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28/02/2018

Ragioniamo di alternanza scuola-lavoro - Parte II

di Carlo Palumbo

Per leggere la Parte I


ASL e “Sistema duale” tedesco

La ASL ha avuto il merito di riaprire un dibattito, assente da molti anni, sui rapporti tra scuola e sistema produttivo. Commentatori anche autorevoli hanno proposto l’esempio della Germania, in particolare del cosiddetto “sistema duale” (Duales Berufsausbildung), con l’alternanza tra scuola professionale e contratto di apprendistato. Per magnificare l’esperienza tedesca si è anche parlato del ruolo dell’etica protestante connessa a quella del lavoro, che ovviamente mancherebbe ai nostri giovani e che l’alternanza dovrebbe finalmente sanare. Confrontare due sistemi dalla storia e dalle caratteristiche assai differenti serve solo a confondere le acque. 

In Germania non esiste un equivalente della nostra scuola media unica. Al termine delle scuole elementari, tra 9 e 11 anni, secondo la regione di appartenenza, si viene orientati verso tre possibilità: Hauptschule-Berufschule (scuole professionali), Realschule (percorso simile alla nostra Istruzione tecnica), Gymnasium (simile ai nostri licei classici e scientifici, l’unico percorso che abilita all’accesso all’Università e al lavoro). I primi due anni sono di orientamento. In generale si tende a mettere a contatto il prima possibile gli studenti col mondo del lavoro.  Per quanto riguarda il liceo, nei primi due anni sono previste una o più visite guidate in azienda o in uffici pubblici, il cosiddetto Vocatium, in seguito gli studenti realizzano esperienze di tirocinio all’esterno, con modalità che richiamano i nostri percorsi di alternanza.

Diverso è il discorso per le scuole professionali: la Hauptschule dura cinque anni ed è centrata, oltre che sull’apprendimento teorico, sullo sviluppo di abilità pratiche; alla sua conclusione (quando lo studente ha circa 15 anni), inizia un secondo percorso di durata variabile, tra 2 e 3,5 anni, la cosiddetta Berufschule, che prevede di norma 12 ore di frequenza in due giorni presso una scuola professionale, i restanti giorni si è collocati in qualità di apprendisti presso aziende, imprese o officine, seguiti da tutor specializzati che operano in collaborazione con le scuole. La legge che regola la Formazione professionale è del 1969. L’apprendistato o Ausbildung, è un vero rapporto lavorativo, e costituisce la modalità standard di accesso al lavoro, riguarda infatti circa il 70% dei giovani, in genere provenienti dalle Hauptschule e dalle Realschule.
Data la preferenza che le aziende assegnano al possesso di una qualificazione professionale, non è raro che anche giovani con diploma di maturità, l’Abitur, accedano a questo tipo di contratto prima di frequentare l’Università. Ogni anno sono attivati 5-600.000 nuovi contratti, che variano secondo il ciclo economico, in media i giovani in apprendistato sono circa 1.500.000. Essi ricevono una retribuzione, al primo anno tra 400 e 800 eur, nell’ultimo tra 600 e 1150 eur, secondo il settore e la qualifica, e acquisiscono titoli di operaio specializzato, lavorante artigiano, assistente commerciale.
L’accesso avviene per iniziativa del giovane, che può rivolgersi alla locale Camera dell’Artigianato e dell’Industria, dove può trovare l’azienda che lo interessa, ma che gestisce anche gli aspetti legati alle procedure burocratiche e alla supervisione delle aziende, che devono essere fornite di apposite autorizzazioni. A livello nazionale sono oggi riconosciute 344 tipologie lavorative, aggiornate periodicamente. In genere il periodo di apprendistato si conclude con l’assunzione da parte dell’azienda. Vi sono vantaggi fiscali, ma anche costi e obblighi organizzativi: le aziende devono dimostrare di possedere strutture e attrezzature necessarie per la formazione e destinare al compito di tutor personale abilitato specificatamente. Solo il 20% delle aziende, in genere medio-grandi, possono ospitare apprendisti. L’ Ausbildung prevede l’utilizzo di imponenti risorse finanziarie. I dati che ho a disposizione sono quelli dell’Istituto Federale della Formazione Professionale (BIBB) e sono riferiti al 2005: a carico delle imprese risultavano 26,68 miliardi di euro, l’Agenzia del Lavoro tedesca (BA) interveniva con 4,51 miliardi, il Governo centrale e i Länder con 3,12 miliardi. Confrontare il sistema duale tedesco con l’alternanza introdotta in Italia non ha alcun senso. 

Apprendistato e Formazione professionale in Italia

L’Italia ha sviluppato nel tempo due istituti per facilitare l’accesso al lavoro: l’Apprendistato e la Formazione professionale regionale. Il primo strumento normativo è stata la Legge 264/1949, che disciplinò tutta la materia dell’addestramento professionale della popolazione adulta. Nel 1951, i corsi di addestramento furono estesi anche ai giovani, mentre la Legge 25/1955 introdusse l’istituto dell’apprendistato in cui l’addestramento pratico venne integrato con un “insegnamento complementare” volto a “conferire all’apprendista le nozioni teoriche indispensabili all’acquisizione della piena capacità professionale”. Si noti che la necessità di una preparazione teorica sia nata all’interno dell’esperienza professionale del giovane. La competenza su questi corsi spetta, per quanto riguarda le linee di indirizzo, al Ministero del Lavoro, mentre le norme legislative in materia di “istruzione artigiana e professionale”, sono assegnate dall’art. 117 della Costituzione alle Regioni.

L’istituzione dell’attuale Formazione Professionale risale invece alla Legge-quadro 845/1978. Da allora la legge ha più volte modificato il funzionamento di questi istituti, con il cosiddetto Pacchetto Treu del 1997, con la riforma Moratti, che introduceva percorsi di Istruzione e Formazione professionale triennali e quadriennali, con la Buona scuola. Essi costituiscono i principali strumenti disponibili nel nostro paese per rispondere alle esigente di professionalizzazione dei giovani. I dati sull’Istruzione e Formazione Professionale sono disponibili per l’anno formativo 2015-16: si tratta in totale di 322.322 allievi (INAPP, luglio 2017). Per quanto riguarda gli apprendisti, il numero medio passa da 411.686 del 2015 a 381.526 del 2016; i nuovi assunti erano 285.378 nel 2010, scendono a 177.666 nel 2015, risalgono a 234.4612 nel 2016. Le trasformazioni in assunzioni stabili erano 105.000 circa nel 2010, sono scese a 81.483 nel 2016 (INAPP-INPS, novembre 2017). Se sommiamo i due istituti, abbiamo un totale per il 2015 di circa 734.000 giovani in formazione o in apprendistato, la metà della Germania. Tuttavia, in Italia, le leggi sul lavoro (Treu 196/1997, Biagi 30/2003, Jobs Act 2014-15, solo per ricordare le principali) hanno introdotto svariate forme contrattuali, che prevedono maggiori incentivi e minori obblighi per le aziende rispetto all’apprendistato. 

Il sistema economico tedesco è caratterizzato da una massiccia presenza di aziende medio-grandi; quello italiano vede una prevalenza di piccole e piccolissime aziende, poche sono di media dimensione, pochissime (appena 471 prima dell’ultima grande crisi) quelle grandi. Questa realtà le rende meno adatte a ospitare apprendisti in formazione, perché manca personale e organizzazione ad hoc. In Germania l’apprendista riceve una retribuzione adeguata alla quantità di tempo impiegata in azienda, si tratta di un’attività part-time, in Italia è normale, da parte di datori di lavoro privati, ma anche pubblici, aspettarsi prestazioni lavorative mascherate da tirocinio formativo (o stage) senza retribuzione. 

Alcuni commentatori hanno attribuito al sistema duale la ridotta disoccupazione giovanile della Germania, dimenticando come essa si sia distinta dal dopoguerra e anche dopo gli accordi di Maastricht del 1992, per il possente incremento della produttività del sistema, che ha permesso l’aumento della ricchezza del paese e dei suoi abitanti, con un più alto prodotto per occupato, grazie all’intensità del capitale impiegato, alle abilità professionali e all’istruzione dei lavoratori, con un ordinamento giuridico che garantisce legalità ed efficienza e un’amministrazione pubblica funzionante. 

Le posizioni emerse nel dibattito che ha accompagnato l’introduzione dell’alternanza hanno spesso avuto una connotazione ideologica, mascherata da comune buon senso. Si è infatti enfatizzata la funzione “educativa” del lavoro, se non della fatica in sé, contrapposta all’impegno intellettuale, considerato snob, rispetto alla disciplina, alla capacità di adattamento (anche alle richieste più umilianti?), dimenticando le condizioni lavorative, la retribuzione e i diritti del lavoratore, cioè la dignità della persona e del cittadino; si sono attribuite alle aspettative delle famiglie e dei giovani o alla scarsa volontà dei cosiddetti bamboccioni, Michele Serra direbbe gli sdraiati, le cause principali della difficoltà nel trovare un’occupazione. Si sta facendo di tutto per trasformare un problema sociale, collettivo, il diritto al lavoro, in un problema individuale, legato all’inadeguatezza di chi cerca lavoro: la colpa è attribuita a chi per primo ne è vittima. 

Perché i giovani italiani sono esclusi da un lavoro sano e dignitoso?

I dati sulla disoccupazione giovanile sono noti. Le cause non vanno cercate nella situazione delle scuole e nella preparazione degli studenti, anche se qualcosa su questi argomenti si potrebbe fare: vi sono ragioni di lungo periodo che determinano la specificità del nostro mercato del lavoro e altre più congiunturali.

La prima e più importante, è il ridimensionamento che, dai primi anni Novanta, ha subito il nostro sistema economico all’interno della divisione internazionale del lavoro. L’Italia mantiene ancora oggi un’importante posizione nella produzione di beni all’interno dell’Unione Europea, collocandosi al secondo posto dopo la Germania. Tuttavia, dal 1992, il paese, specializzato in settori a tecnologia matura, ha dimezzato la quota di mercato internazionale a favore di altri considerati un tempo “in via di sviluppo”. Inoltre abbiamo perso l’occasione di entrare nell’ultima rivoluzione tecnologica delle TIC, dove abbiamo un ruolo secondario o subordinato. La ridotta spesa in Ricerca e Sviluppo e la mancanza di grandi imprese (sopra i 500 addetti) necessarie per implementare e finanziare queste attività, hanno prodotto un progressivo ridimensionamento della nostra economia. Anche se l’affermazione può apparire contro-intuitiva, il calo del costo del lavoro che inizia a metà degli anni Novanta, facilitato dalle leggi approvate dal Parlamento, invece di rilanciare la crescita economica, ha ritardato lo sviluppo in investimenti tecnologici, perché le imprese hanno preferito assumere personale a costi decrescenti, piuttosto che innovare processi e prodotti. 

A questa causa di lungo periodo se ne sono aggiunte altre due di tipo congiunturale. Innanzitutto la recessione economica iniziata nel 2008 e continuata fino al 2014, che ha visto una contrazione netta degli occupati, soprattutto dei giovani, più legati a contratti temporanei e più deboli rispetto alla controparte. Tra il 2008 e il 2015 vi è stata una riduzione di 736.000 unità per i maschi e una crescita di 110.000 lavoratori per le donne. Vi è stata una sostituzione di lavoro tra i cittadini italiani e quelli stranieri: i primi diminuiscono di 1.295.000 unità, i secondi crescono di 669.000 unità. Particolarmente evidenti, e certamente non casuali, sono i dati relativi alle variazioni degli occupati per classi d’età: mentre gli occupati tra i 14 e i 34 anni scendono di 1.954.000 unità, quelli con 50 anni e oltre aumentano di 1.839.000. Una corrispondenza straordinaria tra i due fenomeni che molti osservatori autorevoli si affannano invece a smentire.

La disoccupazione è cresciuta tra il 2008 e il 2015 per tutte le classi di età, ma è particolarmente elevata tra i giovani (classe 15-34 anni), dove raggiunge alla fine della recessione il 23,1%, contro il 9,4% (35-49 anni) e l’8,1% (50 anni ed oltre) delle classi successive. Se consideriamo il tasso di disoccupazione 15-24 anni, esso raddoppia in pochi anni, passando dal 20,4% del 2007, al 42,7% del 2014. Le possibilità occupazionali crescono tuttavia man mano che sale il livello di istruzione: per chi giunge al massimo alla licenza media,  nel 2015 la disoccupazione è del 15,5%, questa scende all’ 11,4% per chi è in possesso di diploma, al 7,4% per i laureati. L’altro fenomeno correlato alla crescita della disoccupazione giovanile è la politica pensionistica attuata dai governi a partire dagli anni Novanta, prima con Dini, poi con Fornero. Il tasso di occupazione nella popolazione 55-64 anni è passato rapidamente dal 30,6% del 2004 al 50,3% del 2016. Questa crescita ha impedito, in una situazione di riduzione della base economica, il ricambio generazionale, lasciando fuori dal sistema produttivo una buona parte dei giovani. 

Manca una politica economica e sociale per rilanciare lo sviluppo 

Quello che appare evidente analizzando i confronti internazionali è la difficoltà del nostro paese ad affermarsi nei settori economici più avanzati, nonostante la presenza di eccezioni positive, che tuttavia non determinano la qualità del sistema, che appare complessivamente arretrato e non in grado di reggere la concorrenza. Un esempio rivelatore è quello dell’occupazione e degli investimenti nel settore della Ricerca e Sviluppo, che in Italia ha una rilevanza assai inferiore a quella dei principali paesi europei. Nella ricerca Global Competitiveness Report 2017-18 del World Economic Forum, che confronta l’innovazione di 137 economie, l’Italia si colloca nella 43^ posizione. Secondo la ricerca ISTAT-Innovazione-Bes2015, nel 2013 la spesa totale in R&S ammontava a circa 21 miliardi di euro, appena l’1,31% del PIL (il settore privato copre il 57,7% della spesa totale), assai lontana da Svezia, Finlandia, Danimarca e Austria, dove si viaggia su percentuali anche superiori al 3%. La media UE28 è intorno al 2%. 

L’arretratezza del nostro sistema economico comincia a produrre un fenomeno particolare, la sovra-istruzione degli occupati. Ovvero si propongono lavori che richiedono preparazione e titolo di studio inferiori a quanto in possesso del lavoratore. L’ultima recessione ha ovviamente reso più evidente questo fenomeno, passato tra il 2008 e il 2015 dal 18,9 al 23,5% per tutti gli occupati. Ma esso è assai più marcato tra i giovani sotto i 34 anni, dove si giunge al 37,1% e, per gli stranieri, addirittura al 40,9%. Negli ultimi decenni il livello di istruzione della popolazione è costantemente cresciuto, nonostante esistano ancora differenze significative con i paesi più sviluppati; senza una ripresa massiccia dello sviluppo economico e della sua qualità, il contrasto tra i livelli crescenti di istruzione in possesso di chi entra nel mercato del lavoro e le competenze prevalentemente di livello medio-basso che questo richiederà, potrà diventare drammatico sul piano sociale. L’ISTAT utilizza una classificazione delle professioni, aggiornata nel 2011, che individua 9 settori, per i quali è indicato il titolo di studio richiesto.
La laurea è richiesta per il secondo settore: Professioni intellettuali, scientifiche e di elevata specializzazione. L’istruzione secondaria per il terzo: Professioni tecniche. Dal quarto al settimo si richiede il solo obbligo, nessun titolo di studio per 1, 8 (Professioni non qualificate). Se si va ad analizzare come si distribuisce il lavoro tra tutte le categorie, si scopre che solo il 10,4% delle professioni richiede la laurea e il 18,6% il diploma; se aggiungiamo anche il 3,6% della prima categoria (Legislatori, imprenditori e alta dirigenza), si arriva ad un 32,6% della nostra occupazione che richiederebbe almeno un diploma o una laurea. 

Un altro problema che periodicamente è rilanciato dai mezzi di comunicazione e che anima i dibattiti sul rapporto tra istruzione, formazione e lavoro, è quello della difficoltà delle aziende nel trovare lavoratori con le giuste competenze. Ogni volta è l’occasione buona per accusare la scuola di non preparare in maniera adeguata per il lavoro. Ma di nuovo i numeri e le comparazioni internazionali spiegano il significato di una tensione che è fisiologica in tutti i paesi industrializzati. Secondo una ricerca ManpowerGroup del 2017, che ha raccolto dati provenienti da 41.000 aziende di 42 paesi, questo problema è innanzitutto correlato con il ciclo economico: nei momenti di crescita aumentano le difficoltà nel reperimento delle giuste competenze, infatti nel 2006-07 il 40-41% delle aziende dichiarava di avere difficoltà in questa ricerca, con la recessione si riducono le richieste delle aziende, la forbice perciò si restringe. La media dei paesi considerati si colloca su livelli ben più alti rispetto all’Italia, dove, nel 2012, l’anno più pesante della crisi, il differenziale crolla al 14%, con l’inizio della ripresa, nel 2014, i valori risalgono al 34%. 

Le considerazioni fin qui fatte rovesciano la visione che si è imposta sulle responsabilità dell’inoccupazione giovanile, che vanno cercate nel funzionamento del sistema economico piuttosto che di quello scolastico. Nel prossimo articolo tornerò a parlare di ASL e di scuola, ma con qualche strumento critico in più.

Immagine


Immagine a lato: studentessa tedesca in azienda, da Businesspeople

 

Fine Parte II. Seguirà...

Scrive...

Carlo Palumbo Ha insegnato al Primo Liceo Artistico di Torino, pubblicista e autore di ricerche e progetti didattici anche nazionali, svolge attività di formatore e aggiornatore in progetti del CIDI, con particolare attenzione alla storia del Novecento,

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