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di Lina Grossipagine dimenticate

14/03/2020

La letteratura ci aiuta a capire: epidemie e presenza del male nella storia

“…il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto che qui finisce, per non essere di quelli che tacciono, […]e per dire semplicemente quello che s'impara in mezzo ai flagelli, e che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare.” (da Albert  Camus, La peste)

“…Rieux ricordava che quell’allegria era sempre minacciata: lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai.” (da Albert  Camus, ibidem)

Molti in questi giorni hanno cercato risposte, nelle pagine della letteratura o nei ricordi riaffioranti di letture passate, ai tanti perché emersi a causa della sfortunata contingenza sanitaria che stiamo vivendo. Un esempio che lo dimostra è l’aumento eccezionale di vendite di La Peste di Albert Camus, che anche in Italia ha visto un rinnovato aumento di interesse nei lettori. Esso è senz’altro giustificato per il presente, ma per il passato?

Una panoramica dei titoli e degli autori  che si sono occupati dei temi dell’epidemia/ morte/ malattia/peste, nella letteratura occidentale, si può trovare accedendo ai seguenti link: tartti da ibuk.it

 Leggi che ti passa

1. C'è un virus nella trama
2. Il fascino oscuro dell'epidemia
3. Le epidemie che hanno fatto temere la fine del mondo

 Perché anche nel passato, recente e non, storiografi, filosofi, poeti, romanzieri hanno affrontato temi come la peste [1], il contagio, la malattia e la morte. E allora, ci si chiede, da quali prospettive e con quali intenti? Per rispondere a questo interrogativo è stato utile ripercorre, seppure in rapida rassegna, alcuni grandi classici della letteratura occidentale, nei quali la peste è un luogo letterario che compare sotto diversi aspetti: come resoconto di uno storico, come ammonimento all’uomo a non lasciarsi sopraffare dalla paura della morte, come segno della fragilità dell’uomo e metafora del male di vivere e di molto altro ancora. Ci limiteremo qui ad alcune grandi opere da Tucidide e Lucrezio, a Boccaccio e Manzoni, a  Camus e Saramago.

Tucidide
In Tucidide, la descrizione della peste di Atene [2], che colpisce la città  intorno al 430 a.C. [3] scaturisce da una prospettiva storica: è puntuale, obiettiva e attenta nell’analisi degli eventi. In un crescendo sempre più drammatico, lo scrittore illustra la diffusione geografica del male e  le ipotesi sulle sue cause:

Dapprima, a quanto si dice, la peste incominciò in Etiopia, poi passò anche in Egitto e in Libia, e nella maggior parte della terra del re. Ad Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli abitanti del porto, così che gli ateniesi sostennero che i Peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi; poi raggiunse anche la città alta, e iniziò a ucciderne molti di più. (trad. G. Rosati)

Si sofferma poi sui sintomi e i segni presentati dagli ammalati e, soprattutto, coerentemente con la sua visione della storia,  cerca di chiarire a se stesso e al lettore  le ragioni profonde della sua ricerca e della sua scrittura: “racconterò di che genere sia stata, e ne mostrerò i sintomi, in modo che, se un giorno dovesse ripresentarsi, si sappia di che cosa si tratta e si possa tenere conto delle esperienze precedenti. La storia diventa, in tal senso, non solo un mezzo per ricordare grandi gesta o eventi, ma soprattutto uno strumento utile ai posteri per comprendere e interpretare il loro presente.

Si dica pure su questo argomento quello che ciascuno pensa, medico o profano che sia, sia sulla probabile origine della pestilenza, sia sui fattori capaci di indurre un così repentino cambiamento dello stato di salute. Io invece racconterò di che genere sia stata, e ne mostrerò i sintomi, che si potranno tenere presenti per riconoscere la malattia stessa, caso mai scoppiasse un’altra volta. Giacché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati. (trad. G. Rosati)

Il quadro storico fornito da  Tucidide non si sofferma però soltanto sull'attenta analisi dei sintomi e degli effetti fisici, ma con altrettanta attenzione descrive l’alternarsi di paura e coraggio, di abbandono e solidarietà nelle relazioni umane e familiari, fino alle ripercussioni del morbo sulla “pietas” verso i morti, il rispetto degli dei e delle consuetudini religiose, l’osservanza delle leggi civili: 

…gli uomini infatti, sopraffatti dalla disgrazia e non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, cadevano nell’incuria del santo e del divino […]. Anche in altri ambiti il morbo dette inizio, in città, a numerosi infrazioni della legge. (trad. G. Rosati)

Lucrezio

In Lucrezio, con la descrizione della peste di Atene si chiude il De rerum natura [4] scritto nel I secolo a. C. Infatti, nell’ultimo libro, il poeta e filosofo parla dei fenomeni naturali e conclude la trattazione sull’origine e diffusione delle malattie soffermandosi, in particolare, sulla peste, traendo a modello Tucidide.  Pur trattando di uno stesso argomento, le modalità di scrittura e l’intento narrativo sono però profondamente diversi. Lucrezio, a differenza del tono sobrio e asciutto dello storico greco, il cui intento era fornire una veritiera narrazione storica degli eventi, fa uso della forma poetica con un ampio ricorso agli artifici retorici, e dà spazio a contenuti talora macabri e inquietanti.  In una visione di crescente orrore e di degradazione morale, si mescolano “il senso attonito del mistero, l'orrore della vita come sofferenza e tormento, la nullità dell’uomo oppresso dalla natura crudele” e “la compassione dolente del poeta, che questa volta si associa al dolore dell'umanità senza condannare, in una muta e impotente solidarietà di affetti che ricorda la conversione leopardiana nella Ginestra. [5]” 
Scrive Lucrezio:

Quando poi il violento contagio attraverso le fauci
invadeva il petto, e affluiva per intero al cuore dolente dei malati,
tutte davvero le barriere della vita vacillavano.
L’alito effondeva dalla bocca un orribile lezzo
come quello che emanano le marce carogne insepolte.
Le forze dell’animo intero e tutta la fibra
del corpo languiva sulla soglia stessa della morte.
[…]

La morte aveva colmato persino i santuari degli dei
di corpi inerti, e tutti i templi dei celesti
restavano ingombri di cadaveri sparsi e ammucchiati,
luoghi che i custodi avevano affollato di ospiti.
Non più si teneva in onore, infatti, il culto divino,
e il potere dei numi: il dolore presente vinceva. [6]

Nel poema, mosso da una concezione materialistica, le epidemie sono dovute ai germi letali, concorrenti in natura con quelli vitali, i quali provenienti dal cielo e dalla terra, nei loro spostamenti contaminano aria e acqua.

Ora spiegherò quale sia la causa dei morbi, e di dove
sorta d’un tratto una violenta infezione possa spargere
fra le stirpi degli uomini e i branchi degli animali una funesta stage.
Anzitutto ho chiarito prima che esistono germi
Di molte sostanze  che sono vitali per noi,
e al contrario devono volteggiarne altri che apportano
malattia e morte. Quando per caso si levano questi ultimi
e intorbidano il cielo, l’aria diventa infetta. [7]

Boccaccio

Giovanni Boccaccio, nelle pagine introduttive alla prima Giornata del Decameron, racconta la pandemia, probabilmente di peste, importata dal nord della Cina, che sconvolge Firenze nel 1348 e dilaga attraverso la penisola balcanica in tutta l’Europa.
Lo scenario della terribile pestilenza fornito da Boccaccio è percorso da un senso di attonito sbigottimento per il violento e rapido propagarsi della malattia, che è causa non solo di morte ma di disgregazione del tessuto sociale della città, di scomparsa degli affetti più solidi, poiché "li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano", di ricerca di illeciti guadagni. Di questo flagello, Boccaccio lascia insoluto il dubbio circa la causa: punizione divina per i peccati degli uomini o  maligni influssi astrali?
Scrive infatti:

“…pervenne la mortifera pestilenza: la quale, per operazion de’ corpi superiori o per le nostre inique opere da giusta ira di Dio a nostra correzione mandata sopra i mortali, alquanti anni davanti nelle parti orientali incominciata, quelle d’inumerabile quantità de’ viventi avendo private, senza ristare d’un luogo in uno altro continuandosi, verso l’Occidente miserabilmente s’era ampliata.

In realtà, questo "orrido cominciamento" è solo l’inizio dell’iter narrativo, impervio all’inizio come la scalata di una "montagna aspra", ma poi estremamente piacevole quando si arriva sul pianoro: con questa immagine Boccaccio propone la sua storia, affidata alle voci di dieci novellatori. L’allontanamento dalla città dei giovani fiorentini per evitare il contagio è il  pretesto narrativo che muove la storia ma, al tempo stesso, rappresenta anche il riaffermare la speranza di poter ricostruire quel senso di comunità sociale fondata su valori condivisi e riaffermare il prevalere della vita, nelle sue molteplici potenzialità espressive, sul senso di morte fisica e di oscuramento della ragione. Ė una visione di tipo laico e terreno che, per certi aspetti, anticipa l’atteggiamento dell'Umanesimo di fronte alla vita, specie nell'abbandonarsi alla piacevolezza del vivere  per contrastare e accettare la sofferenza e il dolore. 

Manzoni

La peste raccontata da Alessandro Manzoni  in pagine molto note del romanzo I promessi sposi e nel saggio storico Storia della colonna infame è quella a lui più vicina, che colpisce in modo particolarmente violento il Ducato di Milano,  con la massima diffusione nell'anno 1630.
L’oggettività del giudizio, e di conseguenza la sostanza del vero storico, è data dall’esposizione fatta da Manzoni dello svolgimento degli eventi: la ricerca documentata delle cause, dei modi in cui si è sviluppata, delle responsabilità e della situazione a Milano. Per quanto riguarda la causa Manzoni, vicino agli storici liberali francesi e all’illuminismo lombardo, non crede che essa sia un castigo che si abbatte sugli uomini, ma neppure che sia una calamità naturale contro cui non ci si può difendere. La sua diffusione è invece favorita da precise responsabilità umane, che un metodo d'indagine scientifico deve scoprire e denunciare.
Scrive Manzoni:

La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c'era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d'Italia. Condotti dal filo della nostra storia, noi passiamo a raccontar gli avvenimenti principali di quella calamità; nel milanese, s'intende, anzi in Milano quasi esclusivamente […].
In principio dunque, non peste, assolutamente no, per nessun conto: proibito anche di proferire il vocabolo. Poi, febbri pestilenziali: l'idea s'ammette per isbieco in un aggettivo. Poi, non vera peste, vale a dire peste sì, ma in un certo senso; non peste proprio, ma una cosa alla quale non si sa trovare un altro nome. Finalmente, peste senza dubbio, e senza contrasto: ma già ci s'è attaccata un'altra idea, l'idea del venefizio e del malefizio, la quale altera e confonde l'idea espressa dalla parola che non si può più mandare indietro. […] Ma parlare, questa cosa così sola, è talmente più facile di tutte quell'altre insieme, che anche noi, dico noi uomini in generale, siamo un po' da compatire. (cap. XXXI)

La sostanza del vero poetico emerge dallo sguardo compartecipe dello scrittore che trova espressione, per esempio nel passo che segue, nell’atteggiamento di compassione e rispetto verso gli altri. Scrive Manzoni:

Entrato nella strada, Renzo allungò il passo, cercando di non guardar quegl'ingombri, se non quanto era necessario per iscansarli; quando il suo sguardo s'incontrò in un oggetto singolare di pietà, d'una pietà che invogliava l'animo a contemplarlo; di maniera che si fermò, quasi senza volerlo.[…]
Così detto, rientrò in casa, e, un momento dopo, s'affacciò alla finestra, tenendo in collo un'altra bambina più piccola, viva, ma coi segni della morte in volto. Stette a contemplare quelle così indegne esequie della prima, finché il carro non si mosse, finché lo poté vedere; poi disparve. E che altro poté fare, se non posar sul letto l'unica che le rimaneva, e mettersele accanto per morire insieme? come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte l'erbe del prato.
- O Signore! - esclamò Renzo: - esauditela! tiratela a voi, lei e la sua creaturina: hanno patito abbastanza! hanno patito abbastanza!
Riavuto da quella commozione straordinaria, e mentre cerca di tirarsi in mente l'itinerario per trovare se alla prima strada deve voltare, e se a diritta o a mancina, sente anche da questa venire un altro e diverso strepito, un suono confuso di grida imperiose, di fiochi lamenti, un pianger di donne, un mugolìo di fanciulli. (cap.XXXIV)

La descrizione della peste assume in Manzoni i tratti di un grande affresco del male che si affaccia, a tratti,  prepotente nella storia dell’uomo, del suo mistero, della drammaticità della sua diffusione nel disfacimento fisico e morale che produce negli esseri umani, che viene  narrato a futura memoria.
 
Poe
 
Una pestilenza immaginaria è descritta da  Edgar Allan Poe  nel racconto  La maschera della morte rossa,  pubblicato nel 1842, ambientato  in un paese imprecisato e in un tempo lontano e indefinito, in una vecchia magione dagli interni cupi, dominati dai colori nero e rosso. Il racconto è percorso da un senso di smarrimento e di angoscia di fronte a un elemento naturale ritenuto invincibile, “la Morte Rossa”. Questo l’incipit:
 

 Da gran tempo la “Morte Rossa” devastava la contrada. Mai s’era avuta pestilenza tanto letale, di tanta atrocità. Il sangue era il suo Avatar e il suo sigillo, il color rosso e l’orrore del sangue. Acri dolori, poi subito vertigine, e sangue che sgorgava dai pori, e il mortale disfacimento. Le macchie scarlatte sul corpo, specialmente sul volto della vittima, erano il letale contrassegno che la escludevano dall’aiuto e dalla sollecitudine dei suoi simili. Insorgeva il morbo, si  diffondeva e concludeva nell’arco di mezz’ora.

In questa storia densa di allusioni simboliche e di elementi tipici del racconto dell’orrore, Poe riprende l’idea della peste come simbolo di devastazione e di lotta tra la vita e la morte; un’idea ancora molto presente nell’immaginario collettivo ottocentesco dopo le tante devastanti vicende dei secoli precedenti e, dunque, capace di colpire nel profondo il lettore.

Camus
 
Di un’epidemia immaginaria [8] parla anche Albert  Camus, nel romanzo La peste (1947), ambientato in una prefettura sulla costa algerina, in un imprecisato 194… La descrizione dettagliata dell'avvento della peste, del suo flagello, della sofferenza e dei suoi effetti, è una metafora del male e, nello specifico, della guerra (e del nazismo). Il protagonista è Bernard Rieux, un medico francese, che è anche il narratore del romanzo, condotto come cronaca scritta in terza persona e colui che esprime la riflessione finale sull’intera vicenda. Ascoltando le grida d’allegria per la fine del contagio, egli non può gioire del tutto in quanto consapevole che la sua non poteva essere la cronaca di una vittoria definitiva quanto la testimonianza di quello che era stato necessario compiere e che avrebbero dovuto compiere in futuro, contro il terrore e le sue armi, "tutti gli uomini che non potendo essere santi e rifiutandosi di ammettere i flagelli, si sforzano di essere dei medici".

Con pragmatismo e dedizione professionale combatte la sua battaglia contro il male, pur nella consapevolezza che la sua non è una vittoria definitiva ma convinto che gli uomini devono collaborare, mantenere rapporti di solidarietà e, insieme, lottare e resistere contro ogni oppressione e ingiustizia. Lo scrittore e il narratore dietro cui si cela, il dottor Rieux, sanno ciò che si può leggere nel libri e che segna il destino dell’uomo.  Scrive Camus nella pagina conclusiva: 

"…lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe il giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini,  la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice".

 

Note

1. Il termine pèste (dal lat. pestis «distruzione, rovina, epidemia»), è  genericamente usato sia nella accezione propria per indicare il  batterio Yersinia pestis, sia spesso per  indicare epidemie e gravi malattie contagiose. 
2. Tucidide, La guerra del Peloponneso II, 47-53.
3. Per un rapido quadro d’insieme del contesto storico, si veda "Guida alla lettura", in "La peste di Atene. Liberamente tradotto", Fondazione Alessandra Graziottin, 2011.
4. De rerum natura, libro VI, versi 1138-1286.
5. Si veda L. Perelli, in Lucrezio, De rerum natura, Torino 198011, p. 248.
6. Libro VI1, vv.151-1157; 1272-1277, (trad. L. Canali).
7. Libro VI, vv.1090-1097, (trad. L. Canali).
8. Una lettura allegorica del destino dell’uomo contemporaneo è presente in due straordinari saggi di Josè Saramago: Cecità (o Saggio sulla cecità), pubblicato nel 1995  e Saggio sulla lucidità, nel 2004. La cecità narrata da Saramago è una epidemia senza luogo, senza tempo, senza visi e senza nomi ma, più che una malattia, è uno stato dell’essere, che ha le sue radici nell’uomo, nella sua mancanza di solidarietà, nel prevalere del male che rende gli esseri umani ciechi, anche quando vedono. La cecità è il buio di una vita senza speranza.
Nel Saggio sulla  lucidità (bellissimo titolo polisemico che abbina le idee di luce e razionalità),  scritto in coppia con il saggio/romanzo precedente, lo scrittore portoghese immagina che in un paese immaginario, ma non troppo, gli elettori si rechino ai seggi per votare scheda bianca. Il gesto di silenziosa protesta collettiva fa cadere la maschera liberale del governo e la situazione degenera tragicamente. Nonostante  la drammaticità della reazione e le inevitabili conseguenze mortali, il messaggio di Saramago è chiaro: fino a quando ci saranno esseri umani, o anche un solo essere umano, a comportarsi secondo quanto gli suggeriscono la propria coscienza, la dignità e il rispetto per se stesso e il prossimo, c’è ancora speranza per l’umanità e la lucidità potrà propagarsi.

 

 

Di che cosa parliamo

 

(ri)dare forza a parole già dette. La narrativa italiana e straniera cui riferirsi per parlare di scuola è affollata di esempi tuttora letti  rispetto ad altri a torto dimenticati. Lo spazio della mia I/stanza non vuole essere una retrospettiva e neppure una trincea nostalgica, ma intendo parlare di scuola e di educazione attraverso la (ri)lettura di pagine (di letteratura e non) a partire dalle riflessioni o dalle emozioni già “fissate” in un testo, per cercarvi corrispondenze, risposte, stimoli, suggestioni e altro ancora rispetto agli interrogativi sull’educazione e la società di oggi. Pagine godibili, ancora capaci di generare un rapporto empatico con il lettore, ora come semplici elementi di “cornice”, ora perché essenziali allo sviluppo di una narrazione.

L'autrice


Come insegnante nei licei, si è occupata di didattica del latino e dell’italiano. In molte attività di formazione ha collaborato a lungo con Università, Istituti  di ricerca, Associazioni di insegnanti, scuole e reti di scuole. Ha svolto attività di  ricerca presso l’INVALSI coordinando progetti in ambito nazionale e internazionale sulla valutazione degli apprendimenti e sulle competenza di lettura e scrittura.  È autrice di numerosi articoli e saggi su riviste specializzate;  di monografie, di testi scolastici e di ricerca didattica nell’editoria diffusa; di rapporti di ricerca.