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di Maria Luisa Jorilo specchio di Alice

20/02/2015

Tre film sulla faticosa difesa dei diritti

“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati
di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
(Art.1 Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, 1948)

 In tre film usciti  in Italia nel febbraio 2015, che illustrano fatti veri, vengono presentate  delle lotte eroiche per la rivendicazione difensiva, non  una relativa nuova conquista, dei propri diritti, affrontate con sacrificio da persone  e  gruppi sociali in diversi tempi e luoghi del mondo. Le storie qui raccontate mostrano infatti come, anche quando esistono già le leggi  su  libertà ed uguaglianza(cioè non si tratta più di conquistarne l’affermazione istitutiva di un principio o di un diritto), spesso queste vendono nei fatti ignobilmente ignorate da chi  ha la volontà e la forza di  dominare con   violenta sopraffazione.

 Due di questi tre film riguardano avvenimenti di un passato più o meno lontano, accaduti in Paesi diversi, ma ugualmente  fuori  dall’Europa, che, anche se lentamente, hanno  prodotto  un esito civile positivo, un progresso di civiltà. Il terzo invece  riguarda  fatti  atroci contemporanei:  la  grave violazione dei diritti umani attuata col  terrore  dai  jihadisti invasori in certi Paesi subsahariani (nel film Timbuktu si tratta specificamente del Mali), alla quale finora, come ci dice il regista  mauritano,  non ci sono altre  soluzioni al di fuori  di una coraggiosa  resistenza o della fuga.

Mezzo secolo fa negli Stati Uniti                                                                                         

Selma la strada per la libertà

Titolo originale: Selma

Genere: Drammatico, Storico
Regia: Ava DuVernay
Sceneggiatura: Paul Webb
Interpreti : Tinìm Roth, David Oyelowo, Giovanni Ribisi, Cuba Gooding Jr., Oprah Winfrey, Carmen Ejogo
Fotografia: Bredford Young
Musiche: Jason Moran, Mario Grigorov

Produzione: Gran Bretagna, USA, 2014

 

La regista afroamericana  Ava DuVernay, quarantaduenne,  già  applaudita con un premio assegnato a un precedente suo film (Middle of Nowhere, 2012) ha scelto di raccontare  attraverso un emblematico episodio storico del 1965 la battaglia per i diritti civili in America da parte di un movimento basato sui principi della non violenza: le marce, attraverso un razzista Stato del Sud, l’Alabama, da Selma verso la capitale Mongomery, organizzate per  protestare contro gli impuniti impedimenti al  diritto di voto esercitati,  nonostante i principi di uguaglianza affermati  nello stesso preambolo della Costituzione repubblicana, nei confronti di tutti i cittadini afroamericani. La prima marcia ebbe luogo il 7 marzo 1965,  data divenuta   nota come "Bloody Sunday" (Domenica di sangue), poiché  seicento attivisti che stavano marciando inermi e pacifici furono attaccati dalla polizia locale e dello stato con manganelli e gas lacrimogeno. Ci fu una cinquantina di morti. 
La seconda marcia, alla quale parteciparono anche molti “bianchi” solidali, si tenne il successivo martedì, ma i  duemilacinquecento manifestanti tornarono indietro dopo aver attraversato lo Edmund Pettus Bridge. La  regista racconta come  fu Martin Luther King jr. a  guidare questa rinuncia  per   non mettere a rischio la vita dei partecipanti alla manifestazione. Egli viene mostrato  oppresso da tutto il peso della responsabilità verso le persone che la sua leadership aveva mobilitato. La sua scelta di non usare la violenza nella lotta per la difesa dei diritti degli afroamericani  nel film  non viene  attribuita a un atteggiamento di buonismo o a una fede religiosa, bensì ad una strategia basata sulla considerazione dell’assoluta inferiorità dei mezzi di difesa della collettività in lotta rispetto  agli armamenti e al numero sovrabbondante delle forze di polizia    governative. 
La terza marcia, lunga  settanta chilometri, iniziò  il   ventun marzo, quando il presidente Lyndon B. Johnson non poté più opporsi alla pacifica dimostrazione.  Così, scortati dai  soldati dell'esercito statunitense,  dai membri della Guardia Nazionale dell'Alabama sotto comando federale e da molti agenti dell'FBI,   i manifestanti, dopo giorni di marcia, arrivarono  davanti al Campidoglio di Montgomery, la sede esecutiva o legislativa  dell’Alabama. La strada è ricordata come il Selma To Montgomery Voting Rights Trail (percorso da Selma a Montgomery per il diritto di voto) ed è un percorso storico degli Stati Uniti (National Historic Trail). Il film mostra e documenta gli eventi che  portarono, alcuni mesi dopo, il Presidente Jonhson a firmare il Voting Rights Act, decreto che sancì  la difesa del  diritto di voto per la gente di colore in ogni Stato degli  Usa. 

Anche la regista mette però in evidenza come la felicità per la vittoria ottenuta  era stata guastata dalla notizia che un’altra dimostrante, esponente dei diritti civili di Detroit,  era stata uccisa a colpi di arma da fuoco da uomini del Ku Klux Klan sulla via del ritorno a Selma.   Una didascalia  prima dei titoli di  coda  fornisce dati essenziali sui successivi sviluppi biografici dei protagonisti della lotta, che mostrano  la raggiunta piena  integrazione degli afroamericani. Ma qui  si ricorda anche  che Martin Luther King   fu  ammazzato nel 1968, dopo aver collaborato con il Presidente  nel puntualizzare le norme attuative della legge contro ogni tipo di discriminazione  rispetto al diritto di voto.
King è apparso spesso  come personaggio, al cinema e in tv, ma Selma è il primo film incentrato interamente, ma assolutamente senza retorica, sulla sua figura. Questa viene umanizzata   dedicando una  particolare attenzione anche alla  vita privata, alla famiglia e alla moglie Coretta,   soprattutto  senza nascondere  sensibilità e perfino aspetti di  fragilità   psicologica. Il racconto inizia solo dal momento della sua premiazione con il Nobel e cita   le  parole del discorso di circostanza  che  estendono il merito del premio  a  tutti gli afroamericani che si sono sacrificati nella lotta per   la difesa dei  loro diritti. DuVarnay  combina resoconto documentario   e racconto intimo dei travagli personali dei personaggi.   Attraverso continui primi piani dei volti,  di King e dei vari altri personaggi,  vengono  evidenziati le emozioni e sentimenti che hanno scritto quella storia. Il film svolge  quindi  pienamente la funzione specifica del cinema nei confronti della Storia, quella  di una integrazione del racconto storiografico  attraverso la rappresentazione visiva dei sentimenti e delle emozioni vere  delle persone che hanno vissuto gli avvenimenti del passato  oggetto della narrazione.  

Una ventina di anni fa in Etiopia                                                                                        

Difret – Il coraggio per cambiare

Titolo originale: Difret

Genere: Drammatico
Regia: Zeresenay Mehari
Sceneggiatura: Zeresenay Mehari
Interpreti Meron Getnet, Tizita Hagere
Fotografia:  Monika Lenczewska
Musiche: Dave Eggar, David Schommer

Produzione: Etiopia, USA, 2014

 

 


Il regista  etiope,  che vive negli Usa, racconta  un episodio, veramente accaduto in Etiopia, nel 1996, che  diede inizio a una lenta   trasformazione per il raggiungimento dell’uguaglianza di diritti tra uomo e donna:  la storia vera  della violenza subita da Hirut, una ragazza allora appena quattordicenne, nata e cresciuta in un villaggio a sole tre ore da Addis Abeba. In tale zona di campagna fino all’inizio del terzo millennio vigeva l’usanza, impunita, del rapimento di donne adolescenti, per essere violentate a scopo di matrimonio da parte di uomini localmente dominanti con la forza (detta legge della “Telefa”). Hirut è una ragazza forte, che si ribella (il titolo "Difret" in etiope significa avere coraggio, osare): dopo aver subito la rituale violenza fugge dalla sua prigione impadronendosi di un fucile, e, durante l’inseguimento da parte dei rapitori, per difesa spara e uccide il suo violentatore. Quindi viene arrestata e sta per essere condannata a morte. 
Ma interviene a difendere Hirut  Meaza Ashenafi, giovane donna avvocato che ad Addis Abeba si batte per difendere i diritti dei più deboli, soprattutto le donne vittime dei soprusi degli uomini (oltre ai suddetti rapimenti, ogni genere di violenza domestica). È una volontaria, a capo dell’associazione “Andenet – donne avvocato”.  Ma ai tribunali previsti dall'ordinamento statale si sovrappongono le "corti di giustizia" che si riuniscono in un campo sotto un albero e in cui nessuna donna è presente. Pur di salvare la ragazzina, Meaza è disposta a correre qualsiasi rischio. Anche Hirut, come informa  una didascalia che precede i titoli di coda, dedicherà poi la sua vita alla stessa causa. Un’altra didascalia  ricorda che Meaza Ashenafi per il  suo impegno a difesa dei diritti delle donne in Etiopia, grazie al quale solo nel 2000 furono finalmente vietati per legge i rapimenti delle ragazze per essere violentate a scopo matrimonio, nel 2003 ha ricevuto l’Hunger Projects Prize, l’equivalente  africano del  Premio Nobel.
Angelina Jolie, da sempre impegnata a livello internazionale per la difesa dei diritti umani, soprattutto nella difesa delle donne da tutte le sopraffazioni nel mondo, non a caso è coproduttrice di questo film.

 
 
Oggi nel Mali                                                                                       


Timbuktu

Titolo originale: Timbuktu

Genere: Drammatico
RegiaAbderrahmane Sissako
SceneggiaturaAbderrahmane Sissako
Interpreti Ibrahim Ahmed, Toulou Kikii

Produzione: Francia, 2014

 

 

 


  Timbuctù   è un'antica città del Mali (nell'Africa Sahariana), considerata la capitale di uno dei veri quattro sultanati.   Nei dintorni di questa  città, occupata dai fondamentalisti religiosi, in una tenda isolata tra le dune sabbiose vive Kidane, in pace con la moglie Satima, la figlia Toya e il dodicenne Issan, il giovanissimo guardiano della loro mandria di buoi. Il paese  è  dominato  con il   terrore   dagli jihadisti.  Hanno vietato musica, risate, sigarette e addirittura il calcio. Le donne, che pur  conservano la propria dignità, sono state obbligate a mettere il velo  e  sottomettersi a  regole molto restrittive della loro libertà. Ogni giorno   uomini jihadisti si autoproclamano corte di giustizia ed emettono  assurde sentenze  a modo loro,  condannando con estrema facilità alla tortura e alla morte.  Quando Kidane uccide accidentalmente Amadou, il pastore che aveva massacrato   il bue della sua mandria a cui, insieme a   tutta la  sua famiglia era  più affezionato,  è costretto con la forza ad affrontare la strana corte e ad andare incontro   così   a una   condanna a morte tremenda e senza alcuna  attenuante.
Un altro  fatto di cronaca accaduto in una cittadina del nord del Mali ha ispirato questo film a uno dei Maestri del cinema africano Sissako: una coppia è stata  lapidata  perché non sposata, incriminata dalla follia degli integralisti islamici.  Ma non  è un film anti-islamico:  il discorso che l'imam locale fa al neofita jihadista  mostra la profonda distinzione tra la religione islamica, pacifica, e l’integralismo di coloro che vogliono dominare e sottomettere con la violenza e il terrore.  Il regista ha voluto  mostrare a un Occidente spesso distratto, o  incline a pensare che in fondo l'integralismo sia una rivolta delle varie realtà nazionali contro  il colonialismo subito per secoli, che in Paesi come il Mali o la Mauritania è in atto un'oppressione esterna, a pretesto di una supposta fede per sottomettere intere popolazioni. Nel film infatti si alternano, da un lato, le scene di uomini che  impongono norme che condizionano anche la più quotidiana delle attività, soprattutto   opprimendo le donne, e dall'altro, la vita di una famiglia che conosce l'armonia e la fedeltà  alle tradizioni pacifiche della propria terra. La meravigliosa fotografia dei paesaggi di quei luoghi rende visibile questo contrasto.
L’ultima sequenza è significativa, proponendo con grande efficacia un comportamento di resistenza: contro le regole assurde e violente imposte dagli integralisti dominatori  continuare   a giocare una partita proibita, anche se non si può  disporre di  una palla. 

 

 

Di che cosa parliamo?

Il cinema narrativo è uno strumento di comunicazione educativa e didattica  quasi indispensabile  nella scuola di oggi, sia come arte visiva sia come mezzo per far passare e fissare  l’apprendimento attraverso emozioni. Gli insegnanti   hanno bisogno di  mantenersi    informati sui film più adeguati a questi scopi della loro attività professionale. “Lo specchio di Alice” (in quanto il cinema può essere un  vero specchio del mondo per  i ragazzi e le ragazze in formazione) si propone  di informare i docenti sui film contemporanei e su quelli del passato più interessanti e comprensibili   da parte di allievi e allieve adolescenti. Come a scuola per le letture, a  volte verranno  recensite, e didatticamente corredate,  anche opere cinematografiche meno valide esteticamente, ma capaci di suscitare interrogativi, introdurre problemi, illustrare argomenti di studio presso  gli studenti.

L'autrice

Ha insegnato in un triennio linguistico.  Supervisore di tirocinio dal 1999 al 2003  e docente di didattica della letteratura fino  al 2008 presso la SSis dell’università di Torino.  Esperta di cinema e didattica, dal 2003  ha recensito assiduamente sulla rivista insegnare  il “Torino film festival” e i film in uscita più adeguati  a prestarsi come sussidi  nell’insegnamento agli adolescenti.

 


All’indirizzo   marialuisa.jori@gmail.com  su richiesta si forniscono  gratuitamente sia  informazioni  su film  utilmente  collegabili ad  argomenti  dei  programmi scolastici (per es. di storia) sia indicazioni metodologiche   sull’uso didattico del cinema nella scuola di ogni ordine e grado.