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cultura e ricerca didattica

29/04/2025

La storia nelle Indicazioni nazionali della commissione Perla

di Giorgio Cavadi

Il presente contributo riprende parte del documento presentato - in rappresentanza di Clio’92 “Associazione di insegnanti ricercatori sulla didattica della storia” - il 2 aprile 2025 in occasione del dibattito pubblico delle Associazioni professionali sulle Nuove Indicazioni Nazionali, tenutosi a UniRoma Tre, promosso, fra gli altri dal CIDI.

La “nuova” visione del mondo del bambino: individuo, identità, nazionalità.

Siamo consapevoli che in questi giorni molto è già stato scritto a commento della bozza delle “Nuove” indicazioni nazionali”, pubblicizzate dalla commissione Perla. Chiariamo subito che la posizione è critica nel metodo e nel merito, scevra da posizioni che nascano da pregiudizi di alcun genere politiche o peggio ideologiche, a meno che, per ideologia, non si intenda una ben precisa visione del mondo.

Da una parte la visione del mondo, il nuovo umanesimo di cui ci parlano le Indicazioni Nazionali del 2012 disegnano un mondo plurale, dove il microcosmo del bambino “personale” incontra il macrocosmo dell’umanità; si tratta, ci sembra di poter dire, di una rappresentazione ancora attuale alla quale è ancorato tutto il validissimo impianto generale delle Indicazioni Nazionali 2012 (ripreso poi, nel primo documento di manutenzione del 2018 sui “Indicazioni Nazionali e Nuovi scenari”)[1]. Nel nuovo testo licenziato dalla commissione Perla, questa dimensione plurale e multiculturale di un io immerso nel noi del mondo – osservato e studiato utilizzando il paradigma della complessità - è scomparsa, sostituita da una nozione di “nuovo umanesimo” che risulta la parodia di quello del 2012. Non è un caso, pertanto, che un assunto centrale del paragrafo "Cultura, scuola persona" sia stato cassato, quello che dichiarava apertamente la finalità primaria dell’istruzione: “La scuola è perciò investita da una domanda che comprende, insieme, l’apprendimento e «il saper stare al mondo[2], Per contro, il “nuovo umanesimo” delle Indicazioni 2025 non guarda ad “insegnare a sapere stare al mondo”, ma è introflesso semmai nell’esaltare la cultura individualistica del talento della persona [3] alla ricerca delle differenze che tracciano la strada per avere consapevolezza del sé rispetto agli altri [4] con un capovolgimento radicale di prospettiva antropologica.
L’operazione alquanto sciatta di tagliare qua e là pezzi dell’impianto generale delle I.N. 2012 (quasi a volerne fare una foglia di fico che mantenga una presunta continuità con il testo presente), recupera ciò che si ritiene funzionale alla svolta identitaria e nazionalistica che ha una sua ricaduta puntuale, quasi a volerne definire le premesse generali, innanzitutto nell’insegnamento della storia [5]. Una eterogenesi dei fini dove curarsi della memoria significa principalmente ricostruire la memoria alla luce dei desideri del presente. 
La commissione Perla si lascia alle spalle il paradigma della complessità del paesaggio educativo, con il suo logico corollario, ben chiaro nella mente degli “scervellati” [6] del 2012, di una scuola che coniugasse l’apprendimento e il saper stare al mondo mettendo palesemente l’uno al servizio della cittadinanza attiva  e consapevole.

Ma è di tutta evidenza che il saper stare al mondo necessario al bambino per orientarsi in un paesaggio educativo in continua trasformazione, non è tra le finalità della pedagogia nazionale della Commissione Perla. La parabola identitaria, occidentocentrica, che ci propone una presunta strisciante superiorità di un non ben precisato Occidente sulle culture “altre”, sostiene tutto l’impianto finalistico e didattico dedicato all’insegnamento della storia. Culmina in una pseudopedagogia dell’identità (affidata alla storia nazionale) che, lungi dal favorire “la comprensione delle diversità delle culture” [7], alimenta un approccio pedagogico del tutto escludente.

Il bambino a presidio dell’identità nazionale.

A partire dalla scuola primaria è quindi necessario che l’insegnamento abbia al centro la dimensione nazionale italiana (si veda il repertorio di contenuti della classe prima, totalmente avulso da un curricolo di conoscenze storiograficamente sensato), sia al fine di far maturare nell’alunno la consapevolezza della propria identità di persona e di cittadino, sia – vista la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture – allo scopo di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipenderebbe anche in modo determinante se non esclusivo, dalla conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere: in pratica si vorrebbe educare un  bambino “scudiero” dell’identità nazionale a partire dall’autoreferenzialità identitaria che poco o nulla si cura della storia di culture e popoli da “integrare”. La discutibile scelta della centralità della “dimensione nazionale italiana” nella scuola primaria  nonostante “la sempre maggiore presenza di giovani provenienti da altre culture” inutilmente riportata nelle “Finalità dell’insegnamento”, viene motivata dal “fine di favorire l’integrazione di questi ultimi, integrazione che dipende anche, in modo determinante, dalla  conoscenza dell’identità storico-culturale del paese in cui ci si trova a vivere”[8]; pertanto “l’integrazione” dipende innanzitutto dal riconoscimento e dallo studio delle culture e delle civiltà dei  paesi di provenienza dell’altro, altrimenti svela un’ipocrisia paternalistica e cede il passo all’assimilazionismo  etnocentrico.

Questa idea del bambino-scudiero dell’identità italiana in formazione, è in netta contraddizione con uno degli “obiettivi generali dell’insegnamento della storia perseguiti nel corso del primo ciclo” riportati poche righe più sotto (p.  70), ossia quello di “favorire attraverso la storia la comprensione della diversità delle culture”; ma si tratta di una dichiarazione puramente teorica e retorica perché risulta, in tutta evidenza, nella scelta dei contenuti del curricolo di storia (pardon… del programma) la gerarchia fra culture di serie A (italiana), B (europeo-occidentale) e C (resto del mondo). 

Sotto il profilo strettamente epistemologico, colpiscono affermazioni che enfatizzano (ad usum delphini?) una visione romantica e moralistica della storia “Anche in questo modo nella cultura dell’Occidente la storia è divenuta, ed è restata fino ad oggi, l’arena per eccellenza dove post factum si affrontano il bene e il male variamente intesi. Dove rimane memoria delle imprese degli individui e dei popoli, e si compie in qualche modo il loro destino finale: una sorta d’inappellabile tribunale dell’umanità.” [9].

Certo il sistema di conoscenze proposto agli insegnanti della scuola primaria [10] non si limita alla scala nazionale italiana ed europea, ma la mancanza di un approccio  “sistemico” e “transcalare” (dal locale al planetario), proposto, invece, correttamente in  Geografia, e l’insistenza preliminare sulla centralità della “dimensione nazionale  italiana” (e, in seconda battuta, europeo-occidentale), rendono del tutto vana la costruzione nel bambino della  visione di una storia di popoli e civiltà che si sviluppa in un sistema interrelato e ricco di intrecci (nell’intero programma della I sec. di I grado poi - da Carlo Magno alla rivoluzione industriale- non c’è un solo contenuto che faccia cenno a popoli o civiltà extraeuropee, tranne sa va san dir, le crociate!).

Finiscono per relegare le aperture extraeuropee a una funzione marginale: le altre civiltà non vivono mai di luce propria, ma esistono solo quando incontrano la “nostra” storia o si scontrano con essa; l’azzeramento dell’attenzione a ‘quadri di civiltà’ e ai ‘grandi processi di trasformazione’ rende impossibile una seria comparazione interculturale e un pensare storicamente in una dimensione planetaria e pienamente umana.

Perle sparse per un nuovo modo di intendere l’insegnamento della storia.

Dal punto di vista cognitivo e degli apprendimenti, riassumendo brevemente e per punti siamo di fronte a questi passaggi:

  • dall’insegnare a pensare storicamente alla storia narrativa cronologico-lineare (memoria e racconto);
  • dal pensare storicamente all’imparare ad ascoltare;
  • dalla mediazione-didattica che sollecita motivazione, curiosità, apprendimento attivo, al maestro affabulatore che entra in classe e inizia a srotolare aneddoti (la piccola vedetta lombarda, Muzio Scevola) [11] storie “esemplari”, affidando alla narrazione cronologico-lineare (meramente quantitativa) la valenza formativa della storia. Ancora una volta l’insegnamento della storia è chiamato a realizzare uno dei fondamenti didattico-pedagogici delle Nuove Indicazioni: Troppo spesso si dimentica che un insegnante è magis, di più, e che è il volano del desiderio di apprendere di un allievo. Come tale, è un punto di riferimento essenziale del suo percorso di formazione. L’allievo, infatti, non sceglie di desiderare di imparare, sceglie il modello che sa stimolarlo in tale direzione. E il ‘modello’ è l’esempio di un maestro, esempio fondamentale affinché il desiderio dell’allievo non resti allo stato di pura tensione psicologica ma si orienti verso degli oggetti definiti che sono le esperienze e i contenuti del curricolo. [12] 

Tutto il documento è caratterizzato da questa sfiducia di fondo nei confronti delle possibilità cognitive dei bambini e delle bambine ed è alla base del rigetto di decenni di studi sulla didattica della storia.
Confusione dal punto di vista epistemologico e didattico, fra storia, narrazione, mitopoiesi, finzione letteraria (I classe della primaria, “Le radici della cultura occidentale attraverso alcune grandi narrazioni: p. es. Bibbia, Iliade, Odissea, Eneide, (in forma molto semplificata)”.
Confusione sul lessico minimo della progettazione didattica: fra le competenze attese al termine della V primaria “Analisi dei documenti storici. Conoscere il significato dei documenti storici proposti dall’insegnante” che non è, in tutta evidenza, una competenza, semmai una conoscenza servente una competenza.

Nessuna considerazione del formarsi di un pensare storicamente innescando operazioni cognitive fondamentali all’acquisizione autonoma e consapevole della conoscenza storica, dalla tematizzazione, alla problematizzazione all’uso consapevole delle fonti (questa sì una vera competenza), che viene recisamente rifiutata [13]

Cosa ci stiamo perdendo nella formazione storica di un bambino del XXI secolo

Oggi l’accesso indiscriminato a informazioni dati e fonti di ogni genere rende sempre più evidente la deriva verso il relativismo “dell’uno vale uno” che annulla la complessità perché trasforma tout court la notizia in verità, che non necessità di alcuna mediazione esperta, men che meno della verifica delle fonti (il relativismo a-scientifico si porta dietro il vanverismo culturale degli esperti da web). [14] Così “La confusione fra interpretazioni storiche e opinioni personali produce la relativizzazione della ricerca scientifica. I risultati a cui arriva lo storico sono considerati una delle tante ipotesi plausibili…il senso comune della storia è esposto al caos informativo delle fake news”. In ultima analisi “Insegnare storia vuol dire anche offrire agli studenti gli strumenti adatti a verificare tutte le informazioni ambigue che risultano credibili perché fanno appello all’emotività. La diffusione delle fake news partorisce la fake history che si nutre della post-verità…è la negazione della storia: è una forma di supremazia ideologica che trasforma la verità in opinioni credibili. ” [15]

Il valore formativo, intrinseco alla storia, risiede nella disciplina, nella metodologia e nel suo modo rigoroso e aperto di esplorare i problemi, documentare il proprio sapere, discutere le proprie posizioni confrontarle e confrontarsi con gli altri. Poco o nulla di tutto questo troveremo nei paragrafi sul perché si studia la storia (piccolo libello sulla storia dell’Occidente) e in quello sulle finalità dell’insegnamento.

Post Scriptum a margine di una singolar tenzone, il webinar di Tuttoscuola del 14 aprile 2025.

Appena qualche giorno addietro la rivista Tuttoscuola ha organizzato un incontro, proprio sui programmi di storia “Cosa cambia nelle Indicazioni Nazionali 2025” moderato da Andrea Gavosto di Fondazione Agnelli per la scuola. Durante le due ore di dibattito si sono confrontati Italo Fiorin - fra gli “scervellati"[16] che hanno redatto le Indicazioni del 2007 e i Nuovi scenari del 2018-  Antonio Brusa, medievista, docente di didattica della storia e anche lui tra gli autori delle Indicazioni 2012, la prof.ssa Perla, affiancata dallo storico Giovanni Belardelli e da Alfonso Scotto di Luzio esperti della sottocommissione per la redazione delle nuove I.N. 2025 di storia.

Si è trattato di un confronto molto diretto e senza esclusione di colpi, dal quale ho ricavato queste sensazioni che non fanno ben sperare su alcun ripensamento degli “esperti”, in relazione al testo appena pubblicato.

  1. L’atteggiamento degli estensori del testo alterna stupore e quasi indignazione, per quelli che considerano attacchi gratuiti e obiezioni frutto di pregiudizio e scientificamente poco attendibili.
  2. La missione autoattribuitasi dalla commissione Perla è quella di risollevare le sorti della conoscenza storica di base, che avrebbe raggiunto picchi mai visti di ignoranza collettiva.
  3. Si è giunti a questo punto per la deriva pedagogica delle discipline, o meglio per l’invasione (barbarica suppongo) della pedagogia nella storia, con tutto il suo armamentario della cassetta degli attrezzi sull’imparare ad imparare. Fuori i pedagogismi dalla storia!!!
  4. La causa, è presto detto, risiede in tutto quello che nell’insegnamento /apprendimento della storia è metodo, attenzione agli stili cognitivi e alle operazioni cognitive dei bambini (come affrontare situazioni-problema o costruire modelli di spiegazione), è inutile sovrastruttura rispetto al cuore dell’insegnamento della storia basato sulla triade contenuti, narrazione, memoria.
  5. Nessuno dei docenti della commissione presenti, ha dimostrato di avere alcuna sensibilità (per profilo professionale ed esperienze pregresse) e conoscenza del lavoro d’aula di un insegnante di scuola primaria e l’obiezione che nella sottocommissione sia presente una sola docente addirittura di liceo classico (notoriamente roccaforte del conservatorismo didattico), non ha prodotto alcuna reazione.
  6. In questo quadro per gli esperti, Indicazioni e programmi coincidono come si può facilmente osservare leggendo i box che propongono le c.d. “Traiettorie per l’Innovazione”, nei quali si esplicitano in maniera puntuale modelli didattici che, siamo sicuri, saranno ripresi alla lettera da molti insegnanti di scuola primaria.
  7. La didattica della storia è considerata una sorta di impostura che, come ben sanno tutti coloro i quali si confrontano con il mondo accademico italiano, non dovrebbe essere altro che un’espansione quantitativa, al limite un rimescolamento di contenuti del sapere accademico; mentre nessuna cittadinanza e dignità può avere il sapere insegnato che si nutre di una riflessione didattica situata e attenta ai processi  metacognitivi degli studenti.

 

Un pensiero va a Giancarlo Cerini, la cui voce ci manca tantissimo e che nella sua ultima opera uscita postuma [17] auspicava una improcrastinabile “manutenzione” delle Indicazioni Nazionali 2012 nella maniera gentile, analitica ed argomentata che ne contraddistinguevano il pensiero e lo stile.

 

Note

[1]  Per un nuovo umanesimo, Indicazioni nazionali 2012, p. 11.
[2]  Ibidem p.7
[3]  Nuove Indicazioni Nazionali, p.10.
[4]  Ibidem p. 8.
[5]  “A scuola, infatti, l’allievo scopre la propria identità personale e la propria appartenenza a una storia cronologica e socio-relazionale comune”, dalla Premessa culturale generale delle Nuove Indicazioni 2025, p.9
[6]  Si tratta dell’elegante definizione con la quale Ernesto Galli della Loggia ha chiamato gli estensori delle Indicazioni nel 2012, Perla-Della Loggia Insegnare l’Italia. Una proposta per la scuola dell’obbligo, Morcelliana, 2023, p. 47. La prima è divenuta la presidente della Commissione di revisione del testo il secondo il presidente della sottocommisione per il programma di storia. 
[7]  Nuove Indicazioni 2025, p. 70.
[8] Ibidem.
[9]  Ibidem, p. 72.
[10]  terzo paragrafo, pp. 71-73.
[11]  “Origini di Roma…Muzio Scevola, Clelia, I Fabi, Menenio Agrippa, Cincinnato”, dall’indice di Balilla. Storia e geografia per le scuole elementari. Classe IV, Remo Sandron editore, 1929.
[12]  Nuove Indicazioni 2025, p. 10.
[13]  “Anziché mirare all’obiettivo, del tutto irrealistico, di formare ragazzi (o perfino bambini!) capaci di leggere e interpretare le fonti, per poi valutarle criticamente magari alla luce delle diverse interpretazioni storiografiche, è consigliabile percorrere una via diversa. E cioè un insegnamento/apprendimento della storia che metta al centro la sua dimensione narrativa in quanto racconto delle vicende umane nel tempo. La dimensione narrativa della storia è di per sé affascinante e tale deve restare nell’insegnamento, svincolato da qualsiasi nozionismo così come da un inutile ricorso a “grandi temi”, disancorati dall’effettiva conoscenza degli eventi”, ibidem , p.70.
[14]  Su questi temi ha scritto eccellenti pagine Tom Nichols, nel suo La conoscenza e i suoi nemici, Luiss 2017.
[15]  Micciché- Pizzorusso- Ravveduto, Il primo libro di didattica della storia, Einaudi 2025, p. 135.
[16]  Vedi sopra alla nota 6.
[17]  Atlante delle riforme (im)possibili, Tecnodid, 2021. 

 

 

Scrive...

Giorgio Cavadi Autore di studi e ricerche sull'insegnamento della storia nelle scuole, insegna didattica della storia presso la sede di Palermo della LUMSA

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