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07/11/2013

La tarda realtà delle nostre "Indicazioni"

di Giovanni Fioravanti

Ancora la "persona"?

“Nel ribadire il valore universale e inalienabile del diritto all’istruzione di tutti e di ognuno la finalità generale della scuola è perseguire il successo formativo di ogni singola bambina e di ogni singolo bambino, ragazza e ragazzo, secondo i principi della Costituzione italiana e della Dichiarazione Universale dei Diritti del Fanciullo.”
Ho sognato che questo fosse l’incipit delle Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione.
Invece no. Alla semplicità e alla chiarezza si sono privilegiate pagine di nuovi scenari, di nuove cittadinanze, di nuovi umanesimi.
A noi gli aims dei curricola britannici non sono mai apparsi sufficienti, noi abbiamo necessità delle cornici filosofiche, anzi dello “approccio pedagogico e antropologico che cura la centralità della persona che apprende”. 1

Di fronte a tutto ciò sono portato a pensare che al restyling delle vecchie Indicazioni a opera del ministro Fioroni avrebbe indubbiamente giovato la cassazione di questo intero capitolo in premessa dedicato alla cultura, alla scuola, alla persona, un capitolo che a me pare la testimonianza concreta del ritardo culturale accumulato intorno ai temi della formazione dal nostro Paese, a partire dalla riforma Moratti per venire ai nostri giorni. Ma prima di addentrarmi nel merito dell’argomento, un interrogativo mi sorge spontaneo: se ci imbattessimo in un testo di prescrizioni mediche introdotto da un titolo simile “Salute, ospedale, persona”, cosa saremmo portati a pensare? Che poco o nulla interessa circa le concezioni e le teorie intorno alla salute, agli ospedali e alla persona del Sistema Sanitario Nazionale, piuttosto preme che le cure funzionino e siano per davvero efficaci. Quando si parla di scuola, invece, dimostriamo di essere ancora un Paese incapace di liberarsi dei retaggi del passato.
Ancora una volta, anche con questo testo la scuola non si pone come il servizio di istruzione e di cultura che lo Stato ha il compito di rendere a ogni singolo cittadino che cresce e, di conseguenza, all’intero Paese, ma come luogo di formazione della “persona”, come se ci fosse un pensiero statale, ufficiale, pubblico intorno all’idea di persona, a partire da una interpretazione del soggetto e del contesto che pretende di costituire la cornice dell’orizzonte educativo nazionale.

Se è così, l’interpretazione degli scenari è scarsa, specie in riferimento agli strumenti di riflessione che la seconda metà del Novecento e gli albori dell’attuale secolo ci hanno fornito.
I concetti di discontinuità, ambivalenza, complessità dell’epoca in cui viviamo dovrebbero essere dati ormai per acquisiti, e non “lamentati”, perché ogni loro lettura e interpretazione risulta inevitabilmente inadeguata, per la stessa natura dinamica di tali categorie. È il dinamismo dei tempi, la liquidità, che fanno saltare le categorie della certezza, della stabilità, della continuità. Sapevamo già da tempo che il nostro sistema formativo, la nostra scuola avrebbero dovuto attrezzarsi per affrontare questi nuovi scenari della realtà. Ma siamo drammaticamente in ritardo. Questa nostra scuola, che da troppi anni ormai non conosce il rinnovamento, non ha neppure conosciuto la discontinuità, tutt’altro, alle trasformazioni che le sono andate accadendo intorno ha risposto con politiche ministeriali nostalgiche del passato, miopi con il presente, colpevolmente cieche nei confronti del futuro.

È forse la damnatio Casati che ci perseguita? Intendo la legge del 1859, rispetto alla quale la nostra scuola mantiene ancora, nonostante il tempo, una distanza ravvicinata. Una scuola che nella sostanza, nel suo modo d’essere e operare continua a servire, nonostante il moltiplicarsi dei numerosi segnali circa il suo fallimento, un’idea di società di sudditi da integrare in un’ipotetica divisione del lavoro che da molto tempo non esiste più, soppiantata da un mercato che produce ormai oltre il 40% di disoccupazione giovanile. Ma tant’è, per la nostra scuola c’è sempre il personalismo a riabilitare il ruolo dell’educazione, anche se poi, come i più recenti dati OCSE hanno dimostrato, l’istruzione lascia a desiderare, ma questo è un altro capitolo. È proprio quel capitolo che nella storia della nostra scuola non è mai stato scritto a premessa dei programmi scolastici, così, il nostro sistema formativo, retorico con la persona, non è mai stato capace di divenire, o non ha mai voluto divenire, uno strumento reale di forte, sicura liberazione delle esistenze umane attraverso il respiro e il potere dell’Istruzione. È stato facile nei decenni che ci separano dall’esperienza di Barbiana intestare le scuole a don Lorenzo Milani, molto più difficile sarebbe stato praticarne da subito lo spirito. Tralascio le mancanze macroscopicamente colpevoli e vergognose rispetto al Rapporto Faure, per dirne uno, al libro bianco di Cresson, Delors, ecc. ecc. Noi scriviamo in compenso, ancora nel 2007, con encomiabile ostinazione, con un prestigioso salto nel passato, a cui pare che siamo affezionati, “Cultura, scuola, persona, con una lunga ombra di integralismo alla Maritain che si protende quanto mai inquietante e che con ogni probabilità ha aiutato la gestazione delle più recenti invenzioni dei BES e di altro ancora.

I proclami circa la centralità della persona finiscono per consegnare all’ambiguità la complessiva lettura e interpretazione delle Indicazioni nazionali, rischiano di collocare nell’ombra e di sfocare gli obiettivi di apprendimento, l’impegno a perseguire i complessi traguardi delle competenze, complessi non in sé, ma per la scarsa formazione professionale nel merito da parte della nostra classe docente.
Come negarlo, quando il focus dell’istruzione viene affidato all’espressione: “Le finalità della scuola devono essere definite a partire dalla persona che apprende…”.
Io non so se chi ha scritto queste parole davvero ci crede o si è fatto prendere la mano, ma le finalità della scuola non possono essere prioritariamente altro che l’Istruzione, il massimo di istruzione per tutti, la qualità dell’istruzione, la qualità del tempo che gli studenti vivono sui banchi di scuola! Perché tutto ciò non ha trovato posto in queste pagine?
Parole che rivelano tutta la loro fragilità nel momento in cui ci si pone la domanda, del tutto banale, del che cosa? Che cosa quella persona apprende? Qual è l’oggetto dell’apprendere?

Le finalità dell'apprendere

Le finalità della scuola devono partire da qui, innanzitutto. Continuo nel parallelo con il sistema sanitario, se la sua finalità fosse la persona che è in cura, anziché curarla, questa potrebbe benissimo morire, sebbene appagata come persona malata. Così la finalità del sistema scolastico nazionale non può che essere l’istruzione, istruire. Il guarire la persona, come istruirla, a partire dalla persona stessa, è finalità precipua dell’organizzazione del sistema e delle professionalità che in esso agiscono. Questo è il tema generale di fondo, a prescindere dalle Indicazioni e dal loro quadro teorico di riferimento. Noi abusiamo di educazione e non certo nel senso proprio d’oltre oceano di education che è istruzione.

Istruire, grande parola negletta, nei migliori dei casi temuta o guardata con diffidenza nella storia della scuola del nostro Paese. Ma questa parola che si fatica a scrivere e a pronunciare lascia il posto nei nostri testi programmatici “all’azione educativa in tutti i suoi aspetti cognitivi, affettivi, relazionali, corporei, estetici, etici, spirituali, religiosi…., ai progetti educativi e didattici…” ecc, ecc.

Ma conoscere, sapere cosa significano per i soggetti che crescono in questo millennio? Qualcuno si è interrogato su questo? Qualcuno si vuole finalmente interrogare su questo? Qualcuno si è reso conto del cultural divide che ormai da troppo tempo affligge la scuola italiana? Forse i dati OCSE PISA e dell’INVALSI almeno questo dovrebbero suggerire alle orecchie degli interessati. Si continua a denunciare un paese che in materia di conoscenze procede a due velocità. Ma misurare come ci ricorda Thomas Kuhn dovrebbe essere la premessa necessaria per poter modificare. Eppure la nostra scuola si è mai occupata, oltre che di educazione, di conoscenza, di come si conosce, di che cos’è la conoscenza, di come essa possa risiedere nella mente umana e da qui produrre altri e più fecondi saperi? Ultimamente mi è capitato di trovarmi a compiere una riflessione banale, ma ahimè temo molto vera. Si tratta di questo. Quando andavo a scuola mi facevano imparare che il peso lordo si chiama così, punto e basta. Come così si chiama il peso netto, senza altre spiegazioni che non fossero la presenza o meno della tara. Nessun insegnante mi ha mai suggerito di collegare quella idea di lordo al significato di sporco e il netto al suo significato di pulito. Peso "sporco", appunto, con la tara, peso "pulito" senza tara. Ecco l’istruzione: conoscenza e intelligenza. L'intelligenza nel significato della sua radice etimologica latina "inter legere". È questo il significato che la scuola dell’istruzione e della conoscenza, la scuola che muove dai saperi non può permettersi di perdere, perché questo prima di tutto, al di là di tutte i filosofeggiamenti intorno alla persona, riguarda la centralità dello studente come soggetto, unico e originale, soggetto umano intelligente, che non si limita a ripetere ma apprende a leggere tra le righe della conoscenza. Temo che nella stragrande maggioranza delle nostre scuole continui ad avere ampia cittadinanza la didattica dei miei insegnanti, perché troppi sono coloro che in tutti questi anni sono usciti dalle nostre scuole e dalle nostre università senza apprendere a “inter-legere”.

Ho concluso da poco l’esperienza di presidente di commissione per il concorso della scuola primaria in Emilia Romagna e l’impressione che mi è rimasta è quella di aver esaminato candidati, anche quando con anni di precariato alle spalle, privi completamente degli strumenti professionali indispensabili, non dico all’educazione della persona, ma, appunto, all’istruzione di cittadini, di cittadini soggetti del diritto all’istruzione e a una istruzione di qualità. Non ho sentito di contenuti, di saperi, di didattica come professione docente. Ho letto e ascoltato ripetere come una sorta di mantra di cooperative learning, scaffolding, personalizzazione, BES, fino alla “pericolosità delle tecnologie digitali” , per dire dell’apertura culturale dei futuri docenti dei nostri ragazzi dai 6 ai 10 anni: lezioni simulate più simili a rimasticamenti pedagogici, copiature da internet che poco avevano a che fare con l’incontro dei saperi.
Dopo anni di tagli, dire che c’è un’emergenza professionale, di formazione del personale docente della scuola, rischia di essere offensivo dell’intelligenza di quanti nonostante tutto hanno tentato con le sole loro forze di tamponare gli effetti disastrosi di politiche irresponsabili, ma nulla toglie alla constatazione che questa resta una realtà generalizzata.

Si dirà che, contrariamente al passato, le nuove Indicazioni prescrivono il raggiungimento di obiettivi di apprendimento e di traguardi di competenza validi per l’intero territorio nazionale. Certamente, ma gli obiettivi e i traguardi non sono né gli apprendimenti né le competenze nel concreto del loro farsi e divenire, specie se l’enfasi epistemologica ancora si attarda su desuete separazioni tra scienza e discipline umanistiche che ancora aspirano a una loro ricomposizione in un nuovo umanesimo. Specie se la chiave di lettura che viene offerta è che nella prospettiva di un neopersonalismo diventano obiettivi prioritari: “…insegnare a ricomporre i grandi oggetti della conoscenza – l’universo, il pianeta, la natura, la vita, l’umanità, la società, il corpo, la mente, la storia- in una prospettiva complessa, volta cioè a superare la frammentazione delle discipline e a integrarle in nuovi quadri d’insieme.”

Dici poco? Occorrerebbe un manuale a parte solo per poter interpretare e comprendere il senso di queste parole. Dalle lezioni simulate dei candidati al concorso non ho colto, neanche lontanamente, neppure un richiamo a esse.
Del resto sarebbe stato davvero difficile, se non impossibile, per insegnanti che provengono da una formazione scolastica e universitaria trasmissiva, ancora ben lontana da quella disposizione mentale e culturale che richiederebbe l’attuazione di quegli obiettivi prioritari sintetizzati da Edgar Morin, al tramonto del secolo scorso, nell’espressione La tête bien faite. Ma una testa ben fatta necessita di essere collocata al centro dell’apprendimento, con la piena considerazione per il suo cervello, la sua mente, la sua intelligenza, il loro modo di funzionare, di produrre i processi di adattamento e di acculturazione, di crescita, di emancipazione dalle sudditanze disciplinari, per estrinsecare realmente le proprie capacità e risorse nell’apprendere dall’apprendere.

Senza tutto ciò appare davvero azzardato prospettare nuove cittadinanze e nuovi umanesimi, promesse di life long learning quando è già tempo di life wide learning.
C’è scritto in premessa alle Indicazioni: “La scuola è il luogo in cui il presente è elaborato nell’intreccio tra passato e futuro, tra memoria e progetto.”
Quale progetto? Questo progetto non c’è, e soprattutto manca a queste Indicazioni nazionali che giungono in una scuola sfinita, in una scuola per la quale il tempo ormai è scaduto.
Noi non abbiamo più il tempo e gli altri hanno l’orologio...

1 Annali della Pubblica Istruzione, Indicazioni nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo di istruzione, Le Monnier, Firenze, Anno LXXXVIII, p. 15.

 

Scrive...

Giovanni Fioravanti Insegnante di scuola primaria e poi secondaria di II grado, dirigente scolastico, formatore.

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