da uno spostamento di attenzione dai soggetti in situazione di apprendimento (con le loro diverse età) a scelte di tipo economicistico mi sembra possa darci elementi su cui riflettere.

In un testo dedicato ai rischi di medicalizzazione della scuola il compianto Alain Goussot osserva: …"senza radici culturali con c’è identità possibile e se non si sa da dove si viene, non si sa chi si è e dove si sta andando … Solo riappropriandosi della dimensione pedagogica del suo lavoro l’insegnante potrà ridiventare un soggetto significante della propria storia fatta di relazioni e di esperienze vive”.
A fronte dell’attenzione dovuta ai cambiamenti sociali, che privilegia la stortura dell’esasperazione insita nella domanda individuale, si consuma il tradimento dell’idea originaria che voleva far vivere, per tutti e per ciascuno, la scuola democratica.

- Motivi più che sufficienti per domandarsi cosa è l’identità professionale, come si costruisce, come si alimenta, per capire insieme alcune possibili vie di uscita senza scorciatoie.

L’identità professionale al tempo della Buona Scuola

Si dice che la legge 107/15 ha posto al centro gli insegnanti, il loro lavoro, valorizzando i migliori. Ma è proprio l’unico modo per leggere la premialità, il merito, la formazione in servizio obbligatoria, permanente e strutturale?
Noi pensiamo di no, confortati dalle voci che provengono dalle scuole, e non solo perché siamo di fronte a nuove forme di precarietà del lavoro degli insegnanti. Il problema rimane la scarsa attenzione ai diritti di chi insegna e di chi apprende, alle condizioni in cui si insegna e si apprende.

Che ne è dell’identità professionale a seguito del piano di stabilizzazione previsto dalla 107/15 , della mobilità selvaggia, degli esiti concorsuali?

L’impraticabilità del dialogo fra generazioni di insegnanti che si trovano a condividere le scelte delle singole istituzioni scolastiche ha ridotto o reso inesistente lo spazio – tempo del confronto culturale e professionale.
Si consumano storie professionali diverse senza poter condividere la dimensione collegiale dell’insegnamento, che fa unico il nostro mestiere.

- Che dire, dunque, del peso sull’identità professionale delle finalità strategiche assegnate alla scuola dalla legge 107/15? Non c’è insegnante che non viva il dilemma di dover piegare l’insegnare e l’apprendere a scelte economicistiche, a mode pedagogiche e didattiche, secondo una impostazione che privilegia il cliente, a danno dell’ antica finalità della formazione dell’uomo e del cittadino, ascritta all’art. 34 della Costituzione e alla sua estensione (obbligo di istruzione a 16 anni), che stenta ad essere praticata.

Al di là degli stereotipi e dei luoghi comuni

Richiamare l’art 3 della Costituzione italiana, ovvero i principi dell’uguaglianza sostanziale e dell’impegno nella rimozione degli ostacoli può essere vissuto come retorica. Così non è se consideriamo, nel presente, il paradigma della complessità dell’insegnare e dell’apprendere, stanti l’insieme dei dati disponibili sul sistema scolastico e il contributo di quanti, fra cui molti insegnanti, hanno ancora interesse a far bene il proprio lavoro.

Il tema dell’identità professionale degli insegnanti sollecita ad andare oltre le semplificazioni di coloro che continuano a sostenere l’antico adagio: “ la scuola non è per tutti”, preferendo le formulazioni “non sanno, non capiscono, perdono tempo…”, un approccio che ci suggerisce di discutere del sapere professionale utile per la cittadinanza, in una fase in cui la società si fa scuola.


 

Sintesi della sessione a cura di M. Gloria Calì

Coordina Caterina Gammaldi
Discussant: Domenico Chiesa e Christian Raimo

Caterina Gammaldi avvia la discussione su alcune domande essenziali: “Come è possibile, al tempo della legge 107, farsi ancora domande di senso? Che cos’è l’identità professionale dell’insegnante? Quale il rapporto tra la sua funzione culturale e l’articolo 3 della Costituzione, che costituisce il perno della scuola pubblica?”

Domenico Chiesa, che interviene per primo, parte dell’esperienza condotta dall’Asai (Associazione per l’Animazione Interculturale) a San Salvario (Torino) 5 anni fa  con un gruppo di ragazzi di varia provenienza geografica, che hanno portato avanti un progetto di riflessione sul senso e il valore della scuola nella loro integrazione. Da questo percorso è nata una pubblicazione che ha riunito esiti e significati dell’iniziativa “Io sono un piccolo pesce in mezzo al mare. Se non so cosa sia il mare e non so cosa sia un pesce, allora che ci faccio nel mare?” .
Se la cultura significa sapere che cos’è il mare e che cosa sia un pesce, allora, ksecondo Chiesa, la migliore identità dell’insegnante è essere maestro che usa il proprio bagaglio di conoscenze per costruire una consapevolezza, e l’approccio e la fisionomia del “maestro” dovrebbero costituire la struttura professionale dei docenti di tutti gli ordini.

Citando Vittorino Andreoli e il suo Lettera ad un insegnante (Feltrinelli, 2006), Chiesa, inoltre, sottolinea un altro aspetto fondamentale della figura professionale dell’insegnante, e cioè che essa non esiste fuori dalla scuola e senza gli allievi, come del resto accade in tutte le culture del mondo; c’è, quindi, un rapporto vitale di interdipendenza, che conferisce pari dignità a tutti i componenti della relazione. A partire proprio da questo unico livello di dignità, è opportuno che l’insegnante, che comunque deve “condurre il gioco”, stipuli un patto onesto ed esplicito con i suoi allievi, il cui modello relazionale è rappresentato in Don Milani.
Ma nell’applicazione concreta di tale dinamica educativa non mancano le contraddizioni: tra libertà e autonomia, tra individuo e società, tra la costruzione di senso e la strettoia valutativa del voto.
Distinguendo la funzione del docente da questa complessità, scorporandolo dalla sua relazione educativa, si arreca un grave danno alla sua stessa efficacia. 

La parola passa quindi a Christian Raimo, autore di un libro dal titolo Tranquillo, prof, la richiamo io (Einaudi, 2015), che ha come protagonista un insegnante disadattato, solitario, maldestro e fallimentare alle prese con una classe di ragazzi motivati e ambiziosi, pronti a distinguere la mancanza di professionalità mascherata da romanticismo all’arrivo della supplente attrezzata metodologicamente e culturalmente. Il confronto, impari, non prevede lieto fine, ma la disfatta dell’adulto incapace.
Raimo evidenzia come la scuola vera non sia quella de “L’attimo fuggente”, film esaltante per tutti i docenti appassionati, essendo in crisi l’idea stessa che la società e i singoli soggetti si formino attraverso la cultura.
In questo contesto, figure come quella di Franco Lorenzoni , che costruiscono sapere attraverso il coinvolgimento e la riflessione, restano isolate, mentre dilaga, precisa Raimo, un diffuso sentimento di ansia, che pervade ogni aspetto della vita scolastica e non degli adolescenti. La necessità di essere reattivi, performanti, produce una generazione di giovani ansiosi, timorosi di sbagliare, di perdere tempo, di “non essere all’altezza”. 

Gammaldi, a questo punto, sollecita alla discussione i partecipanti alla sessione: il primo intervento è di chi scrive, che, riprendendo la riflessione iniziale di Domenico Chiesa, richiama la figura dell’insegnante della scuola primaria come paradigma professionale, in quanto capace di prendere in carico l’alunno nella sua integrità, e orientando la propria attività professionale alla crescita di tutti gli aspetti dello studente, dall’autonomia fisica alla relazione interpersonale, alla conoscenza di sé e del mondo con parametri indubbiamente culturali.

Altra osservazione è stata condotta sui contesti in cui l’insegnante è tale: dall’ordine di scuola alla collocazione geografica alle dinamiche sociali, economiche in atto intorno alla propria sede di servizio. Perciò, le generalizzazioni su “l’insegnante” vanno forse evitate, e si dovrebbe parlare di “Insegnanti”. Medesimo plurale va usato per la fondamentale ragione che si lavora sempre essendo inseriti in una molteplicità fatta di collegi, di consigli di classe, che, potenzialmente, potrebbero innescare meccanismi di gestione positiva delle criticità. La dimensione plurale, collegiale, della professione docente è forse  la chiave per la soluzione della crisi del docente, che, senz’altro, non può ricevere giovamento dalla gratificazione economica pseudo meritocratica.

L’intervento successivo è del presidente del CIDI di Pistoia, Ezio Menchi, che esordisce con una dichiarazione d’amore per il lavoro dell’insegnante, che definisce “un mestiere imperdibile”. Egli dà due definizioni del docente, indicandolo come sceneggiatore, regista, e attore di un ambiente di apprendimento. Perché ciò possa avere luogo, tuttavia, è necessario ripensare i codici, i contenuti fondanti delle discipline, destrutturare la parte burocratica.
Altra definizione da lui proposta è quella di “ricercatore imperfetto destinato alla dimensione collettiva”. Secondo una concezione forse un po’ parziale della fisonomia del “ricercatore” il collega attribuisce l’imperfezione al fatto che l’insegnante, pur dovendo necessariamente sperimentare metodi e strategie per raggiungere risultati positivi, non lavora da solo.
Per quanto riguarda la formazione, il collega pone, infine, l’esigenza che venga tolta all’università, e organizzata come una formazione tra pari. 

L’intervento successivo è di Paola Conti, che evidenzia come questa riforma non sia sostenuta da un’idea di scuola; perciò, in questo contesto, è impossibile individuare il profilo dell’insegnante.

Saltando dal primo all’ultimo stadio del cursus scolastico, una collega del liceo classico di Foggia solleva il tema già accennato da Raimo, e molto presente nella discussione mediatica sulla professione docente: la crescente burocratizzazione, che pervade anche le conversazioni in sala insegnanti facendo perdere di vista la dimensione culturale. La collega lancia allora una provocazione: ci vuole, certo, un aggiornamento disciplinare, metodologico, ma forse sarebbe meglio… andare più spesso al cinema!

Conclude la serie di interventi dal pubblico il presidente nazionale del Cidi Beppe Bagni, il quale mette in evidenza che uno dei più grandi problemi della scuola sono gli alunni che stanno “fuori”, non quelli che stanno “dentro” e apprendono. Ricollegandosi all’ansia citata da Raimo, forse la cura sta nel docente, che deve ritrovare la passione per il suo lavoro e anche per ciò che insegna.

Gammaldi riprende la parola facendo riferimento alla necessità di non trascurare lentezza e leggerezza, essenziali nei meccanismi di insegnamento-apprendimento, che, invece, sono in contrasto con gli standard performativi che il sistema di istruzione sembra proporre come validi, sia per gli alunni che per i docenti. 

A questo riguardo, Raimo propone alcuni testi che, secondo lui, sono importanti per comprendere la logica sottesa a questa nuova proposta di scuola, in linea con la logica dell’agire e del produrre in contesti industriali. 
Comincia con il saggio di D.S. Rychen, L.H. Salganik, Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il benessere consapevole (Franco Angeli, 2007) - testo che nasce dai risultati del progetto DE.SE.CO a partire dal 1997  ed è finalizzato all’individuazione di competenze – chiave per il benessere e l’azione positiva dei singoli nei contesti sociali e professionali; per poi spingersi fino a  quello di Tajichi Ohno Lo spirito Toyota (ed. italiana Einaudi, 2004), di  in cui viene teorizzato un nuovo assetto produttivo -esso rappresenta l’evoluzione storica del taylorismo-, legato alla casa automobilistica giapponese, in cui si abbattono gli sprechi, si punta al benessere del dipendente come fattore concorrente alla qualità del prodotto.  
In merito all’altro grande e controverso tema dei modi dell’apprendere nell’era digitale,  Raimo cita di S. Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene (Ed. italiana Mondadori, 2006), in cui si dimostra (ma forse il condizionale è più opportuno) che i bambini e gli adolescenti sviluppano meglio la propria intelligenza se dediti essenzialmente a videogames, TV, e simili medialità, online e offline. Restando “online”, sebbene non sugli apprendimenti e/o sulla scuola, l’ultimo volume citato è Il filtro di E. Pariser (Ed. italiana “Il Saggiatore”, 2010) per cui si rimanda all’esauriente presentazione sul sito dell’editore. 

La conversazione si conclude con l’intervento di Chiesa, che ribadisce la necessità di ritrovare la finalità della professione nel suo  genius loci, il mai abbastanza citato art. 3 della Costituzione, che si completa fisiologicamente nei 33 e 34. Per quanto riguarda la formazione in servizio, essa si identifica con la ricerca didattica, progettata discussa collegialmente, nei consigli e nei dipartimenti, e collegialmente attuata, nella classe. 


Contributi di "insegnare" sul tema

Giulia Boggio Marzet, Il Concorso e la ricerca del Vello d'oro, agosto 2016

Caterina Gammaldi, La "chiamata per competenze", ovvero la chiamata diretta, agosto 2016

Gloria Calì, Per amore e per denaro, luglio 2016

Caterina Gammaldi, Che resta della figura docente, maggio 2016

Mario Ambel, Come fai sbagli, aprile 2016

 

 

 

Presentazione, sintesi e materiali dei lavori del Convegno Nazionale del Cidi - Foggia 21/22 ottobre 2016

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