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di Eleonora Aquiliniil filo e la trama

05/01/2016

Una periferia senza centro

Cosa è che non va nella “buona scuola”? Cosa è che ci allontana anche dalla sola lettura dei paragrafi che ne delineano il profilo, che ci dà fastidio e che sentiamo così estraneo a noi insegnanti? Me lo sono chiesta tante volte. Non sono tanto i discutibili dirigenti dirigisti, padri e padroni, i comitati di valutazione improbabili (eppure certi), le assunzioni giuste ma scriteriate in nome di un potenziamento che non ha progetto.

È il fatto che è un ennesimo contenitore vuoto. È una delle tante strutture senza centro: ci sono le mura di cinta, gli uffici, i negozi, i palazzi anonimi delle periferie, qualche strada. Manca la piazza principale, quella in cui pulsa il cuore della città. Mancano le persone che ci abitano e che fanno commercio dei loro talenti: gli studenti e gli insegnanti. Di loro non si dice nulla. Parlare di loro è parlare di quel particolare scambio che è l’educazione e di quanto essa ha bisogno di essere resa attuale, reale. Per essere attinente alla realtà l’educazione oggi deve tenere conto di quali sono i contenuti importanti che ogni disciplina deve avere come riferimento, di come questi contenuti “essenziali” devono essere proposti, di quanto è necessario che la psicologia e la pedagogia pervadano le discipline e non le sostituiscano. La ricerca di quelle che sono le cose importanti da sapere in un determinato ambito e la consapevolezza dell’importanza che ha la didattica nella costruzione di significati sono fattori che mettono in relazione l’apprendimento con gli individui. E gli individui, le persone, mostrano sempre caratteristiche diverse, difficilmente definibili. Questo mistero dell’unicità della persona è andato perduto.
Le caratteristiche degli individui sono diventate i nomi che categorizzano e gli studenti con dislessia sono i-dislessici, quelli con disabilità i-disabili. Tralasciando il caso delle persone con disabilità che richiedono effettivamente attenzioni particolari, i-bes, i-dislessici, sono le nuove categorie che, una volta riconosciute come tali, entrano in un trattamento di protezione, altamente deresponsabilizzante per gli insegnanti. Sappiamo invece che le realtà psichiche e intellettuali sono difficilmente catalogabili e che esiste un continuum fra chi è considerato scolasticamente nella norma e fra chi non lo è. Nelle varie buone scuole che abbiamo incontrato negli ultimi vent’anni si sono circoscritti territori dove alle diverse tipologie di studenti si è voluto dare un nome e una cura medica. Nella maggior parte dei casi è invece lo studio di ciò che è comprensibile e il modo di impararlo che cura. È lo studio critico di conoscenze importanti e accessibili che crea competenza. Le competenze non sono abiti o accessori da comprare nei negozi delle periferie che hanno delineato le diverse buone scuole che abbiamo incontrato.
Nella piazza principale della scuola, della vera scuola che vogliamo, c’è quel rapporto speciale che s’ instaura fra maestri e allievi, attraverso la conoscenza. Accanto alle parole, c’è un passaggio muto d’intenzioni, di modi di fare, di affrontare problemi. Nel centro della piazza c’è un mentore che riconosce valore alla persona che ha davanti e all’atto del conoscere.
È dal centro della piazza che dovrebbero partire le strade secondarie, i palazzi, gli alloggi, i treni. Si potrebbe anche ammettere l’esistenza di periferie purché abbiano uffici che regolano il buon andamento delle attività del centro.

Si dirà che una legge, con un numero e un codice, non può parlare di queste cose. Certo, non si pretende che in una legge si parli di passione all’insegnare e all’imparare. Quello che però si esige è che se ne faccia un richiamo, si lascino aperti gli spazi per una formazione vera per insegnanti e studenti, si riconosca, se non altro, che lo scambio fra alunni e insegnanti ha bisogno di tempi distesi e rilassati. Si lasci per lo meno il tempo di pensare a ciò che si deve insegnare. Un insegnante è abilitato a svolgere il suo mestiere quando sa che le conoscenze possono essere apprese appieno solo quando le età degli alunni sono in grado di accoglierle. Molti insegnanti “arruolati” invece non lo sanno.
Una legge può parlare di come una scuola può far raggiungere ai suoi insegnanti questo grado di consapevolezza e può stanziare fondi per la formazioni specifica (i 500 euro dovrebbero essere usati obbligatoriamente per questo, al cinema si può andare per mille motivi). Una legge può dare valore al tempo della riflessione su cosa e come si insegna, al tempo lungo che serve per imparare. Invece la sensazione che abbiamo girando nelle strade di questa buona scuola, è quella di girare a vuoto, di stare dentro una città senza piano regolatore, con costruzioni abusive, un labirinto che non ha centro.

 

 

Di che cosa parliamo

Il nostro lavoro di insegnanti assomiglia a quello della tessitura. Cerchiamo di trovare i fili, di metterli al punto giusto, di costruire tele di conoscenze, reti di relazioni che tengono uniti, che danno senso.
Nel cercare i fili giusti siamo guidati dall’idea di connettere conoscenze che siano utili e importanti per i nostri studenti. Le scelte che noi facciamo sono sempre regolate dall’incognita data dalla presenza degli altri. Mentre negli altri rapporti umani possiamo non dare eccessivo peso alla differenza e all’indifferenza, alla disponibilità e all’indisponibilità, ai giudizi e ai pregiudizi, tutto questo a scuola non è possibile.

 

L'autrice

Eleonora Aquilini è laureata in Chimica, docente di Scuola secondaria di II grado. Fa parte del “Gruppo di ricerca e sperimentazione didattica in educazione scientifica del CIDI di Firenze”. Da diversi anni fa attività di formazione nel campo dell’insegnamento scientifico nei diversi ordini di scuola. Ha numerose pubblicazioni riguardanti la didattica della Chimica e delle Scienze.