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editoriali

01/09/2015

Che fare con questa scuola "altra" da noi?

di Mario Ambel

Tra l’inizio e la fine dell’estate,  su Educazione&Scuola, Maurizio Tiriticco, una vita spesa al servizio della scuola pubblica, ha proposto alla riflessione due diversi contributi: “Settembre 2015, parte la scuola altra"  e “Una riforma in perfetta continuità  con la scuola del centro-destra”.
Come bene indicano i titoli degli articoli, due sono le tesi  che vi sono sostenute:
- con la “Buona scuola” si conferma una polarità fra due idee di scuola: una che si ispira alla Costituzione repubblicana  (quella del 1948), e l’altra che si ispira a idealità assai diverse e che taluni tentano da anni di immettere nella società italiana (e anche in quella Costituzione, modificandola);
- la “Buona scuola” è in linea di continuità con le politiche del centrodestra, ovvero quelle fatte da partiti nati tutti dopo e contro la Costituzione del 1948, con la triste aggravante di essere realizzata da un partito che è (o dovrebbe essere) invece l’erede delle maggiori istanze ideali e politiche che fecero quella Costituzione.
Ecco perché è giustificata l’affermazione che quella che inizia a settembre è un’altra scuola o una scuola degli altri, non certo di chi da anni sostiene e lavora per la scuola ispirata all’art. 3 della Costituzione.

Sono tesi che personalmente condivido pienamente e di cui è preoccupante che non si colga la gravità. Sul fatto che negli ultimi anni si siano confrontate due idee di scuola su questa rivista abbiamo cominciato ad argomentare ben prima che la “Buona scuola” entrasse nella sua fase di  più acuta bagarre, per esempio, giusto il 6 settembre di un anno fa,  nel contributo “Quale 'buona scuola'?”,  e poi  in  “Capita in politica”, a giugno del 2015, mentre il governo si apprestava ad avviarsi con la sua politica scolastica lungo quel calvario di caos ed errori in cui sta ora precipitando.  E per un'intero anno la rivista ha raccolto commenti, elaborazioni, proposte, consultabili alla pagina "La Buona scuola e noi...".

Del resto, molte di quelle che abbiamo espresso sono anche le convinzioni ampiamente condivise dal fronte di chi si è opposto e si oppone a quella legge. Ma, nel tempo lungo che va dalla fine degli anni '90 del secolo scorso, la situazione della politica scolastica italiana si è talmente attorta e sfilacciata che forse, alla ricerca di una visione prospettica per il futuro, ci si comincerebbe a dividere, a partire, come spesso avviene, dal giudizio su alcune delle cose accadute in questi vent'anni e sul percorso che ci ha condotti fin qui: per esempio sull’esperienza dell’autonomia e sul senso da attribuire a quella innovazione; sul fallimento del riordino dei cicli; sull’effettiva credibilità da assegnare a un innalzamento dell’obbligo, prima troppo timidamente introdotto dal centrosinistra, poi selvaggiamente disinnescato dal centrodestra; o ancora sul ruolo e l'effettiva applicabilità dei documenti o delle ingiunzioni della Comunità europea...  Ma soprattutto, e purtroppo, il fronte di chi si oppone alla “Buona scuola” rischierebbe probabilmente di dividersi sulle cose da fare, sugli impianti  ordinamentali, sull’idea di insegnante e di dirigente e  soprattutto, forse, sui contenuti culturali e sulle metodologie didattiche. Per non parlare delle... competenze o delle prove Invalsi!

E questa divisione sarebbe un male e un peccato, perché  il Paese avrebbe invece bisogno di una forte convergenza "progressista" su un’idea e una pratica di scuola che, riprendendo in mano i principi della Costituzione (quella del 1948), sapesse applicarli in modi adeguati al nuovo secolo, ricollocando la scuola italiana nell’alveo delle esperienze migliori che ha spesso saputo realizzare  e proponendo un’alternativa praticabile e convincente a quest’altra scuola che, in continuità con il tradimento delle buone intenzioni della stagione dell’autonomia, è giunta fino ai poveri cascami neoliberisti attuali, attraverso le spinte individualiste, competitive e privatiste dei governi di centrodestra.

E pensare che qualche idea di fondo comune, sia politica che sociale e didattica, è  ancora disponibile come base su cui far ripartire quell’idea di scuola “nostra”. Si leggano queste  note  parole di Mario Lodi a proposito delle pagine in cui raccoglieva il diario del  lavoro con i suoi allievi:
Queste pagine di diario descrivono (…) i tentativi di realizzare operativamente, vivendoli socialmente a scuola, alcuni principi alternativi a quelli della scuola autoritaria di classe: le attività motivate dall’interesse invece che dal voto, la collaborazione al posto della competizione, il ricupero invece della selezione, l’atteggiamento critico invece della ricezione passiva, la norma che nasce dal basso come esigenza comunitaria invece dell’imposizione della disciplina fondata sul timore. (Mario Lodi, C’è speranza se questo accade al Vho , Torino, Einaudi, 1972)

Maurizio Tiriticco, nei suoi articoli citati, indica due priorità da porre all’ordine del giorno di una vera riforma del sistema scolastico: il riordino dell’impianto (dei cicli); la trasformazione della didattica. Personalmente condivido entambe le esigenze però con qualche forte cautela sulla prima che me la fa indicare invece come seconda, individuando  la cultura didattica (intesa come fare scuola in modo relazionale, pratico, cognitivo) come la vera priorità su cui concentrare gli sforzi.

Da tempo, sia come singoli che come associazione e anche su questa rivista, abbiamo più volte argomentato su come la nostra scuola e il Paese  non siano oggi (anzi da molto tempo) in grado di trovare un accordo convincente su alcuni nodi essenziali per un riordino dell’impianto: a che età iniziare, a che età finire, dove e come collocare un vero obbligo scolastico, come risolvere il rapporto fra scuola e formazione professionale e quindi che senso e ruolo dare agli stage formativi…   E che sarebbe  assai più opportuno concentrarsi su altre questioni più decisive. Si veda per esempio tutta l’elaborazione fatta sotto l'insegna di “Cambiare la scuola davvero”.

 In altri termini: prima di mettere mano al riordino dei cicli formativi sarebbe bene abbattere davvero la dispersione scolastica entro quote accettabili ed europee. Poi parliamo del  resto!  Farlo dentro questo impianto strutturale è certamente difficile, ma tutti i tentativi  degli ultimi 15 anni di riformarlo o di aggirarlo sono miseramente falliti e non hanno fatto altro che peggiorare la situazione. 

Sulla priorità culturale e didattica (che cosa insegnare e come), riteniamo in molti ci sia parecchio da lavorare e presto, e che soprattutto sia fondamentale liberarsi dell’illusione che la soluzione stia in abborracciate patacche spesso rese luminescenti  dall’uso anche spregiudicato delle tecnologie, o rese apparentemente appetibili  dall’ impiego disinvolto di stage e di rapporti conformi a una logica d’impresa esterna ed estranea alla scuola. E neppure possiamo affidarci a mode più o meno transitorie d’importazione da altri profili di sistema e di didattica.

Il cambiamento  che si richiede ai saperi, agli impianti culturali, alle pratiche didattiche è ben più profondo e radicale. Richiede ricerca e sperimentazione serie, tra cui un autentico e chiaro piano nazionale di formazione dei docenti: affidarsi in questo alle singole risorse dell’autonomia, alla creatività italica, alla buona volontà potrebbe rivelarsi disastroso. C’è bisogno di una rinnovata cultura delle progettazioni educative e delle pratiche didattiche, altro che del fai da te che  ti do un premio, o vieni qui che ti faccio vedere, o vai là che impari, o collegati a quel sito dove c’è tutto…   E c'è anche bisogno di chiedersi, senza censure o eccessive cautele, perché le spinte realmente innovatrici, le idee di scuola che abbiamo maturato, coltivato e in parte realizzato almeno fino alla prima metà degli Novanta si siano poi progressivamente inaridite e perché in molti settori oggi le scelte e le pratiche didattiche sono più conservatrici di 30 anni fa! Per questo vorremmo rilanciare presto una riflessione su 40 anni dell'Educazione Linguistica Democratica, sulle speranze e anche i fallimenti di un'intera stagione, anche generazionale, del rinnovamento educativo e didattico nel nostro Paese.

E, a dirla tutta, siamo anche stanchi di doverci occupare di... politica! Noi (questa associazione, questa rivista) ci siamo sempre occupati, prevalentemente, di lavorare perché migliorassero la progettualità educativa, le condizioni di vita e di lavoro a scuola di allievi e insegnanti e i processi di insegnamento/apprendimento. Che è sempre stato anche il nostro modo di fare politica in difesa e per lo sviluppo della scuola pubblica. Purtroppo è più di vent'anni che ci dobbiamo anche occupare di politiche scolastiche e di leggi sbagliate o dannose per la scuola...
Per questo abbiamo ribadito qualche giorno fa che  insegnare continuerà a dare un contributo di idee e di proposte  per la valorizzazione della scuola pubblica, laica, democratica, costruttivista, dell'inclusione e della cooperazione, ispirata all'art. 3 della Costituzione e quindi contraria ai principi del merito, della competizione, delle piccole carriere, della valutazione discriminante, del ricatto economico e occupazionale... Questo vorrà dire, nei fatti, operare indipendentemente e nonostante questa legge; per contribuire a che faccia meno danni possibile e per preparare le condizioni per superarla e andare oltre, in tutt'altra direzione. Ma senza quel contributo di elaborazione, di idee e di pratiche innovative anche le ipotesi di referendum abrogativi, o le proposte di legge alternative si limiterebbero a indicare una battaglia politica certo significativa e importante, ma non servirebbero a cambiare la scuola davvero, e in meglio!  Forse, però, a ricreare le condizioni perché possa avvenire.

 

Credits

 
 

Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".