di Maria Luisa Jorilo specchio di Alice

30/10/2014

Class Enemy

Titolo originale: Razredni sovraznik

Genere: Drammatico
Regia: Rok Bicek
Sceneggiatura: Nejc Gazvoda, Rok Bicek, Janez Lapajne, Masa Derganc
Interpreti : Igor Samobor, Natasa Barbare Gracner, Tjasa Zeleznik
Fotografia: Fabio Stoll

Produzione:  Slovenia
Anno: 2013

 

 

Una relazione difficile

A differenza di altri   film  sulla scuola secondaria comparsi sugli schermi   in questo inizio del  terzo millennio,  come  La classe (2008) di Laurent Cantet o  il commovente Monsier Lazhar (2011) del canadese Philippe Falardeau, Class Enemy di Rok Bicek,  nel cercare di attenersi  a un realismo narrativo senza giudizi  sul personaggio  dell’insegnante,  stimola ancor di più la discussione sulla non facile relazione  tra docente e allievi nelle classi  odierne,  in  qualunque Stato europeo.  Quella che il regista sloveno mette in scena  è  l’incomunicabilità  che  esplode   tra studenti e insegnanti in un  liceo del suo Paese, situazione in cui  non faticano a rispecchiarsi  neppure i professori italiani, aldilà delle differenze di contesto.

Succede in particolare in una classe di liceo dell’ultimo anno, quando arriva un nuovo docente di tedesco in sostituzione di  quella professoressa,  tanto simpatica ai propri allievi, che sta andando in congedo per maternità.   Fin dalle prime lezioni il professore Robert Zupan, che usa un metodo didattico e un atteggiamento pedagogico rigoroso, oggettivo, molto diverso da quello dolcissimo, sorridente e materno della collega da sostituire, provoca diffidenza e  insofferenza  nella maggioranza degli studenti, fragili   nello studio della sua materia e non solo. Essi arrivano persino a insinuare accuse di pedofilia nei suoi confronti, solo per averlo intravisto in una stanza  ascoltare, da solo, una loro compagna che suonava al pianoforte.  Così,  appena  si viene a sapere del suicidio da parte di questa ragazza, con la quale il professor aveva avuto un duro colloquio,  nella  classe    serpeggia una  esaltazione emotiva in un  crescendo irrefrenabile.   Si arriva a identificare come responsabili del tragico evento prima il prof Zupan,   perché lui tende nonostante tutto a continuare impassibile a fare lezione in tedesco,   poi tutta la scuola,  compresi quegli insegnanti dall’atteggiamento più   amichevole. 

La classe nemica a il comportamento del professore

La causa  del gesto disperato della compagna per  quei  ragazzi sarebbe stata dunque  l’insopportabile  autoritarismo esercitato  dall’insegnante di tedesco, in quanto difeso o  sostenuto, dall’intero  corpo  docente e dalla preside.   Per   offrire agli studenti  un aiuto  per superare il lutto, il professore di tedesco tenta pure  a lezione di stabilire una comunicazione con loro,  citando  in lingua tedesca  una frase   di Thomas Mann -lo scrittore in  programma-  su come la morte è un fatto che riguarda   il morto  e non i vivi.  Tuttavia  una  ragazza  definisce l’insegnante addirittura  “nazista”.  La rivolta si allarga e il gruppo dei ribelli, del quale la ragazza fa parte,   arriva a impedire le lezioni della scuola urlando attraverso     una radio interna   all’edificio  accuse di disumanità nei confronti del prof Zupan e di tutti i colleghi. La riunione dei genitori che segue, indetta dalla preside  per concordare provvedimenti disciplinari,  non priva di sfumature caricaturali,  mostra comunque caratteristiche oggi più che mai universali del rapporto scuola-famiglia,  tra individualismo, ipocrisia e scarsa conoscenza dei propri figli.  
Ma, come si evince dal discorso che il  vituperato professore rivolge alla classe durante la  sua ultima ora di lezione dell’anno in corso, questa volta  in  lingua slovena per farsi comprendere meglio da tutti,   le intenzioni di questo insegnante erano state professionalmente  adeguate: prima di tutto non si era  comportato da  nazista, come qualcuno aveva insinuato,  in quanto   non aveva fatto distinzioni fra gli allievi,   al contrario del  nazismo  che si era basato proprio sul classismo razzista.  Avrebbe voluto, in quanto loro insegnante,    educarli   ad assumersi le loro responsabilità, a impegnarsi nello studio per imparare a colmare le proprie, numerose, lacune e a superare le fragilità  psicologiche che ne frenavano la formazione. Per questo aveva cercato di indurli ad andare oltre   la   dolorosa emozione per il suicidio della compagna, anche se  da lui stesso   giudicato  umanamente comprensibile e intimamente condiviso, a  riprendere a vivere la propria vita e quindi anche a continuare  la preparazione scolastica. Non era riuscito  nei suoi intenti educativi, dunque, ma augurava a tutti quei ragazzi di riuscire a maturare in un prossimo  futuro  e a concludere con successo il loro iter formativo.

 

L'insegnante e i nuovi adolescenti

Il film ci  fa riflettere   sul comportamento   dell’ insegnante    di fronte a   un  tipo di  classe di attuali adolescenti,  con la quale  sarebbe indispensabile  entrare in comunicazione per insegnare davvero.  Il  regista contorna il protagonista di altre tre  figure di  educatori nella stessa scuola, dalle caratteristiche psicologiche e pedagogiche diverse:  la professoressa che entra in congedo per maternità, in sintonia con  i propri allievi grazie al suo atteggiamento morbido e protettivo, quasi materno, ma privo di spessore culturale, la docente di ginnastica, che stabilisce con gli  studenti un rapporto  amichevole, facilitato dalla sua materia di insegnamento, che non richiede faticosa  applicazione  nello studio, e la preside dell’istituto,  moderata nei rapporti con gli  studenti e le relative famiglie, perché    soprattutto  preoccupata  della difesa del  buon nome della scuola, messo in crisi dalla difficoltà,  a causa del baratro  intergenerazionale d’epoca,  di entrare in comunicazione con  gli  adolescenti del XXI secolo.  Ma la ribellione degli studenti si rivolge anche contro queste tre figure che, a differenza del nuovo insegnante di tedesco,  usano  un atteggiamento amichevole e conciliante  nel rapporto con gli allievi.  

 Il professor Zupan  lascia trapelare, anche nei rapporti con  le  colleghe, un carattere riservato, severo, poco socievole, anche se rispettoso e razionale.  Così in  classe è tutto concentrato sul suo compito di insegnante di tedesco, mostrando di ritenere    che l’educazione stessa  degli allievi  debba passare attraverso  la più alta e precisa preparazione nella sua disciplina,  come   quella che   lui  stesso   possiede e alla quale aggiunge   evidentemente  una quotidiana, accurata costruzione della lezione.   Pertanto egli  si attiene a una valutazione estremamente oggettiva sia nei voti sia nei giudizi, comunicati verbalmente, a prescindere, anche nell’uso delle parole, dalle fragilità psicologiche di ogni studente. 

Eppure questo insegnante tradizionalista non è insensibile e tantomeno  indifferente al bene dei  suoi allievi, come si evince dal suo discorso finale, ma non solo: per esempio fa lezione  indossando la maschera della ragazza suicida come tutta la classe, che  con questo  lo vorrebbe provocare, e poi difende pubblicamente un ragazzo, pur tra i più ribelli, che aveva reagito con violenza contro chi per insultarlo lo ha schernito del suo dolore per la perdita recente della madre, ottenendone un inaspettato ringraziamento.  Sul piano umano è indubbiamente per la giustizia oggettiva, con le dovute attenuanti per i minori, ma come docente crede di doversi occupare  soprattutto  di un aspetto dei loro bisogni: quello, appunto  come si è detto, della loro formazione attraverso  il rigore dell’apprendimento nella materia che insegna. D’altra parte i genitori, che  tendono a difendere le fragilità dei propri figli, da loro stessi  condivise, contro le difficoltà di apprendimento attribuite alle valutazioni troppo severe dei docenti,  ritenuti incapaci nel loro mestiere a prescindere dalle loro relative competenze e conoscenze, non supportano, ma anzi ostacolano  l’insegnante rigoroso.

Il film dunque ci lascia con alcuni interrogativi: quali caratteristiche deve avere, soprattutto oggi,  il comportamento di chi insegna nella scuola?  Quali  sono i veri bisogni dei  nuovi adolescenti  ai quali la scuola può e deve rispondere?   

Un film da affiancare a questo...

Entre les murs è prima di tutto un libro scritto dall’insegnante Francois Bégaudeau (La classe, Einaudi, 2008) , che ha poi collaborato alla sceneggiatura del film omonimo diretto da Laurent Cantet (Palma d'Oro a Cannes, e candidato francese agli Oscar) recitandovi se stesso nel ruolo del protagonista, il prof. Francois Marin. L’ambiente è in una terza media (in Francia penultimo anno del Collège) di una periferia parigina: una classe multietnica e multiculturale di venticinque ragazzi e ragazze tra i quattordici e i quindici anni. Lo spazio in cui si svolge la narrazione (sia quella letteraria sia quella cinematografica) è circoscritto, come indica lo stesso titolo originale del film,  all’interno delle mura di un’aula e di un  istituto. Anche la durata della storia è interna alla scansione temporale reale svolgendosi in un anno scolastico. L’azione focalizzata consiste nello  scambio comunicativo interpersonale tra l’insegnante protagonista e gli allievi e tra lui e i colleghi. Siamo dunque di fronte a categorie di tipo teatrale, quasi unità aristoteliche che facilitano la messa in scena cinematografica. 

L'eco del mondo e la figura del professore
Eppure, nonostante l’ambientazione claustrofobica in una scuola, di sfondo e di riflesso non manca l’eco del mondo  di contesto. Ne è d’esempio  lo scorcio dell’esterno che si apre  nella scena dello studente Souleymane che, di fronte al consiglio di disciplina che sta per sanzionargli  le sue malefatte con l’espulsione, deve fare personalmente da interprete alla propria madre africana, traducendo in francese la testimonianza di una faticosa vita familiare, in cui per altro il ragazzo si dimostra sempre responsabile e collaborativo.

Tra ironia e drammi, tra risate e momenti di crisi, il professor Marin, appellato confidenzialmente “prof”  dai suoi studenti, che non si peritano neppure a volte di dargli del tu, tenta, spesso inutilmente, di appassionare i ragazzi allo studio, di abituarli al confronto e al rispetto delle regole. Egli si rende conto delle condizioni precarie di vita dei suoi allievi, figli di seconda immigrazione, ma non riesce a conciliare questa sua umanità con il suo compito di insegnante ed educatore. Qualche volta gli sfugge l’autocontrollo emotivo, scadendo a un livello di battibecco alla pari con gli adolescenti della sua classe, fino a lasciarsi sviare dal tema della lezione in corso a causa dei loro interventi provocatori. Per questo a un certo punto, quando gli viene contestato il suo metodo, gli capita di lasciarsi sfuggire una risposta insultante nei confronti delle due rappresentanti di classe. L’incidente lo metterà in una condizione di debolezza nei confronti dei colleghi del consiglio di disciplina, perdendo l’autorevolezza  che a suo parere gli sarebbe stata umanamente necessaria per poter perorare con successo la difesa di Souleymane. Infatti il prof era  venuto a sapere che  con l’espulsione il ragazzo avrebbe perso  l’opportunità di istruirsi, perché  il  padre l’avrebbe rimandato al suo paese in Africa. 
Il regista racconta tutto questo senza giudicare, mostrando soltanto la realtà dei fatti, provocati dall’interazione verbale delle parti in gioco in un crescendo che sfugge di mano a tutti, fino a esplodere in conseguenze di involontaria ingiustizia sociale .

La scuola e l'interazione delle difficoltà nel dialogo
Nel film viene focalizzato problematicamente  il disorientamento della scuola, cioè del preside e degli insegnanti tutti, nel gestire classi  con così tante presenze di immigrati nel contesto, per di più  esteso e generalizzato, delle difficoltà di apprendimento degli studenti e della loro aperta disaffezione allo studio. Non viene nascosta, ma anzi amaramente evidenziata, la scarsità dei frutti dell’insegnamento, ponendo proprio nella conclusione l’episodio dell’allieva di colore che confessa al professore di non aver imparato niente e di non sentirsi preparata per proseguire gli studi, mentre nel libro questo dialogo è più interno alla narrazione. Tale spostamento    è significativo: da evento narrativo conclusivo soltanto ironicamente spiazzante per il docente (e per lo spettatore), l’episodio assume nel libro un carattere drammatico esemplare, segnalando al lettore come fosse una pietra miliare  la misura del problema.  Tuttavia la visione complessiva di questa difficile situazione da parte di Cantet non è priva di spiragli, come dimostra la partita di pallone tra insegnanti e allievi a conclusione dell’anno scolastico nel finale del film:  l’insegnante Francois Marin vi partecipa. 

Per dichiarazione dello stesso  regista  il messaggio del film vuole essere piuttosto questo:  “La scuola dovrebbe integrare tutte le diversità nel dialogo”. Sul piano dell’ispirazione artistica il regista, figlio di insegnanti, ha dichiarato di aver concepito un interesse per la rappresentazione cinematografica della vita interna alla scuola grazie ai suoi aspetti teatrali, adeguati a una narrazione filmica, come l’andamento drammatico delle interazioni emotive data la vitalità giovanile di una classe. 

 

 

 

 

 

 

Di che cosa parliamo?

Il cinema narrativo è uno strumento di comunicazione educativa e didattica  quasi indispensabile  nella scuola di oggi, sia come arte visiva sia come mezzo per far passare e fissare  l’apprendimento attraverso emozioni. Gli insegnanti   hanno bisogno di  mantenersi    informati sui film più adeguati a questi scopi della loro attività professionale. “Lo specchio di Alice” (in quanto il cinema può essere un  vero specchio del mondo per  i ragazzi e le ragazze in formazione) si propone  di informare i docenti sui film contemporanei e su quelli del passato più interessanti e comprensibili   da parte di allievi e allieve adolescenti. Come a scuola per le letture, a  volte verranno  recensite, e didatticamente corredate,  anche opere cinematografiche meno valide esteticamente, ma capaci di suscitare interrogativi, introdurre problemi, illustrare argomenti di studio presso  gli studenti.

L'autrice

Ha insegnato in un triennio linguistico.  Supervisore di tirocinio dal 1999 al 2003  e docente di didattica della letteratura fino  al 2008 presso la SSis dell’università di Torino.  Esperta di cinema e didattica, dal 2003  ha recensito assiduamente sulla rivista insegnare  il “Torino film festival” e i film in uscita più adeguati  a prestarsi come sussidi  nell’insegnamento agli adolescenti.

 


All’indirizzo   marialuisa.jori@gmail.com  su richiesta si forniscono  gratuitamente sia  informazioni  su film  utilmente  collegabili ad  argomenti  dei  programmi scolastici (per es. di storia) sia indicazioni metodologiche   sull’uso didattico del cinema nella scuola di ogni ordine e grado.