“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati
di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
(Art.1 Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, 1948)
In tre film usciti in Italia nel febbraio 2015, che illustrano fatti veri, vengono presentate delle lotte eroiche per la rivendicazione difensiva, non una relativa nuova conquista, dei propri diritti, affrontate con sacrificio da persone e gruppi sociali in diversi tempi e luoghi del mondo. Le storie qui raccontate mostrano infatti come, anche quando esistono già le leggi su libertà ed uguaglianza(cioè non si tratta più di conquistarne l’affermazione istitutiva di un principio o di un diritto), spesso queste vendono nei fatti ignobilmente ignorate da chi ha la volontà e la forza di dominare con violenta sopraffazione.
Due di questi tre film riguardano avvenimenti di un passato più o meno lontano, accaduti in Paesi diversi, ma ugualmente fuori dall’Europa, che, anche se lentamente, hanno prodotto un esito civile positivo, un progresso di civiltà. Il terzo invece riguarda fatti atroci contemporanei: la grave violazione dei diritti umani attuata col terrore dai jihadisti invasori in certi Paesi subsahariani (nel film Timbuktu si tratta specificamente del Mali), alla quale finora, come ci dice il regista mauritano, non ci sono altre soluzioni al di fuori di una coraggiosa resistenza o della fuga.
Mezzo secolo fa negli Stati Uniti
Selma la strada per la libertà
Titolo originale: Selma
Genere: Drammatico, Storico
Regia: Ava DuVernay
Sceneggiatura: Paul Webb
Interpreti : Tinìm Roth, David Oyelowo, Giovanni Ribisi, Cuba Gooding Jr., Oprah Winfrey, Carmen Ejogo
Fotografia: Bredford Young
Musiche: Jason Moran, Mario Grigorov
Produzione: Gran Bretagna, USA, 2014
La regista afroamericana Ava DuVernay, quarantaduenne, già applaudita con un premio assegnato a un precedente suo film (Middle of Nowhere, 2012) ha scelto di raccontare attraverso un emblematico episodio storico del 1965 la battaglia per i diritti civili in America da parte di un movimento basato sui principi della non violenza: le marce, attraverso un razzista Stato del Sud, l’Alabama, da Selma verso la capitale Mongomery, organizzate per protestare contro gli impuniti impedimenti al diritto di voto esercitati, nonostante i principi di uguaglianza affermati nello stesso preambolo della Costituzione repubblicana, nei confronti di tutti i cittadini afroamericani. La prima marcia ebbe luogo il 7 marzo 1965, data divenuta nota come "Bloody Sunday" (Domenica di sangue), poiché seicento attivisti che stavano marciando inermi e pacifici furono attaccati dalla polizia locale e dello stato con manganelli e gas lacrimogeno. Ci fu una cinquantina di morti.
La seconda marcia, alla quale parteciparono anche molti “bianchi” solidali, si tenne il successivo martedì, ma i duemilacinquecento manifestanti tornarono indietro dopo aver attraversato lo Edmund Pettus Bridge. La regista racconta come fu Martin Luther King jr. a guidare questa rinuncia per non mettere a rischio la vita dei partecipanti alla manifestazione. Egli viene mostrato oppresso da tutto il peso della responsabilità verso le persone che la sua leadership aveva mobilitato. La sua scelta di non usare la violenza nella lotta per la difesa dei diritti degli afroamericani nel film non viene attribuita a un atteggiamento di buonismo o a una fede religiosa, bensì ad una strategia basata sulla considerazione dell’assoluta inferiorità dei mezzi di difesa della collettività in lotta rispetto agli armamenti e al numero sovrabbondante delle forze di polizia governative.
La terza marcia, lunga settanta chilometri, iniziò il ventun marzo, quando il presidente Lyndon B. Johnson non poté più opporsi alla pacifica dimostrazione. Così, scortati dai soldati dell'esercito statunitense, dai membri della Guardia Nazionale dell'Alabama sotto comando federale e da molti agenti dell'FBI, i manifestanti, dopo giorni di marcia, arrivarono davanti al Campidoglio di Montgomery, la sede esecutiva o legislativa dell’Alabama. La strada è ricordata come il Selma To Montgomery Voting Rights Trail (percorso da Selma a Montgomery per il diritto di voto) ed è un percorso storico degli Stati Uniti (National Historic Trail). Il film mostra e documenta gli eventi che portarono, alcuni mesi dopo, il Presidente Jonhson a firmare il Voting Rights Act, decreto che sancì la difesa del diritto di voto per la gente di colore in ogni Stato degli Usa.
Anche la regista mette però in evidenza come la felicità per la vittoria ottenuta era stata guastata dalla notizia che un’altra dimostrante, esponente dei diritti civili di Detroit, era stata uccisa a colpi di arma da fuoco da uomini del Ku Klux Klan sulla via del ritorno a Selma. Una didascalia prima dei titoli di coda fornisce dati essenziali sui successivi sviluppi biografici dei protagonisti della lotta, che mostrano la raggiunta piena integrazione degli afroamericani. Ma qui si ricorda anche che Martin Luther King fu ammazzato nel 1968, dopo aver collaborato con il Presidente nel puntualizzare le norme attuative della legge contro ogni tipo di discriminazione rispetto al diritto di voto.
King è apparso spesso come personaggio, al cinema e in tv, ma Selma è il primo film incentrato interamente, ma assolutamente senza retorica, sulla sua figura. Questa viene umanizzata dedicando una particolare attenzione anche alla vita privata, alla famiglia e alla moglie Coretta, soprattutto senza nascondere sensibilità e perfino aspetti di fragilità psicologica. Il racconto inizia solo dal momento della sua premiazione con il Nobel e cita le parole del discorso di circostanza che estendono il merito del premio a tutti gli afroamericani che si sono sacrificati nella lotta per la difesa dei loro diritti. DuVarnay combina resoconto documentario e racconto intimo dei travagli personali dei personaggi. Attraverso continui primi piani dei volti, di King e dei vari altri personaggi, vengono evidenziati le emozioni e sentimenti che hanno scritto quella storia. Il film svolge quindi pienamente la funzione specifica del cinema nei confronti della Storia, quella di una integrazione del racconto storiografico attraverso la rappresentazione visiva dei sentimenti e delle emozioni vere delle persone che hanno vissuto gli avvenimenti del passato oggetto della narrazione.
Una ventina di anni fa in Etiopia
Difret – Il coraggio per cambiare
Titolo originale: Difret
Genere: Drammatico
Regia: Zeresenay Mehari
Sceneggiatura: Zeresenay Mehari
Interpreti : Meron Getnet, Tizita Hagere
Fotografia: Monika Lenczewska
Musiche: Dave Eggar, David Schommer
Produzione: Etiopia, USA, 2014
Il regista etiope, che vive negli Usa, racconta un episodio, veramente accaduto in Etiopia, nel 1996, che diede inizio a una lenta trasformazione per il raggiungimento dell’uguaglianza di diritti tra uomo e donna: la storia vera della violenza subita da Hirut, una ragazza allora appena quattordicenne, nata e cresciuta in un villaggio a sole tre ore da Addis Abeba. In tale zona di campagna fino all’inizio del terzo millennio vigeva l’usanza, impunita, del rapimento di donne adolescenti, per essere violentate a scopo di matrimonio da parte di uomini localmente dominanti con la forza (detta legge della “Telefa”). Hirut è una ragazza forte, che si ribella (il titolo "Difret" in etiope significa avere coraggio, osare): dopo aver subito la rituale violenza fugge dalla sua prigione impadronendosi di un fucile, e, durante l’inseguimento da parte dei rapitori, per difesa spara e uccide il suo violentatore. Quindi viene arrestata e sta per essere condannata a morte.
Ma interviene a difendere Hirut Meaza Ashenafi, giovane donna avvocato che ad Addis Abeba si batte per difendere i diritti dei più deboli, soprattutto le donne vittime dei soprusi degli uomini (oltre ai suddetti rapimenti, ogni genere di violenza domestica). È una volontaria, a capo dell’associazione “Andenet – donne avvocato”. Ma ai tribunali previsti dall'ordinamento statale si sovrappongono le "corti di giustizia" che si riuniscono in un campo sotto un albero e in cui nessuna donna è presente. Pur di salvare la ragazzina, Meaza è disposta a correre qualsiasi rischio. Anche Hirut, come informa una didascalia che precede i titoli di coda, dedicherà poi la sua vita alla stessa causa. Un’altra didascalia ricorda che Meaza Ashenafi per il suo impegno a difesa dei diritti delle donne in Etiopia, grazie al quale solo nel 2000 furono finalmente vietati per legge i rapimenti delle ragazze per essere violentate a scopo matrimonio, nel 2003 ha ricevuto l’Hunger Projects Prize, l’equivalente africano del Premio Nobel.
Angelina Jolie, da sempre impegnata a livello internazionale per la difesa dei diritti umani, soprattutto nella difesa delle donne da tutte le sopraffazioni nel mondo, non a caso è coproduttrice di questo film.
Timbuktu
Titolo originale: Timbuktu
Genere: Drammatico
Regia: Abderrahmane Sissako
Sceneggiatura: Abderrahmane Sissako
Interpreti : Ibrahim Ahmed, Toulou Kikii
Produzione: Francia, 2014
Timbuctù è un'antica città del Mali (nell'Africa Sahariana), considerata la capitale di uno dei veri quattro sultanati. Nei dintorni di questa città, occupata dai fondamentalisti religiosi, in una tenda isolata tra le dune sabbiose vive Kidane, in pace con la moglie Satima, la figlia Toya e il dodicenne Issan, il giovanissimo guardiano della loro mandria di buoi. Il paese è dominato con il terrore dagli jihadisti. Hanno vietato musica, risate, sigarette e addirittura il calcio. Le donne, che pur conservano la propria dignità, sono state obbligate a mettere il velo e sottomettersi a regole molto restrittive della loro libertà. Ogni giorno uomini jihadisti si autoproclamano corte di giustizia ed emettono assurde sentenze a modo loro, condannando con estrema facilità alla tortura e alla morte. Quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pastore che aveva massacrato il bue della sua mandria a cui, insieme a tutta la sua famiglia era più affezionato, è costretto con la forza ad affrontare la strana corte e ad andare incontro così a una condanna a morte tremenda e senza alcuna attenuante.
Un altro fatto di cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali ha ispirato questo film a uno dei Maestri del cinema africano Sissako: una coppia è stata lapidata perché non sposata, incriminata dalla follia degli integralisti islamici. Ma non è un film anti-islamico: il discorso che l'imam locale fa al neofita jihadista mostra la profonda distinzione tra la religione islamica, pacifica, e l’integralismo di coloro che vogliono dominare e sottomettere con la violenza e il terrore. Il regista ha voluto mostrare a un Occidente spesso distratto, o incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta delle varie realtà nazionali contro il colonialismo subito per secoli, che in Paesi come il Mali o la Mauritania è in atto un'oppressione esterna, a pretesto di una supposta fede per sottomettere intere popolazioni. Nel film infatti si alternano, da un lato, le scene di uomini che impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività, soprattutto opprimendo le donne, e dall'altro, la vita di una famiglia che conosce l'armonia e la fedeltà alle tradizioni pacifiche della propria terra. La meravigliosa fotografia dei paesaggi di quei luoghi rende visibile questo contrasto.
L’ultima sequenza è significativa, proponendo con grande efficacia un comportamento di resistenza: contro le regole assurde e violente imposte dagli integralisti dominatori continuare a giocare una partita proibita, anche se non si può disporre di una palla.