Titolo originale: Razredni sovraznik
Genere: Drammatico
Regia: Rok Bicek
Sceneggiatura: Nejc Gazvoda, Rok Bicek, Janez Lapajne, Masa Derganc
Interpreti : Igor Samobor, Natasa Barbare Gracner, Tjasa Zeleznik
Fotografia: Fabio Stoll
Produzione: Slovenia
Anno: 2013
Una relazione difficile
A differenza di altri film sulla scuola secondaria comparsi sugli schermi in questo inizio del terzo millennio, come La classe (2008) di Laurent Cantet o il commovente Monsier Lazhar (2011) del canadese Philippe Falardeau, Class Enemy di Rok Bicek, nel cercare di attenersi a un realismo narrativo senza giudizi sul personaggio dell’insegnante, stimola ancor di più la discussione sulla non facile relazione tra docente e allievi nelle classi odierne, in qualunque Stato europeo. Quella che il regista sloveno mette in scena è l’incomunicabilità che esplode tra studenti e insegnanti in un liceo del suo Paese, situazione in cui non faticano a rispecchiarsi neppure i professori italiani, aldilà delle differenze di contesto.
Succede in particolare in una classe di liceo dell’ultimo anno, quando arriva un nuovo docente di tedesco in sostituzione di quella professoressa, tanto simpatica ai propri allievi, che sta andando in congedo per maternità. Fin dalle prime lezioni il professore Robert Zupan, che usa un metodo didattico e un atteggiamento pedagogico rigoroso, oggettivo, molto diverso da quello dolcissimo, sorridente e materno della collega da sostituire, provoca diffidenza e insofferenza nella maggioranza degli studenti, fragili nello studio della sua materia e non solo. Essi arrivano persino a insinuare accuse di pedofilia nei suoi confronti, solo per averlo intravisto in una stanza ascoltare, da solo, una loro compagna che suonava al pianoforte. Così, appena si viene a sapere del suicidio da parte di questa ragazza, con la quale il professor aveva avuto un duro colloquio, nella classe serpeggia una esaltazione emotiva in un crescendo irrefrenabile. Si arriva a identificare come responsabili del tragico evento prima il prof Zupan, perché lui tende nonostante tutto a continuare impassibile a fare lezione in tedesco, poi tutta la scuola, compresi quegli insegnanti dall’atteggiamento più amichevole.
La classe nemica a il comportamento del professore
La causa del gesto disperato della compagna per quei ragazzi sarebbe stata dunque l’insopportabile autoritarismo esercitato dall’insegnante di tedesco, in quanto difeso o sostenuto, dall’intero corpo docente e dalla preside. Per offrire agli studenti un aiuto per superare il lutto, il professore di tedesco tenta pure a lezione di stabilire una comunicazione con loro, citando in lingua tedesca una frase di Thomas Mann -lo scrittore in programma- su come la morte è un fatto che riguarda il morto e non i vivi. Tuttavia una ragazza definisce l’insegnante addirittura “nazista”. La rivolta si allarga e il gruppo dei ribelli, del quale la ragazza fa parte, arriva a impedire le lezioni della scuola urlando attraverso una radio interna all’edificio accuse di disumanità nei confronti del prof Zupan e di tutti i colleghi. La riunione dei genitori che segue, indetta dalla preside per concordare provvedimenti disciplinari, non priva di sfumature caricaturali, mostra comunque caratteristiche oggi più che mai universali del rapporto scuola-famiglia, tra individualismo, ipocrisia e scarsa conoscenza dei propri figli.
Ma, come si evince dal discorso che il vituperato professore rivolge alla classe durante la sua ultima ora di lezione dell’anno in corso, questa volta in lingua slovena per farsi comprendere meglio da tutti, le intenzioni di questo insegnante erano state professionalmente adeguate: prima di tutto non si era comportato da nazista, come qualcuno aveva insinuato, in quanto non aveva fatto distinzioni fra gli allievi, al contrario del nazismo che si era basato proprio sul classismo razzista. Avrebbe voluto, in quanto loro insegnante, educarli ad assumersi le loro responsabilità, a impegnarsi nello studio per imparare a colmare le proprie, numerose, lacune e a superare le fragilità psicologiche che ne frenavano la formazione. Per questo aveva cercato di indurli ad andare oltre la dolorosa emozione per il suicidio della compagna, anche se da lui stesso giudicato umanamente comprensibile e intimamente condiviso, a riprendere a vivere la propria vita e quindi anche a continuare la preparazione scolastica. Non era riuscito nei suoi intenti educativi, dunque, ma augurava a tutti quei ragazzi di riuscire a maturare in un prossimo futuro e a concludere con successo il loro iter formativo.
L'insegnante e i nuovi adolescenti
Il film ci fa riflettere sul comportamento dell’ insegnante di fronte a un tipo di classe di attuali adolescenti, con la quale sarebbe indispensabile entrare in comunicazione per insegnare davvero. Il regista contorna il protagonista di altre tre figure di educatori nella stessa scuola, dalle caratteristiche psicologiche e pedagogiche diverse: la professoressa che entra in congedo per maternità, in sintonia con i propri allievi grazie al suo atteggiamento morbido e protettivo, quasi materno, ma privo di spessore culturale, la docente di ginnastica, che stabilisce con gli studenti un rapporto amichevole, facilitato dalla sua materia di insegnamento, che non richiede faticosa applicazione nello studio, e la preside dell’istituto, moderata nei rapporti con gli studenti e le relative famiglie, perché soprattutto preoccupata della difesa del buon nome della scuola, messo in crisi dalla difficoltà, a causa del baratro intergenerazionale d’epoca, di entrare in comunicazione con gli adolescenti del XXI secolo. Ma la ribellione degli studenti si rivolge anche contro queste tre figure che, a differenza del nuovo insegnante di tedesco, usano un atteggiamento amichevole e conciliante nel rapporto con gli allievi.
Il professor Zupan lascia trapelare, anche nei rapporti con le colleghe, un carattere riservato, severo, poco socievole, anche se rispettoso e razionale. Così in classe è tutto concentrato sul suo compito di insegnante di tedesco, mostrando di ritenere che l’educazione stessa degli allievi debba passare attraverso la più alta e precisa preparazione nella sua disciplina, come quella che lui stesso possiede e alla quale aggiunge evidentemente una quotidiana, accurata costruzione della lezione. Pertanto egli si attiene a una valutazione estremamente oggettiva sia nei voti sia nei giudizi, comunicati verbalmente, a prescindere, anche nell’uso delle parole, dalle fragilità psicologiche di ogni studente.
Eppure questo insegnante tradizionalista non è insensibile e tantomeno indifferente al bene dei suoi allievi, come si evince dal suo discorso finale, ma non solo: per esempio fa lezione indossando la maschera della ragazza suicida come tutta la classe, che con questo lo vorrebbe provocare, e poi difende pubblicamente un ragazzo, pur tra i più ribelli, che aveva reagito con violenza contro chi per insultarlo lo ha schernito del suo dolore per la perdita recente della madre, ottenendone un inaspettato ringraziamento. Sul piano umano è indubbiamente per la giustizia oggettiva, con le dovute attenuanti per i minori, ma come docente crede di doversi occupare soprattutto di un aspetto dei loro bisogni: quello, appunto come si è detto, della loro formazione attraverso il rigore dell’apprendimento nella materia che insegna. D’altra parte i genitori, che tendono a difendere le fragilità dei propri figli, da loro stessi condivise, contro le difficoltà di apprendimento attribuite alle valutazioni troppo severe dei docenti, ritenuti incapaci nel loro mestiere a prescindere dalle loro relative competenze e conoscenze, non supportano, ma anzi ostacolano l’insegnante rigoroso.
Il film dunque ci lascia con alcuni interrogativi: quali caratteristiche deve avere, soprattutto oggi, il comportamento di chi insegna nella scuola? Quali sono i veri bisogni dei nuovi adolescenti ai quali la scuola può e deve rispondere?
Un film da affiancare a questo...
Entre les murs è prima di tutto un libro scritto dall’insegnante Francois Bégaudeau (La classe, Einaudi, 2008) , che ha poi collaborato alla sceneggiatura del film omonimo diretto da Laurent Cantet (Palma d'Oro a Cannes, e candidato francese agli Oscar) recitandovi se stesso nel ruolo del protagonista, il prof. Francois Marin. L’ambiente è in una terza media (in Francia penultimo anno del Collège) di una periferia parigina: una classe multietnica e multiculturale di venticinque ragazzi e ragazze tra i quattordici e i quindici anni. Lo spazio in cui si svolge la narrazione (sia quella letteraria sia quella cinematografica) è circoscritto, come indica lo stesso titolo originale del film, all’interno delle mura di un’aula e di un istituto. Anche la durata della storia è interna alla scansione temporale reale svolgendosi in un anno scolastico. L’azione focalizzata consiste nello scambio comunicativo interpersonale tra l’insegnante protagonista e gli allievi e tra lui e i colleghi. Siamo dunque di fronte a categorie di tipo teatrale, quasi unità aristoteliche che facilitano la messa in scena cinematografica.
L'eco del mondo e la figura del professore
Eppure, nonostante l’ambientazione claustrofobica in una scuola, di sfondo e di riflesso non manca l’eco del mondo di contesto. Ne è d’esempio lo scorcio dell’esterno che si apre nella scena dello studente Souleymane che, di fronte al consiglio di disciplina che sta per sanzionargli le sue malefatte con l’espulsione, deve fare personalmente da interprete alla propria madre africana, traducendo in francese la testimonianza di una faticosa vita familiare, in cui per altro il ragazzo si dimostra sempre responsabile e collaborativo.
Tra ironia e drammi, tra risate e momenti di crisi, il professor Marin, appellato confidenzialmente “prof” dai suoi studenti, che non si peritano neppure a volte di dargli del tu, tenta, spesso inutilmente, di appassionare i ragazzi allo studio, di abituarli al confronto e al rispetto delle regole. Egli si rende conto delle condizioni precarie di vita dei suoi allievi, figli di seconda immigrazione, ma non riesce a conciliare questa sua umanità con il suo compito di insegnante ed educatore. Qualche volta gli sfugge l’autocontrollo emotivo, scadendo a un livello di battibecco alla pari con gli adolescenti della sua classe, fino a lasciarsi sviare dal tema della lezione in corso a causa dei loro interventi provocatori. Per questo a un certo punto, quando gli viene contestato il suo metodo, gli capita di lasciarsi sfuggire una risposta insultante nei confronti delle due rappresentanti di classe. L’incidente lo metterà in una condizione di debolezza nei confronti dei colleghi del consiglio di disciplina, perdendo l’autorevolezza che a suo parere gli sarebbe stata umanamente necessaria per poter perorare con successo la difesa di Souleymane. Infatti il prof era venuto a sapere che con l’espulsione il ragazzo avrebbe perso l’opportunità di istruirsi, perché il padre l’avrebbe rimandato al suo paese in Africa.
Il regista racconta tutto questo senza giudicare, mostrando soltanto la realtà dei fatti, provocati dall’interazione verbale delle parti in gioco in un crescendo che sfugge di mano a tutti, fino a esplodere in conseguenze di involontaria ingiustizia sociale .
La scuola e l'interazione delle difficoltà nel dialogo
Nel film viene focalizzato problematicamente il disorientamento della scuola, cioè del preside e degli insegnanti tutti, nel gestire classi con così tante presenze di immigrati nel contesto, per di più esteso e generalizzato, delle difficoltà di apprendimento degli studenti e della loro aperta disaffezione allo studio. Non viene nascosta, ma anzi amaramente evidenziata, la scarsità dei frutti dell’insegnamento, ponendo proprio nella conclusione l’episodio dell’allieva di colore che confessa al professore di non aver imparato niente e di non sentirsi preparata per proseguire gli studi, mentre nel libro questo dialogo è più interno alla narrazione. Tale spostamento è significativo: da evento narrativo conclusivo soltanto ironicamente spiazzante per il docente (e per lo spettatore), l’episodio assume nel libro un carattere drammatico esemplare, segnalando al lettore come fosse una pietra miliare la misura del problema. Tuttavia la visione complessiva di questa difficile situazione da parte di Cantet non è priva di spiragli, come dimostra la partita di pallone tra insegnanti e allievi a conclusione dell’anno scolastico nel finale del film: l’insegnante Francois Marin vi partecipa.
Per dichiarazione dello stesso regista il messaggio del film vuole essere piuttosto questo: “La scuola dovrebbe integrare tutte le diversità nel dialogo”. Sul piano dell’ispirazione artistica il regista, figlio di insegnanti, ha dichiarato di aver concepito un interesse per la rappresentazione cinematografica della vita interna alla scuola grazie ai suoi aspetti teatrali, adeguati a una narrazione filmica, come l’andamento drammatico delle interazioni emotive data la vitalità giovanile di una classe.