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di Maria Luisa Jorilo specchio di Alice

18/12/2018

36° Torino film festival

Un cinema internazionale che racconta vita, sentimenti e  concezioni esistenziali   nel mondo

Il festival torinese del cinema, nato  trentasei anni   fa come “cinema giovane” e  in un certo modo tale mantenutosi, con un concorso internazionale di quindici film selezionati tra registi esordienti o  al massimo alla terza produzione, si presta particolarmente a una lettura trasversale  non solo dei punti di vista artistici, ma anche delle  prevalenti caratteristiche psicologiche di giovani adulti oggi nel mondo.
Incredibilmente nei film di Paesi diversi e lontani è possibile scoprire significative  analogie  tematiche, attestando anche così la realtà della  attuale globalizzazione. Peccato che nelle  regie qui le donne figurino in numero troppo limitato: meno di un terzo. Tuttavia molti degli undici film  a direzione e sceneggiatura maschile sono connotati da una sensibilità femminile, forse perché di registi giovani, che trattano sentitamente il tema della formazione, dall’adolescenza alla prima età adulta. In media quest’anno si tratta di  opere di livello sufficientemente buono o discreto, tanto da risultare nel complesso quasi del tutto assenti differenze qualitative di sicuro rilievo. Scegliere il migliore da premiare deve essere stato un compito  non facile per una giuria  attenta alla qualità artistica dei prodotti cinematografici.

 Molti film sulla formazione

Il film vincitore, Wildlife (USA), dell’attore Paul Dano qui esordiente come regista, ispirandosi al romanzo Incendi di Richard Ford, ambientato negli anni Cinquanta del Novecento, mette in scena un momento di svolta nell’iter formativo di un attonito quattordicenne, figlio unico, di fronte allo sgretolamento del matrimonio dei genitori.
Da poco trasferitisi nel Montana, sono tutti e tre, ciascuno nel proprio ambito di lavoro o della scuola, disorientati dal cambiamento. Il ragazzo Joe - privo di emozioni, così come, attraverso il suo sguardo fisso, l’intero film - non prende mai posizione, testimone muto della fine di un’epoca aurea (gli anni ’50), che non potrà più tornare proprio come l’unione dei suoi genitori. Il ritrovato lavoro del padre Jerry, dopo un periodo di volontaria disoccupazione, nella squadra antincendio, introduce l’immagine delle fiamme distruttrici e minacciose come metafora di questo generale sgretolamento. Intanto la madre Jeannette agli occhi del figlio adolescente mostra il suo progressivo inaridimento sentimentale, materializzando le proprie aspirazioni nella ricerca di benessere economico a costo di strumentalizzarsi sessualmente presso il suo vecchio datore di lavoro che la illude. Il film termina con una scena curiosamente significativa: il ragazzo, che durante la crisi familiare aveva lavorato come apprendista presso la bottega di un fotografo, qui, padroneggiandone ormai abilmente gli strumenti, mette a fuoco le immagini di papà e mamma, dopo la loro separazione, seduti in parallelo su una panca, e corre a mettersi in mezzo a loro per effettuare il ritratto di tutti e tre con l’autoscatto. Si capisce così che Joe è ormai capace di mantenere integro l’affetto per i genitori anche se questi non stanno più insieme, accettandoli per come sono. D’altra parte l’intera narrazione del film lo rappresenta caratterizzato da un innato pragmatismo, che lo fa apparire perfino più maturo del papà, in un primo tempo e, in seguito, in assenza di quest’ultimo, della mamma.
Il regista, per essere soltanto al suo esordio, dimostra qualità originali, raccontando i fatti attraverso una visione oggettiva, neutra, priva di emozione, del ragazzo protagonista, costruendo questo punto di vista con uno straniamento recitativo che induce fin dalle prime scene anche nello spettatore lo stesso tipo di percezione straniata. Forse però emerge a un certo punto un difetto tipico della regia del principiante: quello sguardo impassibile di Joe, ad occhi spalancati, che si affianca sempre identico alle scene che riguardano i comportamenti dei genitori, talvolta diventa ripetitivo rispetto alle esigenze di variazioni proprie dello stile cinematografico più efficace.

Un altro film in concorso, di produzione americana, tratta lo stesso tema della formazione di un adolescente durante la separazione dei genitori: All These small moments (USA, 2018, DCP , 84’) di Melissa B. Miller Costanzo, esordiente alla regia. Howie Sheffield (Brendan Meyer) è il protagonista quattordicenne con un braccio ingessato. Ha un fratello più piccolo e due genitori che litigano, poi si amano, si urlano addosso di nuovo, poi fanno l'amore, ma non sanno più se vivere sotto lo stesso tetto. Il ragazzo intanto coltiva una passione per la poesia e incomincia a scoprirsi attratto dalle donne: se ha un cuore infranto per la ragazza dei sogni, Odessa (Jemima Kirke), più matura, che ogni giorno incontra sempre sullo stesso autobus, stenta però ad accorgersi che una coetanea è segretamente innamorata di lui. Il cammino di Howie verso l'età adulta si compirà attraverso piccolissimi momenti di vita, dettagli del mondo che lo circonda su cui la macchina da presa indugia, sfoca, rallenta a significare le sue fuggevoli sensazioni. Il processo formativo del ragazzo viene raccontato così attraverso le immagini più che con particolari eventi o colpi di scena.

Una bambina di otto anni è invece la protagonista di un film filippino: Nervous translation di Shireen Seno (Filippine, 2017, DCP , 90’). Yael vive sola con la madre, il cui lavoro la porta ad essere assente da casa per gran parte della giornata. Molto autonoma, si intrattiene usando un apparato tecnologico (lo stereo - le musicassette - la televisione - il videoregistratore), che testimonia la fase di sviluppo di quel Paese all’epoca (circa il 1987, dati i riferimenti ai tumulti insurrezionali che avevano appena portato alla caduta di Marcos). Il padre assente sembra trovarsi impegnato in qualche guerra lontana. La bambina è chiusa nel suo sforzo di capire il mondo degli adulti , appartata anche quando è circondata da molti parenti in una specie di festa familiare. Ma la scena finale del film lascia intendere che saprà cavarsela anche quando la sua casa viene inondata in seguito ad una alluvione, non insolita da quelle parti.
Il film consiste nell’osservazione meticolosa dei comportamenti della bambina nella casa, da sola o sullo sfondo della festa familiare, scoprendo in tutto questo i segni del momento storico che stava vivendo quel Paese.

Un passaggio all’età adulta di una ragazza che deve far fronte a una particolare situazione familiare è raccontato nel film Marche ou crève di Margaux Bonhomme (Francia, 2018, DCP , 85’). Elisa, diciassettenne, bella e piena di vita, accudisce ogni giorno Manon, sua sorella quasi coetanea, affetta da una grave disabilità. Le due ragazze abitano col padre in una casa in montagna, nel Vercors. La madre se ne è andata perché il marito non aveva voluto ricoverare la loro figlia disabile, sempre più difficile da assistere ora che ha quasi raggiunto l’età adulta, in un istituto specializzato. Margaux Bonhomme, fotografa, esordiente come regista, che ha dichiarato di essersi ispirata a esperienze autobiografiche, trasmette tutta la sua sofferta competenza riguardo l’argomento e il problema che ha preso a oggetto della sua narrazione cinematografica. Il film intreccia il racconto di una fase particolare e difficile della formazione di Elisa con la problematica psicologica e sociale del contrasto tra un amore grande per una parente disabile e nello stesso tempo l’insostenibilità del sacrificio da parte di chi l’assiste. Le scene si concatenano in un crescendo drammatico e nello stesso tempo delicato, sullo sfondo di un paesaggio naturalistico che si fa esplorare, in un muto dialogo tra le persone e le cose, abitare e soprattutto faticosamente scalare, come l’umanità che è in tutti noi. Non è presentato comunque come una sconfitta il fatto che Manon (un’eccezionale Jeanne Cohendy, premiata come migliore attrice in questo Tff) al termine dell’estate viene definitivamente collocata in un istituto, perché l’amore e l’attenzione per lei da parte dei familiari non vengono meno e l’accompagneranno per tutta la vita.
La narrazione è realistica, comunicando allo spettatore sia il fastidio nell’assistere impotenti alle crisi incontenibili della ragazza disabile sia la tenerezza nei confronti dell’umana allegria giovanile che esplode comunque, a volte, nel rapporto tra le due sorelle, nonostante la così grande differenza delle rispettive condizioni. Il film comunica molto efficacemente questi sentimenti perché è ben condotto, in modo fluido nei collegamenti di scena in scena, oltre che molto ben recitato, in particolare dalle due attrici. Naturalmente, data la professione stessa della regista, la fotografia dell’ambiente naturale è notevolmente curata, attraente, ma soprattutto è resa funzionale al significato dei singoli momenti del racconto.

Ne La disparition des lucioles di Sébastien Pilote (Canada, 2018, DCP , 96’) la teenager Léo, che vive in una cittadina canadese in trasformazione da industriale a turistica in seguito alla chiusura delle sue fabbriche, è disorientata e inquieta, schiacciata tra una vita di routine, la nostalgia per il padre lontano e un rapporto irrisolto con la mamma e il patrigno. Il titolo del film è una citazione di una affermazione di Pasolini del 1975, poco prima della sua morte: come l’inquinamento aveva causato la “scomparsa delle lucciole”, così il consumismo introdotto dal neocapitalismo avvelenava l’umanità annullandone ogni traccia di spiritualità. La ragazza tenta di sollevarsi dal tedio cittadino e dal sofferto disagio della sua condizione familiare attraverso l’amicizia con il chitarrista, più grande di lei, pigro e debosciato, ma umanamente gentile e rispettoso, che le insegna a suonare la chitarra e ad accettarsi come fa lui con se stesso. Tutto questo però non basta a Léo per trovare consapevolezza ed equilibrio quando anche la sua fiducia nel padre viene compromessa da rivelazioni insospettate, che la precipitano nella delusione.
Il film vuole evidenziare i problemi che incontra nella formazione una adolescente che vive nel mondo ristretto di una piccola città che, in transizione nel cambiamento economico e, di conseguenza, sociale ed etico, disorienta prima di tutto i più giovani, intralciando la loro crescita.

Storia di una formazione anche in Rossz Versek/Bad poems di Gábor Reisz (Ungheria, 2018, DCP , 97’). Opera seconda dell’ungherese Gábor Reisz. Un giovane adulto, al ritorno in patria dopo un lungo soggiorno a Parigi, entra in crisi per essere stato lasciato dalla donna amata. Per curare la sua sofferenza ripensa alla sua infanzia e adolescenza, in una specie di percorso di autocoscienza, ripercorrendo le proprie radici, in modo da poter vivere in un mondo in cui non riesce a riconoscersi. Per il modo in cui tutto questo è narrato, con continui flash back disordinati (come ogni memoria del passato) e autoironici sul proprio vissuto da parte del personaggio, che cinicamente non nasconde l’amarezza nello sguardo su di sé e sul suo futuro, neppure quando sorride e fa sorridere, il film è stato definito “una commedia dai toni fumettistici sull’impossibilità di essere felici”.

 Alcune delle tematiche diverse

 Altri differenti film in concorso evocano situazioni drammatiche o tragiche di vario tipo, ma tutte riscontrabili in modo identico in ogni Paese occidentale, in seguito ad azioni di malavitosi o a estreme follie individuali causate dall’ infelicità esistenziale. Bisogna sottolineare che quest’anno al Tff non sono state presentate opere di registi asiatici.

Da rilevare in un certo senso un parallelismo tra due film su ansie e dolore sofferti per differenti cause , ma altrettanto drammatici, da donne giovani in Paesi europei diversi(Polonia e Italia) : 53 Wojni (53 War) di Ewa Bukowska (Polonia, 2018, DCP, 82’) e Ride di Valerio Mastandrea (Italia, 2018, DCP, 95’). Entrambi infatti si reggono interamente sulla recitazione di una donna. Nel primo Anka, avendo deciso col marito di avere una figlio, rinuncia alla sua carriera di giornalista mentre lui continua a fare l’inviato di guerra. La donna comincia allora a vivere nel timore di ricevere la telefonata che annuncia la morte del marito. Per tutto il film viene mostrata soltanto la sua ansia in un crescendo parossistico che a poco a poco sfocia in una sindrome da stress post traumatico come quella dei soldati al fronte.
Nel secondo invece, non privo di qualche tocco di humor che alleggerisce qua e là il tema, una donna con un figlio di dieci anni è costretta ad elaborare il lutto per la improvvisa morte del marito in un incidente sul lavoro. Ma, mentre tutto attorno crescono l’attesa e il raccoglimento per il giorno del funerale, lei non riesce a piangere come la circostanza richiederebbe: il dolore è troppo grande e imprevisto, soprattutto talmente assurdo da non poter essere contenuto, riconosciuto in modo da farle sgorgare le lacrime. Anzi è talmente paradossale quella disgrazia (si lavora infatti per vivere e non per morire) da farla grottescamente quasi “ridere”. Il regista nell’ideare il soggetto del suo film deve aver pensato alla popolare definizione ironica, in quanto quasi un ossimoro, della donna che perde il marito proprio sul lavoro: “vedova bianca”.

E’ interessante segnalare il curioso film greco in concorso, Oikos/Pity di Babis Makridis (Grecia, 2018, DCP, 97’), perché la storia grottesca che racconta sembrerebbe una metafora della attuale situazione della Grecia, che forse oggi rimpiange il tempo in cui, in grave dissesto economico, veniva commiserata da tutti gli altri Paesi e aiutata dall’Europa. Un avvocato di successo durante l’assistenza alla moglie in coma in ospedale, in seguito ad un incidente, riceve da amici e conoscenti attestazioni compassionevoli di ogni tipo (perfino la vicina di casa gli porta ogni giorno una torta). Ma, quando lei si risveglia e torna a casa, il marito soffre per la perdita delle attenzioni pietose che riceveva al tempo della disgrazia della moglie. Nessuno più lo bada né gli cuoce una torta la vicina, nonostante le sue sfacciate e insistite richieste. Perciò si destabilizza e cade in una depressione senza scampo. Questa sua infelicità cresce solitaria fino alla follia che lo fa diventare autore di una assoluta tragedia.
Il film è stato definito “Una dark comedy intima e visivamente raffinata sulla singolare gestione del dolore”. Certamente il soggetto sarebbe originale. Ma il racconto manca un po’ di spigliatezza e umorismo nei dialoghi. Inoltre lo svolgimento narrativo nella seconda parte risulta artificioso e troppo sbrigativo.

Una tematica giustamente presente in ben quattro dei film in concorso (rispettivamente tedesco, franco-belga, italiano e brasiliano) è il lavoro. Ha vinto il premio specifico per questo tema (premio Cipputi) Nos Batailles di Guillaume Senez (Belgio/Francia 2018, 98’).
Qui un padre, Oliver, quando un mattino la moglie Laura abbandona la famiglia senza lasciare alcuna traccia di sé, si vede costretto dall’oggi al domani a provvedere da solo ai figli e alla casa nella quotidianità, cercando nel contempo di non venir meno al suo dovere lavorativo e ai suoi impegni politici come sindacalista: per lui un compito immane. Questa storia evidenzia, tra l’altro, quanto in una famiglia di lavoratori sia indispensabile la presenza di una donna che, a differenza dell’uomo, è più capace di conciliare lavoro, casa e figli e di sopportarne la fatica. Ma sarebbe stato più completo il film se avesse accennato alla necessità di incentivare istituzioni di aiuto alle famiglie dei lavoratori, almeno nell’assistenza ai figli.

Questa rassegna dei film in concorso del 36° Torino film festival è rivolta particolarmente ai giovani, in modo che vi attingano spunti di riflessione, se non esempi, su quanto si può apprendere in un confronto fra film che trattano tematiche affini. Infine teniamo conto di quanto sia opportuno prendere in considerazione opere che, proiettate in un festival come questo, frequentatissimo, raggiungono molte persone, perché, anche quando risultano soltanto discrete, ci introducono alla cultura internazionale che esse così diffondendosi indubbiamente alimentano.

 

Di che cosa parliamo?

Il cinema narrativo è uno strumento di comunicazione educativa e didattica  quasi indispensabile  nella scuola di oggi, sia come arte visiva sia come mezzo per far passare e fissare  l’apprendimento attraverso emozioni. Gli insegnanti   hanno bisogno di  mantenersi    informati sui film più adeguati a questi scopi della loro attività professionale. “Lo specchio di Alice” (in quanto il cinema può essere un  vero specchio del mondo per  i ragazzi e le ragazze in formazione) si propone  di informare i docenti sui film contemporanei e su quelli del passato più interessanti e comprensibili   da parte di allievi e allieve adolescenti. Come a scuola per le letture, a  volte verranno  recensite, e didatticamente corredate,  anche opere cinematografiche meno valide esteticamente, ma capaci di suscitare interrogativi, introdurre problemi, illustrare argomenti di studio presso  gli studenti.

L'autrice

Ha insegnato in un triennio linguistico.  Supervisore di tirocinio dal 1999 al 2003  e docente di didattica della letteratura fino  al 2008 presso la SSis dell’università di Torino.  Esperta di cinema e didattica, dal 2003  ha recensito assiduamente sulla rivista insegnare  il “Torino film festival” e i film in uscita più adeguati  a prestarsi come sussidi  nell’insegnamento agli adolescenti.

 


All’indirizzo   marialuisa.jori@gmail.com  su richiesta si forniscono  gratuitamente sia  informazioni  su film  utilmente  collegabili ad  argomenti  dei  programmi scolastici (per es. di storia) sia indicazioni metodologiche   sull’uso didattico del cinema nella scuola di ogni ordine e grado.