La cultura, fuori e dentro le scuole, ha sempre offerto di se stessa istanze espressive, curiosità, esempi d’arte sentiti e illuminanti, intrecciati tuttavia con una suprema fatica, quella che compie l’artista nell’osservare una realtà così complessa, problematica e sfuggente da costringerlo a oscurarla, dissolverla fino a cancellarne l’identità.
Questo libro, non nuovissimo (è del 2012), è ricomparso casualmente tra le mie mani durante l’esplorazione di una certa zona della mia libreria denominata “eretici”. Mi è subito ritornata in mente la sua straordinaria originalità e attualità. È una specie di testimonianza-racconto- per frammenti di quanti hanno conosciuto Mario Schifano e si sono intrattenuti con la sua vita e con la sua arte a vario titolo. Amici, estimatori, innumerevoli donne, amanti e muse -tra cui la moglie-, un fratello, critici d’arte famosi, scrittori, poeti, cineasti, galleristi, mercanti d’arte, segretari: una girandola fittissima e avvincente, per la varietà delle storie e dei punti di vista raccolti da Luca Ronchi, autore e regista televisivo.
Le testimonianze narrative iniziano entro una Roma tortuosa, di vicoli e piazzette del centro storico, da cui Schifano mal volentieri si allontanava, tranne che per andare a Sabaudia, dove per altro non faceva il bagno. È la Roma degli anni ‘50/’60, ancora abitata dagli “indigeni” e dai nobili, ingenuamente provinciale e sgangherata, ma assetata di modernizzazione. Per intenderci, la città dei primi passi di Fellini, dei successi sempre più clamorosi di Moravia e di Pasolini, e in via di diventare una notevole fucina culturale di artisti d’avanguardia, poveri ma fervidi di idee. Questo ambiente diventa sempre più aggressivo e talvolta incontrollato, per le sarcastiche polemiche tra i musicisti melodici, i cultori dello swing e del jazz e quindi del rock – è Schifano, per esempio, che di ritorno dal viaggio formativo a New York, “importa” in Italia non solo la musica, ma il personaggio di Keith Richards, la libera femminilità di due muse straniere: Marianna Faithfull e Anita Pallenberg, frequentatrice questa ultima del primo abbozzo di Factory da parte di Warhol.
Nel mentre, divampa la contesa tra artisti figurativi (Guttuso è al centro della polemica), astrattisti (in primo piano le teorie di Forma 1), futuristi-concettuali, fino ad arrivare alle soglie del ‘68 e alla condivisione-esplosione della cultura Pop d’oltre oceano.
Ma c’è anche una Roma inquietante, tra gli splendori dei palazzi nobiliari e alto borghesi – Schifano decorò in modo “magico” la sala da pranzo di Casa Agnelli a Roma-, vagheggiata e frequentata da artisti le cui origini familiari, mai per altro da loro sconfessate, erano piuttosto modeste. La famiglia di Schifano era colta di un’antica attività, a metà tra la ricerca scientifica e la competenza artigianale: il padre era uno scavatore e restauratore di reperti archeologici e l’artista stesso aveva lavorato al museo di villa Giulia.
In un certo senso questo ambiente composito, a volte ridondante, destabilizzante e fasullo, stimola e finanzia l’attività di Schifano, alimentandogli anche la suggestione alla Ginsberg di un uso creativo della droga (l’eroina prima, la cocaina e gli psicofarmaci poi), fino a fargli percorrere il primo passo di un calvario di arresti e di detenzioni, che insieme allo straordinario successo delle sue opere, hanno creato proprio quel mito romantico del genio maledetto per altro criticato dai propugnatori della “morte dell’arte”.
Schifano guadagnò soldi a palate, dissipandoli costantemente per megalomania e generosità incontrollabili, arrivando alla distruzione sistematica della sua specificità di artista a causa di una miriade di copie e di falsi da lui incentivati con beffardo distacco, e alimentando la speculazione commerciale più becera. Eppure, al di là degli eccessi, delle nevrotiche frenesie, di una coazione a ripetere che fa stringere il cuore, Schifano ha saputo esprimere tutte quelle contraddittorie e catastrofiche turbolenze che caratterizzano la cultura contemporanea: una visione della vita- simulacro senza via d’uscita.
Da una delle sue prime opere monocromatiche, due rettangoli di tela di colore ocra su cui è simmetricamente scritta in piccoli caratteri la parola “aut”, a segnare un’alternativa impossibile, alla rappresentazione di simboli ripetuti, di essenzialità talvolta infantile, tracciati con spessi e densi tocchi di colore quasi “selvaggio”, la sua apparente elementarità è piena del mistero di suggestioni e ricordi di una sua formazione remota (e rimossa): stelle e palme (forse i simboli della sua Libia, in cui era nato da genitori italiani, come del resto era capitato a Ungaretti, diventatogli amico); girasoli giganteschi (una metonimia ironica ed eretica di van Gogh?), enormi chimere galoppanti come cavalieri dell’Apocalisse (nel museo di villa Giulia sono tante le immagini chimeriche); campi di grano picchiettati e scolati di rosso; pesci bluette contornati di bianco (un omaggio a Matisse? Ai delfini di Heraklion?), ma anche inquietanti citazioni di ombre umane su sfondi incompleti e di sfocate baluginanti immagini video. Queste ultime sono le opere dagli anni ‘80/’90, che, come si dice nel libro, non sono state ancora adeguatamente studiate e valorizzate.
Schifano preferiva vivere al chiuso delle sue vaste case, che percorreva in bicicletta, circondato da una quantità incredibile di monitor sempre accesi. Lavorava con la tecnologia più avanzata dell’epoca, le fotografie gli servivano come un pre-testo da trasferire su tela, in immagini spesso gigantesche su cui applicava sagome ritagliate, con una tecnica stratificata anticipatrice delle progettazioni sovrapposte al computer. E poi, filmava con cinepresa e telecamera a spalla, faceva video surreali preannuncianti certi videoclip d’arte, in una rivoluzione/ossessione mediatica che lo rendeva estremamente contemporaneo. Alla fine, le immagini fotografiche non erano più passate direttamente sulla tela, ma venivano manipolate al computer. Con questo mezzo, o meglio con l’intuizione di Internet (allora agli esordi) Schifano sognava di dissolvere le proprie costruzioni nell’immaginario globale, dove fosse possibile una manipolazione-rilancio continua. Anche quella era una perdita di identità, ma come scelta consapevole di un artista diventato liquido.
Mi sono chiesta che cosa avrebbe fatto oggi, di fronte ad aberrazioni culturali estreme, del tipo: sparare a un reperto antichissimo o direttamente a un artista, o impedire che le culture circolino. Senz’altro non le avrebbe mai condivise, innanzitutto eticamente, ma delle loro conseguenze emotive (sgomento, rassegnazione, indignazione, esecrazione) sarebbe stato una spugna assorbente. O no? I titoli che dette alle sue opere sono molto significativi, addirittura misteriosi. Uno in particolare mi ha colpito: “Entra nel mio occhio prima che nel sentimento”.
Mario Schifano e Andy Warhol.
Giuseppe Ungaretti davanti al quadro di Mario Schifano 'Futurismo rivisitato' A© Archivio Plinio.