In occasione del conferimento dell' Oscar per il migliore film straniero, riproponiamo la recensione in ottica didattica già pubblicata nel mese di gennaio!
Titolo originale: La grande bellezza
Genere: Drammatico
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino e Umberto Contarello
Interpreti : Toni Servillo, Carlo Verdone, Sabrina Ferilli, Iaia Forte, Pamela Villoresi, Galatea Ranzi, Roberto Herlitzka, Isabella Ferrari e molti altri.
Fotografia: Luca Bigazzi
Musiche: Lele Marchitelli
Produzione: Italia
Anno: 2013
Premiato con il Golden globe e inserito nella cinquina di candidati all'Oscar com migliore film straniero - In fondo alla pagina il trailer ufficiale del film
Jep Gambardella ha 65 anni: con il suo sguardo di giornalista-scrittore racconta l’ambiente romano in cui vive, quello vuoto e falso di certa borghesia medio-alta, ma anche la bellezza dei paesaggi, delle opere d’arte della Capitale, diffuse negli interni e negli esterni che frequenta, immagini mescolate a quelle intermittenti del ricordo dei propri ideali giovanili del bello e della purezza assoluta dei valori. Vive a Roma dall’età di 26 anni e qui aveva avuto successo con un romanzo “L’apparato umano”, cui era seguito un blocco creativo insuperato fino al presente della storia. Conduce una vita per la maggior parte del tempo oziosa, a parte le interviste che deve svolgere per la cronaca scandalistica del periodico per il quale lavora (diretto da una donna nana).
Conosce tutto e tutti, e ogni sera va a dormire quando la gente comune si sveglia, dopo aver frequentato e spesso organizzato sulla sua magnifica terrazza di fronte al Colosseo, tutte le feste possibili, con l’intenzione, dice, non di assumervi il ruolo dell’animatore, ma di raggiungere il potere di “farle fallire”. L’amarezza di Gambardella emerge fin dalla sua prima apparizione cui fa da contrasto la scenografica bellezza naturale e artistica dei luoghi più suggestivi di Roma. Il film inizia proprio con una visione immensa ed eterna dal Gianicolo, talmente stupefacente che il cuore di un turista giapponese, folgorato dalla sindrome di Stendhal, non regge all’infarto, mentre si leva un canto sublime di musica sacra.
La raffinata colonna sonora che accompagna monumenti e paesaggi del film serve a sottolineare la bellezza sfolgorante di Roma, in contrasto stridente con la musica un po’ volgare delle feste mondane cui Gambardella partecipa, alternate a un ballo collettivo da discoteca con l’immancabile “trenino” degli ospiti scomposti. In queste feste ci sono persone che bevono, fumano, sniffano cocaina o, quando si siedono sudate sui divani, si scambiano soltanto pettegolezzi, sempre al ritmo di una musica assordante. Jep, che non si lascia sfuggire le occasioni per commentare e definire nella sua ignorante, egoistica miseria, quella fiera delle vanità, dice simbolicamente che quei “trenini” recitati ballando tutti insieme “non portano da nessuna parte”.
A un certo punto smaschera persino, in faccia alla stessa vittima del suo crudele, impietoso realismo, la falsità di una delle ricche signore radical chic, che in società si vantano di essere esemplari, predicando agli altri la morale e l’impegno politico. Tutto infatti è finto in quella società decadente, dove anche il dolore viene teatralizzato. I funerali stessi sono vissuti come eventi mondani, in cui i conoscenti si scambiano formule di condoglianza di circostanza, senza versare lacrime “per non rubare la scena ai parenti del defunto” dice ironicamente Jep.
I comportamenti e i desideri di questa mondanità, individualista e materialista hanno come scopo il piacere e il compiacimento del proprio corpo (alimentato, soddisfatto, curato, vestito, esibito, autofotografato nudo). Dal cibo al sesso senza amore, dalla bizzarria spettacolare alla ricerca dell’eterna giovinezza nella chirurgia estetica, tutto deve soddisfare i sensi e perfezionare l’apparenza fisica. Perfino gli ecclesiastici non hanno interesse verso i discorsi di carattere spirituale, ma piuttosto per le ricette di cucina (irresistibile in questo senso è la figura del Cardinale Bellucci, impersonato in modo assai espressivo da Roberto Herlitzka). Fa eccezione Ramona (una bravissima Sabrina Ferilli), una spogliarellista non più giovane, segretamente malata terminale, con la quale Jep riesce ad avere un’amicizia sentimentale autentica (nudi sul letto lei gli dice: “È stato bello non fare sesso” “E’ stato bello volersi bene”) fino alla sua morte, che sopraggiunge molto presto. Questo episodio ci fa capire che la morte precoce, concreta e soprattutto fatale, forse è l’unica esperienza vera, rivelatrice, promotrice di un po’ di autenticità.
Sorrentino purtroppo in questa sua opera non sviluppa una trama, che avrebbe reso il film più accessibile all’interpretazione di un pubblico più largo, ma attraverso un susseguirsi di scene imperniate sullo sguardo del protagonista (per l’appunto Jep), ogni cosa mostrata non ha una realtà oggettiva essendo derivata da un unico punto di vista (l’esergo tratto da “Viaggio al termine della notte” di Céline recita: «Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario»), tranne per i paesaggi e le opere d’arte della città di Roma. Pertanto l’insieme degli episodi e delle microstorie sono i frammenti di un racconto a pezzi come le tessere in un puzzle. La trama è lasciata alla interpretazione dello spettatore: per capire che cosa vuol raccontare il film ci si deve basare sull’impressione che si riceve dall’insieme delle varie scene offerte alla propria esperienza visiva, come a quella del personaggio-perno, allo stesso modo in cui siamo abituati a farci un’idea unitaria di quanto ci capita di osservare in occasioni disparate nel mondo reale. Gambardella lungo tutto il film ci fa capire esplicitamente il suo giudizio sprezzante, amaro, sul mondo che pur frequenta e quindi anche su di sé. Così egli può a buon ragione concludere che, avendo sempre desiderato creare un romanzo sul niente (citazione da Flaubert) senza riuscirci, ora finalmente, dopo l’osservazione di una umanità così vana, vuota, il nulla appunto, si sente pronto per scriverlo.
Il film non è drammatico perché ironico e a volte spettacolare nel presentare alcune bizzarrie, ma è anche etico nel punto di vista del protagonista, nell’amarezza con cui osserva, e si osserva, trovandovisi inevitabilmente coinvolto, i comportamenti fatui, falsi, privi di valori. Jep Gambardella, nel suo specchiarsi nella miseria morale del mondo cui appartiene con la consapevolezza di essere tuttavia troppo debole per uscirne, può essere visto come l’ Amleto del nostro tempo.
Due proposte... d'epoca
Due film del ... secolo scorso in analogia con La grande bellezza
La dolce vita (1960)
Federico Fellini è stato il primo a rappresentare in un film la crisi morale di una società attraverso l’uso dell’immaginazione, superando definitivamente gli stili e i soggetti del cinema neorealista.
Trama
Marcello Rubini, un giornalista romano che si occupa di servizi scandalistici, vorrebbe diventare scrittore, ma non è capace di impegnarsi davvero liberandosi dalla prigionia dei piaceri effimeri della "dolce vita" romana. In sette episodi si racconta il disorientamento di questo personaggio sullo sfondo di una società borghese che vive di feste, avvenimenti mondani in compagnia di attrici, amanti, prostitute e nei locali notturni in una Roma a cavallo fra gli anni ‘50 e ‘60. Momenti introspettivi silenziosi si alternano a eccitati incontri collettivi nelle feste in cui le persone cercano una effimera felicità. Marcello tenta inutilmente di conoscersi attraverso i rapporti con le donne che gli sono accanto, in cui incontra solo il riflesso del suo malessere. La sua inquietudine precipita in seguito al suicidio di un collega giornalista, un caro amico che raccoglieva in sé tutte le sue più profonde aspirazioni. Questo avvenimento sarà per il protagonista una triste svolta, rappresentando per lui l'allegoria della morte di tutti gli ideali.
Il film si chiude con l’immagine di purezza di una bellissima, tenera, innocente fanciulla che protende una mano a Marcello nel chiarore dell'aurora sulla spiaggia di Ostia. Ma il personaggio in crisi saprà cogliere l’opportunità di riscatto che qui gli si presenta, o sarà per lui troppo tardi per riconoscere e raggiungere la sua salvezza psicologica e morale?
La terrazza (1980)
La terrazza è il film del fallimento e della crisi di una generazione. Il ritratto autocritico della borghesia di sinistra presentato qui dal regista Scola è stato, sebbene trattato e narrato in modo diverso, sempre un tema caro anche a Nanni Moretti, fin dai suoi esordi negli anni Settanta.
Trama
Su una terrazza romana alcuni vecchi amici, conoscenti e colleghi, tutti appartenenti alla borghesia, si ritrovano per passare le serate estive. Il film racconta uno di questi incontri in cinque episodi, ognuno dal punto di vista di un diverso personaggio: uno scrittore cinematografico che ha perso la capacità di far ridere; un giornalista inadeguato al suo tempo, che cerca di riconquistare la moglie, un funzionario della Rai anoressico e perdutamente depresso; un produttore cinematografico alle prese con i capricci cinematografici (e non solo) della moglie e l'ultimo, un deputato comunista che tradisce la moglie.
Il film si chiude con un nuovo incontro su quella stessa terrazza l’anno seguente. L’ultima scena rappresenta gli uomini che interpretano al pianoforte tra di loro una serie di canzoni popolari, mentre le donne conversano. La macchina da presa si allontana quindi discretamente attraverso la finestra e lascia i personaggi alla loro vita, che prosegue senza cambiamenti.
Ciò che hanno in comune questi tre film è il fatto che riprendono, dopo la stagione del Neorealismo, un tema che era stato caro alla letteratura, a partire da quella della fine dell’Ottocento fino alla narrativa del Novecento tra le due guerre (in Italia, per intenderci, Tozzi, Svevo, Moravia, ecc.): quello dell’inadeguatezza, dell’uomo borghese incapace di agire, di perseguire le proprie aspirazioni e di vivere coerentemente secondo coscienza. L’inetto vive solo di immaginario, di sogni, di miti vagheggiati, irrealizzabili, e di desideri irrealizzati, a causa della propria vigliacca passività. Ma sia La grande bellezza sia La dolce vita e La terrazza, a differenza dei romanzi, che analizzano isolatamente la psicologia individuale del protagonista, contestualizzano l’inettitudine di un individuo nella decadenza morale della società borghese contemporanea che frequenta.
Su questo confronto una classe degli ultimi anni delle superiori potrebbe soffermarsi a riflettere, sotto la guida degli insegnanti di materie umanistiche e dello studio della storia contemporanea.