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a cura di insegnareRipensare la scuola

16/10/2016

La valutazione nella e della scuola

Spunti di discussione a cura di Rosalia Gambatesa 

Sintesi della sessione a cura di Rosanna Angelelli

Contributi di "insegnare" sul tema 

 


Spunti di discussione a cura di Rosalia Gambatesa

Scrive Paolo Citran che «valutare e valutazione non appartengono unicamente al lessico scolastico. Valutare indica un attribuire valore, spesso un valore etico, politico, civico …[…] Quindi valutare non è stabilire dati di fatto, ma attribuire un valore in base a principi rispetto ai quali si registra di fatto o per convenzione una qualche condivisione. Valutare è anche inevitabilmente un agire interpretativo (non mi limito a registrare un fatto, ma lo valorizzo o meno in base ad un accordo più o meno esplicito o ad una convenzione più o meno condivisa)».

La prima questione: lo stato dell’arte nella valutazione interna al lavoro dell’insegnante
Per chi vive nella scuola non è difficile accorgersi che nell’immaginario degli allievi e degli insegnanti italiani, pur condita di griglie e di test più o meno oggettivi, il ‘valore’ sotteso alla valutazione è, di fatto, quello della selezione.
1. Partiamo dal paradigma di valutazione di tipo selettivo e dalla riflessione su quale idea del sapere, quali motivazioni e quale rapporto con i risultati dell’ apprendimento modella nella coscienza degli insegnanti, degli allievi e dei genitori e quindi della società tutta.
2. Già nel 1968 l’inascoltata Lettera a una professoressa dei ‘ragazzini’ di Barbiana aveva messo a fuoco come, nella scuola pubblica italiana, la pratica della valutazione selettiva fosse pesantemente contraddittoria con il suo mandato sociale. Mi pare che oggi ne possiamo osservare le conseguenze non solo immediatamente sui risultati degli apprendimenti degli studenti ma anche sulle trasformazioni sociali e politiche del nostro paese degli ultimi trent’anni.
3.  L’articolo 3 della Costituzione è richiamato esplicitamente come valore di riferimento nelle Indicazioni Nazionali. Sarebbe utile se riuscissimo a tentare di descrivere quali incoerenze valoriali, almeno le più gravi, fa fioccare la valutazione selettiva sui percorsi di apprendimento degli studenti.
4.  Molti insegnanti che incontriamo durante le attività di formazione lamentano che il numero (esorbitante) e la forma delle verifiche,( stabilite prescrittivamente dagli organi collegiali, oltre che naturalmente la mannaia dei  due scrutini all’anno, ogni anno, sin dal primo anno!), nella sostanza impediscono all’insegnante di cambiare il modello pedagogico e la pratica didattica del proprio insegnamento nella direzione delle Indicazioni Nazionali.

La seconda questione: tempi e forme di verifica e valutazione adeguate al mandato sociale della scuola pubblica italiana
Mettere al centro lo studente e adoperarsi per rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e impediscono il pieno sviluppo della persona umana, è un’enunciazione di valore che richiede necessariamente una trasformazione profonda dei modelli di valutazione.

5.  La legge 107/2015, tra le tante deleghe, ha previsto anche la revisione della normativa sulla valutazione e certificazione delle competenze. Abbiamo appreso dalla stampa alcune novità: abolizione dei voti e introduzione di lettere, abolizione della bocciatura nella scuola primaria, attestazione e non certificazione delle competenze, revisione degli esami di stato.  Soffermiamoci sulla possibilità di tali modifiche di incidere realmente sul miglioramento dell'intero processo di valutazione in vista dell’attuazione dell’articolo 3 Costituzione.
6.  Passiamo adesso ai tempi e alle forme di verifica coerenti con un’impostazione didattica curricolare e con il cambiamento del paradigma cognitivo che si sta realizzando negli ultimi vent’anni. Non dimentichiamo che in alcuni modelli di valutazione la verifica segue molto tempo dopo la fase iniziale e di consolidamento dell’apprendimento che è invece accompagnata da forme variegate di documentazione.

7.  In questo momento c’è il rischio che gli insegnanti, dopo essere stati impegnati nell’uso e nella redazione di infinite griglie, chiamati a occuparsi di valutazione per competenze, di rubriche di valutazione e di compiti autentici, se ne occupino come se si trattasse di un’ennesima pratica burocratica.

Ancora un’apertura sul senso della valutazione  nel suo significato più ampio
Scrive Giancarlo Cerini che «gli ultimi anni sono stati caratterizzati da un vero e proprio forcing sulla valutazione (reintroduzione del voto, sistema degli esami, rilevazioni Invalsi, certificazione delle competenze, prime esperienze di valutazione esterna). Non sempre queste novità sono state ben comprese dal mondo della scuola, anche per la mancanza di un serio processo di formazione in servizio che facesse crescere una cultura della valutazione, capace di dare “valore” formativo alle nuove proposte valutative.».

8. Gli insegnanti osservano che cambiando l’impianto didattico e pedagogico gli allievi sviluppano, tra l’altro, anche competenze di autovalutazione e autocorrezione. Cosa ci dice questo a proposito della opportunità di approfondire e definire ruoli profondamente diversi e realmente cooperativi tra chi svolge il ruolo di osservazione e documentazione dei processi di apprendimento stando all’interno della classe e chi, sui tempi lunghi, verifica e valuta dall’esterno, come potrebbe essere ad esempio l’Invalsi?
9.  La valutazione delle scuole e quella del merito degli insegnanti, per come è stata pensata nella legge 107, sembra andare ad attaccare proprio la fondamentale dimensione di comunità dell’organizzazione scolastica, già da tempo assai traballante nelle scuole.


 

Sintesi della sessione a cura di Rosanna Angelelli

Coordina: Rosalia Gambatesa
Discussant: Carlo Petracca e Mario Ambel

Rosalia Gambatesa parte da un pensiero di Paolo Citran: “Valutare e valutazione” assumono un significato che “non appartiene solo al lessico scolastico” La loro funzione “non è stabilire dati di fatto”, ma attribuire un valore  a un atto, un prodotto, in base a principi convenzionali condivisi.
A scuola la valutazione -continua Gambatesa- è profondamente insita nell’immaginario degli allievi e degli insegnanti,  con la convinzione, condivisa da entrambe le componenti, che essa serva ad avvalorare la  selezione dei migliori. Viene da chiedersi, allora, “Qual è lo stato dell’arte nella valutazione interna al lavoro attuale dell’insegnante?”.

Carlo Petracca constata che una certa idea di valutazione si costruisce nel corso della  storia di un paese non solo su influenza della scuola ma anche di fattori di mentalità educativa. A scuola tuttavia la valutazione è davvero nelle corde più profonde dell’insegnante e dell’alunno. Del resto la valutazione è un atto di giudizio irrinunciabile, di valore antropologico delicatissimo: essa, se bene o male indirizzata e svolta, può agevolare o danneggiare la crescita di qualsiasi persona. Le società primitive artigianali non assegna(va)no un voto, ma una descrizione a un comportamento; mentre oggi la funzione del valutare è prevalentemente selettiva, con una grave perdita del suo significato più complesso, legato a una relazione interpersonale cui si assegna un dato valore. Valutare per selezionare accentua la funzione strumentale della valutazione verso un risultato, che trascura la ricchezza del processo impiegato per arrivarvi. Le funzioni e gli scopi della valutazione infatti possono essere di tre tipi: misurativo; sommativo; selettivo. Essi vengono scelti in base alla cultura educativa di una certa società, tanto che la scuola italiana antecedente alla riforma del 1977 valutava con voti numerici per selezionare “oggettivamente” la futura classe dirigente. La frase d’obbligo, rivolta allo studente in difficoltà,  era “ Cambia “mestiere”, la scuola non fa per te!”. Il paradosso attuale in Italia è che le riforme degli anni Settanta avevano delineato una scuola diversa, quella della programmazione, dell’egualitarismo (delle opportunità) e, in rispetto all’art. 3 della nostra Costituzione, la scuola doveva diventare un ascensore sociale per tutti, non era selettiva, almeno per la fascia dell’obbligo, dove non si assegnavano voti numerici ma giudizi. Oggi tutto questo è stato ridotto e sfigurato entro una cornice convenzionale restauratrice del passato. Si è pervenuti al paradigma epistemologico della “decisione”, nel senso che la valutazione deve essere il più possibile oggettiva e quindi “sommativa”, a scapito del paradigma della valutazione informativa, dove il focus didattico punta non sul prodotto dell’apprendimento ma sul processo, durante il quale  non si misura ma si raccolgono informazioni volta per volta. La valutazione sotto questa seconda prospettiva sarebbe (in)formativa, autovalutativa, e diventerebbe di supporto anche all’insegnante, sia nella relazione educativa che nell’attività didattica.

Per Mario Ambel la fisionomia della valutazione dipende da una scelta di tipo etico e politico ed è profondamente legata a dei fini, che possono essere, almeno in certi indirizzi scolastici, “esterni” all’apprendimento. Ambel condivide l’impostazione di Petracca su che cosa dovrebbe essere e che cosa invece è diventata la valutazione a scuola, ma per capirne meglio l’irrigidimento, si deve fare una riflessione profonda sulle cause del fallimento della politica scolastica di centro sinistra, altrimenti si rischia di cadere nel nominalismo. Innanzitutto il legame tra scuola e società impone un chiarimento sul senso di scuola e società. C’è stata accoglienza da parte degli insegnanti al ritorno del voto numerico e del mito della bocciatura. Nella scuola dell’obbligo non c’è la sufficienza, e si è voluto invece diventare schizofrenici: da una parte mantenendo le Indicazioni  programmatiche del 2007 “aperte”, dall’altra imponendo condizioni strutturali e prescrizioni funzionali ai comportamenti selettivi del passato. E alla schizofrenia istituzionale se ne è affiancata un’altra, quella ideologica. Tutti hanno responsabilità di questo, e tra i tutti, anche gli insegnanti. Perché, anche nei rapporti con le famiglie si deve essere chiari, trasparenti, nel senso che usiamo con loro le pratiche comunicative, culturali, professionali in linea con il passato. Quale valutazione è funzionale a una scuola inclusiva? Quella certificatoria dei livelli. E a questo proposito va ricordato l’atteggiamento del maestro Manzi, contrario non solo al voto, ma anche all’elaborazione di un giudizio, comunque cristallizzante. E va posta una domanda: “Possiamo non (far) valutare?”

Gambatesa caldeggia il senso di una valutazione come informazione, come documentazione e non come misurazione. E aggiunge che gli insegnanti da lei frequentati durante le attività di formazione lamentano il numero eccessivo degli incontri collegiali, “esterni” a un reale cambiamento della didattica, così come lo sono diventati la forma e il numero delle verifiche, tra cui “la mannaia” dei due scrutini, che frantumano il percorso pedagogico. E allora: “Come si può dare un senso più ampio alla valutazione?”

Ė la visione del mondo - osserva Petracca- che fa cambiare la paidéia, che a sua volta fa cambiare la scuola, e cita il pedagogista Giovanni Maria Bertin secondo cui tra scuola e società ci deve essere un’adesione reattiva: ossimoro questo che in un certo senso dovrebbe servire a contenere e indirizzare l’indignazione politica di Ambel. Gli insegnanti, continua Petracca, vivono la valutazione come un sovrappeso, ma questo dipende anche dal fatto che i pedagogisti e i docimologi non sono stati capaci di trasmettere loro il concetto di verifica, che è ben diverso dal valutare, essendo legato al miglioramento di un processo. La verifica, snella e veloce, non ha funzione metrologica ma informativa. Il problema è che essa non ha accoglienza nelle pagine del registro elettronico, da lui giudicato molto negativamente nella sua rigidità, ma neanche tra la cultura del voto degli studenti, che continuano a chiedere: “Quanto ho preso?”  

Ambel concorda con Gambatesa sull’eccesso della valutazione, che va a scapito della reale priorità, perché il “che cosa vale la pena di apprendere (prima di misurare)” dovrebbe essere la partenza di base di qualsiasi didattica. Così come è importante liberarsi dalla difficile dialettica “del calcolo” con i genitori. Infine, ci sono a suo parere, delle pratiche didattiche dalla dimensione altamente creativa che non possono essere comprese entro una valutazione oggettiva: ne verrebbero sfigurate.

Da un primo ventaglio di discussione con i presenti emerge che: è difficile liberarsi dall’ossessione dei numeri, anche dal punto di vista della loro significatività (che cos’è il “sei”? chi lo ha stabilito come sufficienza?, essendo esso tratto da una scala numerica decimale, la sufficienza dovrebbe essere segnalata con il cinque!); è consolidato l’uso di fare la media dei voti all’interno della propria disciplina e come sommativa di tutte le altre allo scrutinio e agli esami (si precisa che in certi modelli di pagella elettronica c’è un pulsante che automaticamente fa la media); l’insegnante è solo all’atto della valutazione. Prevalgono: l’individualismo, la mancanza di idee chiare sulla progettazione di base, il peso di una gerarchia disciplinare che assegna importanza formativa prevalentemente solo a certe discipline (per lo più italiano, matematica); dunque è necessario chiarire come si lavora insieme in classe; è necessario chiarire perché e come valutare nella scuola dell’infanzia; la valutazione dovrebbe avere anche una funzione predittiva e di orientamento.

Queste le risposte. Petracca evidenzia come alla valutazione sia stata legata una mentalità premiale familiare: ai genitori interessa il “prodotto” finale dell’attività del figlio, cui si agganciano anche dei premi materiali (“la macchina, il motorino, se sei promosso”). Allora si potrebbe indurre la famiglia a spostare la premialità su obbiettivi immateriali, ma ciò oggi appare difficile. Tornando a una classificazione tecnica della valutazione, essa attiene a un sistema di comunicazione di scale: numerale; letterale; aggettivale. Si tratta comunque, di usare quello più aperto, certamente non quella strettamente funzionale, purtroppo presente nel registro elettronico. Del resto nei giudizi sulla validità professionale degli insegnanti i detti “Eh, sono di manica stretta” vs “Eh, sono di manica larga” sono strettamente legati alla visione che si ha della funzione della scuola. La valutazione avviene in modo soggettivo e solitario, esiste purtroppo una gerarchia di autorevolezza disciplinare che affossa una visione d’insieme, manca una programmazione di cose in comune. Per quanto riguarda la scuola dell’infanzia vede opportuna non una valutazione vera e propria, ma un apprezzamento, sotto forma narrativa e descrittiva.

“Si dovrebbe vivere un biennio di astensione purificatrice dalla valutazione!”, con questa battuta Ambel inizia le sue risposte: tutte le funzioni della valutazione la legano al senso di ciò che hai fatto; al dare i giudizi; all’emettere sentenze (prevalentemente con voto numerico). Questa ultima funzione andrebbe abolita, anche se la questione è delicatissima, perché su di essa si regge il valore legale di ogni titolo di studio. Ma anche la certificazione delle competenze è una descrizione dei livelli raggiunti. Dovrebbe invece rimanere forte la funzione del dare giudizi costruttivi e migliorativi, ma soprattutto ci si dovrebbe chiedere il senso di ciò che abbiamo fatto. A questa esigenza fa eco un intervento dal pubblico (Daniela Casaccia) che chiede: Che cosa insieme si decide di fare? Che cosa insegnare? Perché, il problema di base non è come valutare, ma che cosa fare che sia poi valutabile nelle modalità più appropriate.

“Bisogna cambiare l’impianto didattico e pedagogico”, ribadisce Gambatesa, e se comunque si deve valutare, bisogna allora porre questa domanda: “Quali sono i tempi e le forme di verifica e valutazione adeguate al mandato sociale della scuola pubblica italiana?”

Petracca ritorna sulla questione delle scale, perché la valutazione ha bisogno di un sistema di comunicazione del genere. Al di sopra delle ripartizioni già dette, c’è una questione generale: come raggiungiamo l’espressione e la comunicazione della valutazione? Lui distingue due procedure:1) un macrosistema comunicativo quantitativo, dove, più la scala è ampia, più sono previste differenziazioni che accentuano la classificazione selettiva. 2) un macrosistema qualitativo, che utilizza le scale letterali e aggettivali: esso riduce il ventaglio delle differenze, ma non lo annulla, come non elimina la soggettività e la genericità. E allora si dovrebbe utilizzare insieme la dimensione qualitativa (attraverso i giudizi analitici) e quantitativa, come si è fatto con una scheda sperimentale sull’italiano da parte della commissione Calonghi, dove i cinque descrittori qualitativi sono conclusi con una lettera (sistema quantitativo). L’alunno ha diritto di sapere a quale livello si colloca. Le terminalità irrinunciabili ci sono e l’inclusività consiste nel portare il soggetto a raggiungere un certo livello.

Ambel.  La domanda più appropriata da fare è: “Alla fine di un percorso la scuola che cosa certifica?” Perché vanno tenute presenti le differenze tra il percorso dell’obbligo, di cui la conduzione a 16 anni e neppure a 19 non è comunque conclusiva, e quelli dei vari segmenti della secondaria superiore, che essendo professionalizzanti richiedono una certificazione dei livelli raggiunti in una prospettiva sociale, professionale, lavorativa. Ma soprattutto bisogna anche tenere presente che la scuola dovrebbe rivendicare un’autonomia dei percorsi formativi, dare un traguardo per lo sviluppo delle competenze in itinere, di percorso, di orientamento, di partecipazione, come hanno inteso le Indicazioni del 2007, riprese nel 2012, ma contraddette dal ritorno alla scuola dei risultati e dei voti. C‘è chi crede a una dimensione applicativa trasversale delle competenze su cui Ambel non è d’accordo. In riferimento ai “compiti di realtà” essi sono stati banalizzati. Se l’attestazione delle competenze è progressiva, poi, alla fine, si dovrebbe dare una certificazione il cui livello è l’oggetto dei saperi e il soggetto competente. La scuola deve ridefinire la natura dell’obbligo e dare a tutti competenze culturali di cittadinanza, cioè conoscenze più abilità acquisite dentro le discipline curricolari. Si delinea così un triangolo i cui vertici sono: il profilo di uscita del soggetto nelle discipline; un progetto culturale che non deve dipendere da nessun soggetto esterno (non è il mondo del lavoro, la realtà esterna, a imporlo); l’utilizzabilità sociale della descrizione dei livelli con una visione politica di insieme.

Petracca ritiene che i traguardi di sviluppo di competenze sono prescrittivi perché implicano un nuovo obbligo-diritto: di accesso alla scuola; di permanenza nella scuola lottando contro la dispersione e l’insuccesso; di accesso all’istruzione uguale per tutti. Sulle competenze e i compiti di realtà, è vero che le prime si stanno spostando soprattutto sulla loro misurazione, mentre i secondi dovevano essere uno dei tanti strumenti per comprovare l’osservazione sistemica, l’autobiografia cognitiva.

Dalla seconda fase di discussione con i presenti risulta che: manca ancora una formazione specifica della didattica delle competenze; bisogna tornare a riflettere sul documento dell’obbligo all’epoca delle Indicazioni Nazionali; le life skills europee entrano dentro le discipline; non si può scindere la didattica disciplinare da quella per competenze.

Gambatesa pone allora una ultima domanda: “Quale cooperazione è possibile tra chi svolge un ruolo di osservazione e documentazione dei processi di apprendimento stando all’interno della classe e chi, sui tempi lunghi, verifica e valuta dall’esterno, come potrebbe fare per esempio l’Invalsi?”

Per Petracca la funzione attuale di Invalsi è nociva alla didattica della scuola, mentre se le prove si spostassero sulle competenze il suo intervento potrebbe essere d’aiuto. Inoltre le prove non devono essere fatte in modo  censuario, ma in batterie-campione, da verificare e misurare nelle scuole con una funzione “promozionale”, perché altrimenti si perde la dimensione sociale, democratica, solidaristica della scuola.

Ambel ricorda che nella legge istitutiva dell’Invalsi si parla di “misurare conoscenze e abilità” degli allievi, finalità diversa da quella che l’Istituto stesso spesso dichiara di perseguire, parlando invece di competenze di cittadinanza desunte dalle indicazioni dell’UE. In ogni caso si è rinunciato a dotare la scuola di un sistema di valutazione orientato davvero alla conoscenza e al miglioramento e si è preferito invece - anche in questo -  agire in un’ottica di valutazione, anziché di ricerca valutativa.

Petracca condivide la necessità di segnalare e di eliminare a breve questa contraddizione perché “certificare qualcosa che deriva dalla UE è una perdita di nazionalità culturale”. Non si stupisce delle difficoltà degli insegnanti a promuovere una didattica per competenze, dal momento che non è stata adeguata in proposito la loro formazione in servizio. Mentre sarebbe indispensabile verificare le competenze agli Esami di Stato togliendoli all’arbitrio di un sondaggio disciplinare di routine del tutto estraneo al colloquio che si voleva instaurare, e alla verifica scarsamente collegiale (e quindi soggettiva) delle prove scritte di italiano sfigurate nella loro varietà (tra cui l’eliminazione del saggio breve) dalla legge Gelmini. 


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