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14/05/2014

L'Università e la formazione dei docenti

di Rosalia Gambatesa

Nell’articolo “La cattedra non è solo busta paga: per latino e greco ci vogliono prof «seri»” Marco Nese, giornalista del Corriere della Sera, affronta la questione delle cattedre concesse a insegnanti inadeguati e riporta tra virgolette alcuni giudizi della professoressa Emanuela Andreoni, ordinario di latino e direttore del TFA presso l’università Roma3, che ha diretto per anni l’organismo che selezionava e i nuovi insegnanti di tutto il Lazio: «Un crimine contro la società» e «Gente che non sa tradurre un testo latino e non sa trasmettere amore per la conoscenza». Se tali parole devono realmente essere attribuite alla professoressa Andreoni, non si capisce perché chi è responsabile di una inefficienza, piuttosto che trarre da ciò le debite conclusioni e prendere provvedimenti, si limiti alla denuncia di un risultato che poi è il proprio insuccesso. Nese, infatti, aggiunge che la professoressa anche “quest’anno deve valutare i precari. Cioè quelli che hanno fallito al primo tentativo l’abilitazione, hanno comunque ottenuto un incarico temporaneo, e adesso tentano nuovamente il salto professionale”.

Se è evidente a chiunque abbia speso cuore e cervello per la scuola che “la questione insegnante” non è una questione che riguarda il latino e il greco più delle altre discipline, è allora altrettanto evidente a chiunque che la questione da porre non è affatto nello specifico quella del latino e del greco, ma quella più generale, dell’inefficacia del sistema di reclutamento e di formazione degli insegnanti.

Vanno innanzitutto messi a fuoco i due ambiti di questa questione che mescolandosi continuamente tra loro alimentano l’impoverimento della scuola: da un lato quello, squisitamente politico, di chi affida, esempio unico in Italia, a ciglio asciutto e nel silenzio dell’intera comunità nazionale, la formazione e il reclutamento di una categoria professionale a un’altra categoria professionale che della prima ignora praticamente tutto, come è ovvio, dal momento che svolge tutt’altra professione e con tutt’altro mandato sociale, in tutt’altri luoghi e modi e tempi; dall’altro, quello dell’ambiguità dell’accademia che, già gravemente provata dalla difficoltà di realizzare il proprio mandato sociale dell’alta formazione, come le parole della professoressa Andreoni testimoniano bene, dapprima si assume tale importante responsabilità facendone anche un piccolo business, e poi ne denuncia i risultati. Questa miscela di equivocità forgia così una categoria professionale di natura incerta che, se non potrà portare nulla del necessario bagaglio professionale con sé nella scuola, avrà certamente interiorizzato che l’etica della professione è l’ultima delle urgenze di questo Paese. È incredibile che proprio l’università e docenti del calibro della professoressa Andreoni, che tanto si è spesa nella ricerca sui modelli di analisi della lingua più consoni alla didattica del latino, si siano trovati in una condizione così equivoca verosimilmente anche per tamponare economicamente alcuni dei tagli dissennati perpetrati negli ultimi dieci anni ai danni anche di questa istituzione.

Marco Nese poi riporta ancora virgolettata un’altra dichiarazione della professoressa Andreoni relativa al fatto che «ottenere una cattedra garantisce uno stipendio e, per carità, va rispettata l’ansia di conquistarsi una rendita. Ma l’insegnamento non dovrebbe essere solo una busta paga, dovrebbe contemplare passione, entusiasmo, capacità di motivare gli studenti e gioia nel veder crescere in loro l’amore per il sapere». Il pensiero corre ai medici, agli ingegneri, agli avvocati e a ogni altra categoria professionale e si interroga su quale idea di scuola sostenga una simile affermazione a proposito degli insegnanti che sono professionisti al pari di tutti gli altri.
Chi mai sarebbe così sventato da dire che per prima cosa va rispettata l’ansia di un medico di conquistarsi una rendita, per aggiungere poi, solo in seconda battuta, che tale legittima aspirazione non dovrebbe essere sufficiente da sola a consentirgli l’accesso alla professione? Questo convincimento è invece assai vivo nell’immaginario comune, pubblico e privato, sulla scuola a dispetto di tutti i proclami sulla formazione delle future generazioni. I governi di questo Paese infatti hanno sempre trattato la scuola pubblica proprio come un rubinetto per distribuire piccole rendite ai propri clientes. Dapprima li hanno nominati insegnanti in maniera arbitraria spesso con concorsi farsa e sanatorie. E poi questi insegnanti per caso, diventati gli insegnanti in generale, soli dietro una cattedra e spesso in grande difficoltà, senza l’abitudine, il tempo e gli spazi, per riflettere sulla propria professionalità, hanno lasciato ad altri, come se fosse naturale, la selezione e la formazione delle nuove leve degli insegnanti.

L’università pubblica italiana, quindi, si è assunta, con dubbia legittimità costituzionale, il compito di scambiare la selezione e la formazione a pagamento dei futuri insegnanti con la possibilità di entrare in un ruolo della scuola altrettanto pubblica. E in cosa consiste allora tale formazione? Consiste in sostanza di tre ambiti, la didattica disciplinare, la formazione pedagogica e il tirocinio.
Le ore di didattica disciplinare sono gestite, sotto gli occhi di tutti, dai medesimi professori universitari già responsabili delle spesso problematiche lauree specialistiche, come se, per astratte vie, il disciplinarista si trasformasse in un didatta della disciplina, figura professionale che invece non può che svilupparsi all’incrocio del sapere con il fare e il pensare nelle aule di scuola. Alle ore suddette si aggiungono quindi le altre ore affidate ai pedagogisti e alle molte pagine dei manuali di pedagogia, come se un aspirante insegnante, immerso a capofitto in letture e discorsi di pedagogia, potesse sviluppare una qualsivoglia capacità pedagogica. Quale maestro non sa che invece essa è una faticosa disposizione dell’essere di un insegnante che si sedimenta nell’incessante ripensamento tra lo studio, l’osservazione e l’interazione nelle classi, e la discussione appassionata delle situazioni in cui si trova coinvolto.

A tutto ciò si devono finalmente aggiungere molte ore di tirocinio nelle scuole, affidate a insegnanti di ruolo, ma spesso scelti per necessità in maniera sostanzialmente casuale. E inoltre, poiché i decreti istitutivi di tali tirocini sono per lo più tardivi e non esaustivi, tale periodo diventa una successione di ore freneticamente affastellate, conclusa dall’elaborazione di una tesi di tirocinio guidata da un supervisore, che questa volta è un insegnante effettivamente selezionato, ma che in realtà è costretto a svolgere il suo compito in tempi del tutto inadeguati e a partire dalle improbabili esperienze didattiche e pedagogiche svolte dai tirocinanti nelle classi.

In questo scenario si delinea il panorama desolato del reclutamento e della formazione degli insegnanti, tanto desolato da indurre l’errore di pensare che la scuola sia solo questo. E invece non si deve dimenticare che la medesima arbitrarietà di tali forme di reclutamento ha aperto le maglie anche all’ingresso nella scuola italiana di tanti insegnanti valenti, colti e pieni di talento, che non di rado affollano di sabato le stanze delle associazioni professionali in cui si parla e si ragiona della scuola che si fa ogni giorno nelle aule. Essi ogni giorno abitano nelle classi lo spazio e il tempo privilegiati della intelligenza, della vivacità e della profondità degli studenti che sono stati loro affidati. Questo privilegio assai raro nei nostri giorni è davvero il dono prezioso della loro professionalità, prezioso soprattutto in questo tempo in cui l’abito dell’intelligenza, della vivacità e della profondità è diventato in Italia un’etica desueta e in ritirata. Se qualcuno di coloro che ha voce in capitolo si accorgesse di tale meravigliosa risorsa presente nelle aule delle scuole italiane e provasse ad attingere la forza per il cammino da una ricchezza così grande e reale, questo sarebbe un segno bellissimo del fatto che si vuole davvero cercare il modo di lenire la terribile povertà culturale e morale in cui viviamo. Se così sarà, certamente anche il latino e il greco non mancheranno di rivivere sulle labbra, nei pensieri e nelle azioni dei giovani.

Scrive...

Rosalia Gambatesa Insegnante di materie letterarie nei licei, Presidente del Cidi di Bari.

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