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una recensioneoltre la lavagna

24/09/2013

Valeria Pinto, "Valutare e punire"

di Marina D'Agati

Non capita tutti i giorni di avere fra le mani libri scritti con così tanta passione e forza argomentativa come quello che qui presentiamo. E soprattutto non capita tutti i giorni, in una realtà ingessata, sovente ipocrita e servile, che qualcuno ci parli in modo schietto, illuminandoci su come realmente stanno le cose. È quanto accade leggendo Valutare e punire di Valeria Pinto (Cronopio, 2012).

L’autrice, professore associato di filosofia teoretica alla Federico II di Napoli, non poteva scegliere espressione migliore per sintetizzare, con appena tre parole, gli esiti dei processi e delle dinamiche che stanno ridisegnando in maniera perversa i contorni dell’università, della formazione e dell’istruzione pubblica italiani. Foucaultiano fin dal titolo, quello di Pinto è un coraggioso pamphlet che affronta il delicato tema della valutazione, gettando luce sulle sue falle e contraddizioni attraverso pungenti prese di posizione, riflessioni critiche, attacchi frontali alla logiche che hanno condotto all’emanazione del decreto ministeriale (D.M.30.01.2013, n. 47).

Nell’incipit una ‘raffica’ di interrogativi sollecitati dall’esperienza diretta dell’autrice nel campo della valutazione nell’università riguardano anche la scuola e numerose sfere della vita pubblica.

“Come si è reso accettabile – si chiede Pinto – il regime di verità della valutazione? Quali sono i nessi di sapere-potere che la investono e la sostengono? Quali gli effetti di potere che essa – ovvero la verità che essa mette in scena - induce e che la riproducono? Com’è accaduto che pratiche apparentemente innocue, volte semplicemente a verificare in che modo siano adoperati soldi pubblici, a tenere sotto controllo gli sprechi, a garantire che ai cittadini siano offerti servizi di qualità sempre migliore, si siano potute installare nella nostra vita secondo dimensioni e modi tali da produrre una condizione che non è improprio definire totalitaria?” (p. 19).

La risposta a queste domande è ricercata da Pinto attraverso un lungo viaggio tra le trasformazioni storico-sociali introdotte a partire dalla L.168/89 che ha istituito l’autonomia universitaria, proseguendo con la L. 537/93 che ha dato vita ai nuclei di valutazione, la riforma mediante il DM. 240/2010 e decreti successivi e, infine, la creazione dell’ “Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca” (Anvur).

In Italia, osserva la studiosa, è avvenuto un cambiamento radicale delle istituzioni accademiche, investite nel loro core values. Già, perché è soprattutto con la L. 537/93 che, sostiene Pinto, la valutazione diviene l’asse portante della nuova architettura istituzionale dell’Università costituendo “il braccio operativo di qualsivoglia processo decisionale: dai piani di programmazione per l’organico al finanziamento dei Prin, all’istituzione (o chiusura) di nuovi corsi di laurea e dipartimenti, fino alla progettata valutazione dei titoli di studio” (p. 26). Si afferma, in altri termini, una ‘cultura della valutazione’, che è per l’autrice anche un modello di società: una società che si fonda sull’idea che la valutazione (e pure la competizione) sia un valore in sé, necessario e utile. Tutto ciò è il risultato, secondo Pinto, di logiche e meccanismi che agiscono mediante l’esercizio di un “potere governamentale” che, secondo la descrizione di Foucault, opera in termini di regolazione e non di coercizione: non costringe ma spinge l’individuo a comportarsi in modo conforme a certe norme, facendo sì che egli sia in grado di anticipare da sé ciò che ci si aspetta da lui, comportandosi come si desidera si comporti, ossia liberando autonome razionalità di auto-governo e auto-controllo. Si tratta, dice Pinto in uno degli ultimi capitoli del suo libro, di “una sorta di ‘darwinismo concorrenziale’ sotto ‘stimolo o sorveglianza statale’ interiorizzati” (p. 154).

Per comprendere appieno questo aspetto è necessario ritornare sul significato del termine ‘valutazione’. Essa, fa notare l’autrice, configura un complesso di dispositivi di controllo per mezzo dei quali le istituzioni statali giudicano l’istruzione pubblica e la ricerca universitaria, assegnando o tagliando risorse e finanziamenti in nome di criteri ‘oggettivi’, quali indici, indicatori, algoritmi, rating e ranking, mediane, classificazione delle riviste scientifiche in fasce, ecc. In questo scenario, parole quali ‘quantità’, ‘qualità’, ‘internazionalizzazione’, ‘trasparenza’ assumono valori inediti, entrando a far parte del lessico della valutazione.

La prima, ‘quantità’, va intesa in termini di ‘quantofrenia’, ovvero di pressione a favore dell’accumulazione, dell’incremento esponenziale delle pubblicazioni. I prodotti della ricerca sono intesi come delle ‘quasi monete’, cioè “unità di conto per carriere, finanziamenti, classifiche, e crescono in masse ‘finanziarie’ tali che nessuno può più credibilmente leggerle’ (p. 65).

Strettamente legata alla quantità è la parola ‘qualità’, interpretata come attività del giudicare, controllo formale sulla qualità (buona o cattiva, eccellente o scarsa), ‘conformità agli obiettivi’. Questa idea della qualità – che prescinde secondo Pinto dal valore intrinseco della ‘cosa’ in carne e ossa o dell’attività che viene svolta – non ha al suo cuore un risultato o un qualche contenuto definito e da definire “bensì la formalizzazione e la normalizzazione delle attività (tutte indefinitamente migliorabili in linea di principio) che concorrono alla produzione del risultato, e corrisponde a un modello di ‘gestione della qualità’ che deve essere applicabile a ogni produzione di merci o servizi (…). Il suo metro di riferimento è unicamente la soddisfazione dei clienti” (p. 124). In questo modo ciò che la valutazione prende in esame è il sapere reso visibile, cioè la tangibile visibilità di attività e pubblicazioni, che finisce per coincidere con la visibilità dell’effetto che esse provocano: “la loro presenza in vari circuiti, la loro circolazione, l’impatto che dimostrano di avere, non altra ‘qualità’ insomma se non quella legata al calcolo della diffusione, del tasso d’uso – quanto qualcosa sia citato, non importa neppure quanto effettivamente letto” (p. 129).

Un’altra parola chiave del vocabolario della valutazione è ‘internazionalizzazione’: essa non indica più il semplice scambio culturale, ossia la capacità di stabilire contatti e creare collaborazioni con colleghi stranieri, ma l’abilità delle istituzioni di ricerca nel mostrarsi attrattive, allettanti. Da qui l’esigenza, per le università, per i dipartimenti, per le persone, ecc., di prendersi cura del proprio appeal: è il ‘fitness for purpose’ (p. 29), che si collega al discorso poc’anzi fatto sulla qualità.

Infine, la cultura della valutazione fa del concetto di ‘trasparenza’ il suo slogan. Trasparenza vuol dire contrasto all’esercizio arbitrario e abusivo del potere; tuttavia, “com’è davvero sotto gli occhi di tutti, nessuna luce penetra là dove si decidono gli indicatori e gli indici da adoperare, là dove si decide verso dove e verso cosa e verso chi indirizzare il fascio di luce, lasciando invece opportunamente restare nell’ombra tutto quello che nell’ombra deve restare” (p. 151).

Si potrebbe andare avanti all’infinito. Vorrei soffermarmi, però, su due tra gli argomenti più forti che emergono dalla schietta analisi di Valeria Pinto. Il primo riguarda quella che l’autrice considera la falla più grave della valutazione: ossia, la voragine di ciò che essa non valuta, trascura, omette. Se ciò che non è misurabile non è valutabile, è chiaro che buona parte del lavoro invisibile e non certificabile che ciascuno studioso svolge nella sua attività di ricerca quotidiana finisce nel dimenticatoio. Ma se non è misurabile e quindi non valutabile, e perciò del tutto ininfluente in questioni come l’allocazione delle risorse, carriere e finanziamenti, che lo si fa a fare? Ci troviamo qui di fronte all’idea che la ricerca debba essere necessariamente traducibile in prodotti che hanno un ‘valore’ e che il ricercatore stesso sia valutabile come un produttore di merci. Con tutte le conseguenze che questo implica sul piano della considerazione dei tempi da dedicare alla ricerca (che devono anch’essi essere misurati), dell’oggetto sui cui verte la ricerca (che deve essere accettato da strutture esterne rispetto a quelle della ricerca), ecc.

Si introduce qui il secondo argomento forte dell’analisi: l’idea, cioè, che la ratio dell’homo oeconomicus sia oggi alla base di tutti i processi di valutazione. Ne è perno una figura di studioso molto particolare: è lo ‘scienziato imprenditore’, abile nel ‘vendersi’, investire nei suoi talenti e capace di tessere pubbliche relazioni: infatti “agli attuali profili richiesti per ricoprire i ruoli della docenza accademica appartengono esplicitamente caratteristiche come la capacità di attrarre finanziamenti (…) e requisiti come l’aver ricoperto cariche pubbliche e ruoli in ‘società professionali’ (…)” (pp. 142-143 ). In quella che Pinto chiama la nuova ‘ascesi della prestazione’, diretta conseguenza della cultura della valutazione, le tradizionali virtù dello studioso, come la capacità di dubitare, di attendere, di non usurare, di trattenersi da un troppo rapido consumo, rappresentano vizi solitari da correggere. Per esempio, con riferimento alle pubblicazioni, perché ‘sprecare tempo’ per scrivere una monografia quando tutto non potrebbe essere detto, più velocemente, in un saggio di cinquemila parole?

Un testo, dunque, quello di Valeria Pinto che è, al contempo, tempesta e quiete, buio e luce. La lettura dei dodici capitoli che lo compongono suscita infatti, a giudizio di chi scrive, almeno tre diversi sentimenti. Irritazione, anzitutto. Specialmente quella delle nuove leve. E non potrebbe essere altrimenti. Come può non indignare, per esempio, il constatare che “la quantità di pubblicazioni un tempo ritenuta adeguata a ricoprire il ruolo di professore ordinario può essere oggi giudicata insufficiente – dalle medesime persone che con quei criteri sono ‘andate in cattedra’ – per conferire una borsa di ricerca di dieci mesi ad un giovane studioso” (pp. 62-63)? Oppure, ancora, scrive Pinto, sapere che l’Anvur stila “classificazioni di riviste di eccellenza sulla base di puri criteri di eccellenza, ossia nessun contenuto” o che “risultano molto apprezzate le riviste scritte in inglese, magari da italiani su filosofi italiani” (p. 70)!

In secondo luogo, il testo di Pinto provoca turbamento. La critica sistematica dei presupposti ideologici della valutazione, della sua retorica e delle sue pratiche concrete, dà al lettore l’impressione di essere risucchiato in un vortice profondo e senza fine; ma che, tuttavia, non lo lascia indifferente. Anche perché, chi più e chi meno, chi legge Valutare e punire ha l’amara sensazione non soltanto di assistere, ma pure di vivere sulla propria pelle (da ricercatore, da dottorando, da assegnista o, in prospettiva futura, da genitore con figli che potrebbero studiare all’università, ecc.), le conseguenze di meccanismi che mortificano, anziché valorizzare, il sistema universitario.

Infine, pur non offrendo soluzioni o individuando correzioni e finalità alternative, Pinto dà però speranza ai suoi lettori, lasciando intendere che si è ancora in tempo per provare a evitare la catastrofe. Il volume si conclude, infatti, con il proposito “diamoci tempo prima di distruggere” (p. 183), che non sa di resa. La difesa della libertà di ricerca continua…

 

Valeria Pinto, Valutare e punire,
Cronopio, Napoli, 2012, pp. 190, € 13,00.

Scrive...

Marina D'Agati Ricercatore confermato in Sociologia, insegna Istituzioni di Sociologia presso il corso di Laurea in Scienze della Comunicazione dell’Università di Torino.