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editoriali

06/12/2014

Il filo sottile

di Mario Ambel

Il sottosegretario Faraone non è un uomo di scuola. Del resto non è obbligatorio esserlo e siamo avvezzi a veder gestire l’istituzione scolastica da Ministri e sottosegretari che raramente hanno passato l’esistenza a cercare di farla funzionare (la scuola, non la loro esistenza!). Anzi, sembra che per occuparsi di scuola, non farne parte sia una sorta di merito distinto.

Faraone, non essendo un uomo di scuola, guarda alla scuola dall’esterno. O meglio, come spesso accade ai molti che pure l’hanno  frequentata, dai suoi ricordi di scuola, che, si sa bene, sono ammantati della patina dolceamara dell'infanzia o, nel caso specifico, dell’adolescenza o della giovinezza. Tempi  dei quali, si sa, si conserva una memoria fortemente alterata dalle emozioni. Niente di male, per carità. Basta esserne consapevoli.

E allora – leggendo la sua lettera a La Stampa o ascoltando la videointervista rilasciata a Repubblica - ci si può far coinvolgere dall’immagine dei suoi coetanei che, socialmente privati della gioia del campeggio, provano l’emozione della tenda fra la segreteria e la presidenza, ci si può commuovere alla menzione di quei primi baci strappati all’occhio vigile del cancellino, oppure tremare un poco al pensiero che un’intera classe dirigente possa essersi formata non durante le ore di lezione ma durante quei giorni di intensa partecipazione democratica che a Palermo certamente sono  state le occupazioni dei primi anni Novanta!  Lì infatti nacque il “cuore pulsante” del movimento universitario della Pantera contro il Ministro Ruberti.  Ma forse il sottosegretario si riferiva a qualcosa di meno felino…

In ogni caso, il sottosegretario Faraone ha ragione a difendere il valore democratico del dibattito studentesco contro l’apatia di molti giovani di oggi e anche a essere scettico nei confronti delle alternative proposte e gestite da presidi e docenti, una sorta di surroga normalizzatrice all’ansia di partecipazione. Forse avrebbe fatto bene a ricordare che negli ultimi anni spesso le proteste si sono trasformate in quel rito novembrino svuotato di veri contenuti e soprattutto di  idealità trainanti.  E soprattutto avrebbe dovuto evitare di lisciare il pelo agli studenti nel tentativo di mitigare l’asprezza della loro opposizione alla “Buona scuola”.  E qui viene il problema vero. Ha ragione il sottosegretario Faraone a dire che più che del metodo con cui i ragazzi chiedono di essere ascoltati è importante discutere nel merito dei contenuti. Che per lui sono appunto quelli della “Buona scuola”, il progetto a suo dire rivoluzionario e innovatore che cambierà in meglio la scuola italiana.

Ci si consenta - insieme a moltissimi docenti e studenti - di dubitare fortemente che la “Buona scuola” rappresenti una qualche soluzione ai problemi reali della scuola. Questa rivista ne parla altrove.  Ma c’è un filo sottile che tiene unite le affermazioni sulle occupazioni (così apparentemente di sinistra) e l’humus valoriale della “Buona scuola” (così palesemente di destra, per usare categorie che tutti ormai danno per prive di significato, persino il leader di Podemos, e che allora possiamo usare, liberi e demodé!). E questo filo sottile è proprio la visione dall’esterno della scuola, quella che intravede, non solo il bene della scuola nell’intervallo, nella gita, nell’occupazione, nella socializzazione  piuttosto che nelle ore di lezione, ma che affida ad “altro” anche  la soluzione ai suoi mali.

C’è un vizio antico che alimenta la sfiducia nella scuola: l’idea che la soluzione stia in altro che  non sia il cambiare davvero la scuola, ovvero  il fare scuola quotidiano, la relazione educativa che si traduce in processi di insegnamento/apprendimento finalmente motivanti e adatti ai ragazzi di oggi per essere donne e uomini di domani. È vero, troppe ore di lezione non solo non emozionano ma mortificano, non producono né sapere né crescita, annoiano, allontanano dal fascino performante della conoscenza, ma è sbagliato pensare che la soluzione stia altrove: nei pomeriggi, nelle “educazioni” gestite da esperti esterni,  persino nei progetti  di partecipazione separati dal contesto di apprendimento, nel rapporto con l’azienda o in qualsiasi altra cosa venga da fuori a svecchiare e cambiare la scuola. È una via fallimentare per molti motivi,  non ultimo l’alibi (o il diritto di delega) che concede a chi tra gli insegnanti non vuole cambiare davvero, a chi si abbarbica alla sua cattedra e alla sua pedana, a chi si oppone al cambiamento vero, che non è quello che viene da fuori ma quello che dall'interno sia tale da trasformare la sostanza unica e ultima della scuola: la relazione dialettica fra il diritto/dovere di  insegnare e quello di apprendere. 

Questo è l’unico tema di cui valga la pena discutere, da “dentro” la scuola per cambiarla davvero. Il resto è poco più che politica ridotta a trastullo mediatico, come ormai quasi tutto in questo Paese!

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Scrive...

Mario Ambel Per anni docente di italiano nella "scuola media"; esperto di educazione linguistica e progettazione curricolare, già direttore di "insegnare".