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di Eleonora Aquiliniil filo e la trama

06/05/2020

La bella e la brutta copia

“Quando la piazza fu immersa nella notte, Adamsberg, appoggiato al platano, aprì il taccuino e ne strappò una pagina. Rifletté,  scrisse Camille, e aggiunse Io. L’inizio di una frase pensò. Non era poi così male. Dopo dieci minuti, dato che il resto della frase non veniva, mise un punto dopo Io, e piegò il foglietto intorno a una moneta da cinque.” [1]

La mia maestra diceva che un alunno era bravo se scriveva direttamente in bella. La bella copia di un testo, che solitamente era il tema, doveva essere  perfetta e immacolata per essere apprezzata. Le macchie d’inchiostro e le cancellature non ci dovevano essere. Spesso scrivevamo in bella copia una serie di frasi fatte sulle stagioni, sui buoni sentimenti, su quello che sapevamo di dover scrivere. Eravamo guidati dalla retorica, se per retorica s’intende la forma convenzionale che ha come contenuto il luogo comune, il risaputo. C’era la retorica delle elementari, quella delle medie e quella del liceo. Quest’ultima aveva la veste della moda controcorrente e vagamente rivoluzionaria degli anni settanta, con parole facili, scontate.  La prosa era liscia, senza le asperità provocate dal pensiero riflessivo. Quando invece si riflette profondamente su ciò che si vuole scrivere le frasi hanno un’impennata: non escono con  facilità,  girano, si annodano. Devono essere scritte e riscritte.  Quando si cerca un modo originale per dire qualcosa, la frase scritta spesso non scorre e ci vogliono tante brutte copie per arrivare ad un’espressione soddisfacente del nostro pensiero. Ci si può avvicinare o allontanare moltissimo da ciò che s’intende comunicare azzeccando o  sbagliando una parola:  un verbo può fare centro avvolgendo la nuvola indistinta di un concetto oppure può soffiare sulla nuvola facendola sparire. Le parole hanno un peso differente  quando sono cercate, volute per evocare un significato. La ricerca delle parole e la ricerca del significato spesso coincidono. Lo scrivere è una lotta, un corpo a corpo con il pensiero. Le brutte copie, le cancellature, sono il movimento del pensiero verso la ricerca di un significato.

Diventiamo  adulti quando ci rendiamo conto che la brutta copia è una necessità. Sparisce l’idea dello sbaglio, quando si diventa consapevoli che l’errore è un punto di vista e la correzione è un ripensamento. Nell’insegnamento tradizionale, in cui quello che si deve sapere è dato e non costruito, l’errore è la deviazione dalla ripetizione fedele, è la colpa che merita una sanzione. È  il nemico da combattere.
L’insegnamento che si basa sulla ripetizione delle frasi del libro di testo è calco dell’esistente, imitazione dell’originale e  porta automaticamente all’idea di errore. E l’errore come deviazione dalla perfezione dell’originale diventa  confronto implacabile fra ciò che siamo e ciò che dovremmo essere. Questo  ha conseguenze psicologiche importanti.  Se ripetutamente non si regge il confronto si cade. Quanti sono gli abbandoni scolastici  che sono fughe dal meccanismo errore –punizione?
Come possiamo costruire una scuola in cui l’errore perda i suoi connotati devastanti per l’autostima degli allievi?

Se nella scuola di base si usa prevalentemente il libro di testo per imparare le scienze, quando posso scrivere direttamente in bella copia quello che ho letto? Quando ho memorizzato una frase, un paragrafo e sono in grado di riprodurlo in un bell’italiano. In tutto questo non c’è costruzione della conoscenza, non c’è pensiero riflessivo. Se invece il fatto che si sta studiando, il fenomeno,  viene analizzato, esplicitando anche per scritto le osservazioni e le interpretazioni che se ne danno e poi si discute con gli altri e si arriva ad una conclusione condivisa, allora la conoscenza è una costruzione.

In una metodologia organizzata intorno a fasi progressive e coerenti (osservazione del fenomeno, elaborazione scritta individuale, discussione collettiva, rielaborazione scritta individuale, conclusione condivisa [2]), il processo è costituito da stadi che portano a continui ripensamenti sia  individuali che collettivi che non assumono la forma dell’errore e della correzione. Si arriva poi ad una condivisione di “giudizio” su quello che si è studiato. In questo modo di procedere si cerca di “mettere in forma” o, se se si preferisce, di dare una forma al pensiero che da individuale diventa collettivo, principalmente attraverso la produzione scritta. È appunto nella seconda fase, quella che segue all’osservazione del fenomeno, che per iniziare a dare forma ai pensieri ci si libera dalle strutture linguistiche codificate.
Il pensiero in azione, non richiede troppe briglie. Le forme grammaticali non hanno importanza in un momento in cui è necessario liberare il pensiero.
È invece nella quarta fase, quella che segue alla discussione collettiva, che i pensieri forse sconnessi della produzione scritta individuale precedente prendono una struttura più compiuta e attenta. Il contributo che proviene dagli altri serve per rivedere, ripensare e ricostruire il proprio pensiero. Questo però non sarebbe possibile se la discussione collettiva, guidata sapientemente dall’insegnante, non fosse orientata a dare un ordine logico agli enunciati frammentati e slegati della seconda fase. Nella scrittura finale ritroviamo i concetti e la frase è linguisticamente corretta. Il pensiero  prende una forma che è lentamente pensata e ripensata.

Note

1. F.Vargas, Parti in fretta e non tornare, Torino, Einaudi, 2019, p.359.
2. Cfr. C.Fiorentini, Rinnovare l’insegnamento delle scienze, Roma, Aracne, 2018.

 

Di che cosa parliamo

Il nostro lavoro di insegnanti assomiglia a quello della tessitura. Cerchiamo di trovare i fili, di metterli al punto giusto, di costruire tele di conoscenze, reti di relazioni che tengono uniti, che danno senso.
Nel cercare i fili giusti siamo guidati dall’idea di connettere conoscenze che siano utili e importanti per i nostri studenti. Le scelte che noi facciamo sono sempre regolate dall’incognita data dalla presenza degli altri. Mentre negli altri rapporti umani possiamo non dare eccessivo peso alla differenza e all’indifferenza, alla disponibilità e all’indisponibilità, ai giudizi e ai pregiudizi, tutto questo a scuola non è possibile.

 

L'autrice

Eleonora Aquilini è laureata in Chimica, docente di Scuola secondaria di II grado. Fa parte del “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica in educazione scientifica del CIDI di Firenze”. Da diversi anni fa attività di formazione nel campo dell’insegnamento scientifico nei diversi ordini di scuola. Ha numerose pubblicazioni riguardanti la didattica della Chimica e delle Scienze.