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17/03/2014

Identità plurali e narrazioni

di Caterina Gammaldi

I temi dell’educazione nel mondo globalizzato rimbalzano frequentemente nella riflessione di esperti in ambiti disciplinari diversi.
Sociologi, antropologi, scrittori, giornalisti sottolineano l’urgenza di costruire percorsi che sappiano interrogare la scuola e i suoi insegnanti.
In questo scritto vorrei pormi dal punto di vista di chi osserva più da vicino il rapporto fra istruzione e società al plurale, concentrando l’attenzione sul tema dell’identità e della narrazione a scuola.

Punti di riferimento per questa riflessione mi appaiono per motivi diversi e complementari Zigmunt Bauman, Marco Augè, Marco Aime, tre autori che ispirano sempre più di frequente le mie riflessioni sulla scuola in un tempo che sembra aver smarrito il senso.
Della modernità liquida di Bauman non aggiungo nulla di nuovo a quello che egli stesso ha scritto, se non il richiamo all’identità, che -egli scrive- diviene plurale per le scelte provvisorie, mutevoli, reversibili compiute dal soggetto nella società dei consumi.
Una condizione, quella degli individui, che raccomanda di investire sul meticciato. «La società è meticcia da sempre». Ma è anche una prospettiva che invita ad alzare lo sguardo, oltre i confini delle singole discipline, per interrogare i testi che proponiamo ai nostri ragazzi con uno sguardo al plurale.
Compito dell’educazione, infatti, non è solo radicare le appartenenze, piuttosto permettere l’allargamento del punto di vista, superando l’egocentrismo e l’inerzia di pensiero, aumentati a dismisura nella società fondata sui consumi.
L’opzione educativa va a vantaggio di scritture prescelte, fra tante, che sappiano indirizzare lo sguardo dei bambini e degli adolescenti nella direzione della contaminazione.
E ritrovo una indicazione attraversando i “non luoghi” descritti da Augè.
Quel che colpisce un insegnante, per dirlo con le sue parole, è la problematicità dell’agire educativo. I non luoghi, sia che siano le stazioni o gli aeroporti, i supermercati o gli spazi digitali sono le nostre scuole.

Il rischio educativo mi appare ancora una volta la cifra forte per interpretare la società in cui vivono i nostri ragazzi e il mandato dell’istruzione pubblica. Straniero a me stesso. Tutte le mie vite di etnologo, è il titolo che Augè stesso dà al libro che avrebbe voluto scrivere.
Se non fosse irriverente mi piacerebbe dare lo stesso titolo a una scrittura collettiva di insegnanti dello Zen , di Scampia, di Rosarno, delle periferie delle grandi città, quali Milano, Roma, Torino.

«C’è una scuola grande come il mondo» ha scritto Gianni Rodari. La stessa idea di chi ha sostenuto, come Annah Arendt, che il mondo è una città e la città è un mondo che tutte le culture contiene.
Un’analisi prescinde dalla presenza dell’alunno straniero in classe, un’utopia si nutre del principio dell’alterità, che ritiene imprescindibile se, come pare, alla scuola compete la dimensione della formazione dell’uomo e del cittadino, oggi più che nel passato.
Mi piace l’idea che la scuola possa dedicare il proprio tempo a osservare le periferie, mettendo a confronto i modelli identitari degli adulti insegnanti-educatori e degli studenti.

Siamo diversi e uguali fra noi, soggetti a continui cambiamenti, e non da ora. Ripenso alle pagine di Albert Camus e di Tzvetan Todorov quando anni fa andava di moda occuparsi dell’educazione ai rapporti e alle differenze.

 

Oggi le persone si scontrano, come allora, ma si preferisce parlare di scontri fra culture e non fra persone. Più difficile gestire i conflitti! Meglio imputare questi ultimi a differenze culturali, così ci guadagna l’ossessione identitaria.
Sicché un libro come La macchia della razza di Marco Aime appare come una storia di cui è protagonista un ragazzo clandestino e non una riflessione sulla divisione storica fra chi accede all’istruzione e chi è escluso dai percorsi educativi .
Sono chiavi di lettura che mi permetto di suggerire a chi vuole interpretare le nuove Indicazioni per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, utilizzando il paradigma della complessità, un invito alla lettura del mondo in cui siamo immersi.
Una indicazione di metodo attenta alle relazioni fra le persone (siamo tutti migranti), che riconosce nel dialogo e nel confronto fra diversi, i luoghi della condivisione, le nostre classi!

In questa prospettiva mi piace inserire alcune riflessioni sulla narrazione, partendo dalla perdita dall’analisi di alcune pratiche diffuse sul terreno della lettura di storie in età scolare.
Non c’è libro di lettura o antologia destinata a bambini e adolescenti che non contenga percorsi di insegnamento-apprendimento su testi narrativi, percorsi in cui, smarrito il senso della narrazione (un adulto che legge, una comunità di lettori che ha il piacere di farlo…), si ricorre a questionari aridi e ripetitivi di comprensione del testo, con pretestuosi riferimenti nell’età della primaria e della “media” alla dimensione etica, alla letterarietà, talora alla storia letteraria.
Spero di non essere fraintesa, ma qui rivendico, il rigore dell’analisi della letterarietà e nel contempo l’urgenza di comportamenti professionali che restituiscano la lettura a scuola al piacere del leggere, del trasgredire attraverso la lettura.

Considero, in prima battuta, alcune tesi suggerite da Italo Calvino che permettono di considerare plurali narrazioni quali le fiabe. Ha scritto Mario Lavagetto introducendo il volumetto di Italo Calvino Sulla fiaba che tali narrazioni sono esse stesse di natura migratoria. «…Viaggiano nel tempo e nello spazio, attraverso secoli e continenti,ma anche attraverso strati sociali, descrivendo di volta in volta un itinerario di discesa o di ascesa, catturate nel circuito di una narrazione che si riproduce e trasforma incessantemente gli ascoltatori in narratori e viceversa».
Si pensi alle tante versioni di Cenerentola , alla Cenerentola europea (Grimm e Perrault), cinese, araba, egiziana, alla versione napoletana di Basile o a quella siciliana di Grattula Beddattula fino alle versioni dei film di animazione e di ballate (Piumini), delle opere liriche o dei balletti. Versioni che danno conto fin dai titoli: Il vasetto magico (persiana), Vasilissa la bella (russa), Pel di cenere (inglese) delle differenze di alcuni elementi quali i gruppi sociali e i contesti storici.

Si può sinteticamente osservare che il fascino della narrazione risiederebbe (o risiede?) nel viaggio, attraverso lo spazio e il tempo, nella capacità di chi legge sia lettore o ascoltatore di interrogare i testi. Una dimensione al plurale qual è quella che ho proposto in premessa, ricordando il contributo di Bauman, Augè, Aime per una riflessione sulla società contemporanea.
In questa prospettiva l’insegnante (il narratore, l’adulto) è chi presta la voce per leggere il mondo. Il maestro ha la responsabilità in quanto adulto di additare i particolari del mondo.
In un’epoca in cui appaiono profondamente in crisi i modelli educativi ha senso per chi come noi utilizza fra i ferri del mestiere la narrazione rivendicarne l’originalità. In Le città invisibili Kublai Kan pensa: «Se ogni città è come una partita a scacchi, il giorno in cui arriverò a conoscere le regole possiederò finalmente il mio impero, anche se mai riuscirò a conoscere tutte le città che contiene».

È ciò che dovrebbe essere a scuola il rapporto con le narrazioni, mediato dalla sapienza dell’adulto narratore. Non l’inutile, ossessivo rituale che ha solo il pregio di allontanare, in questa fase, i giovani dalla lettura. È quel che mi sento di nominare come l’utilizzo gratuito, disinteressato delle testualità, cui corrisponde un pezzo del percorso verso il lettore competente, capace di stupirsi, di scegliere in autonomia il proprio rapporto con i libri. Una modalità che ho ritrovato ne L’albero del riccio di Gramsci, dove un padre invita i suoi figli alla lettura!

Narrazioni, dunque, che siano in grado di sollecitare il rapporto con culture diverse, sollevando il velo che ci vede intrappolati nella nostra idea di mondo. Lo stesso destino possiamo affidare ai racconti, ai romanzi nati in mondi diversi dal nostro. La lettura per il piacere del leggere non è mai fine a se stessa e non si esaurisce nella situazione di lettura che pure intenzionalmente proveremo a costruire.
Ho proposto una particolare attenzione alla scuola delle emozioni, non in sostituzione della dimensione cognitiva, un invito a trasgredire attraverso la lettura, per non lasciare nulla di intentato sulla strada della scuola inclusiva.

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Scrive...

Caterina Gammaldi A lungo docente di scuola media; già componente del CNPI

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