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di Maria Luisa Jorilo specchio di Alice

19/12/2016

La mia vita da zucchina

Titolo originale: Ma vie de Courgette
Genere: Film di animazione
RegiaClaude Barras
Sceneggiatura: Céline Sciamma (già regista di  intensi  film  su   adolescenti  con  Tomboy 2011, e Quando si hanno diciassette anni 2016) , Germano Zullo, Claude Barras e Morgan Navarro
Scenografia Ludovic Chemarin e Delphine Daumas
Musiche: Sophie Hunger
Durata: 66 min.
Produzione:  Svizzera, Francia, Germania,  2016

 

 

Le fonti del regista

Il film del regista svizzero esordiente (all’origine disegnatore di fumetti, poi  autore di alcuni corti) è basato su un adattamento del  libro omonimo di Gilles Paris Autobiographie d’ une courgette (2002), un racconto con un io narrante  solo nel 2016 tradotto in italiano da Piemme.  L’opera  di   Barras    presenta,  per la sincerità e la sensibilità con   le quali è affrontato l’argomento,  affinità con almeno due altre narrazioni: il film  I quattrocento colpi  di François Truffaut (1959) e soprattutto il romanzo La vita davanti a sé, premio Goncourt 1975 di Emile Ajar  (pseudonimo di  Romain Gary,  pseudonimo a sua volta  di Romain Kacev). Con uguale delicatezza e  realismo in tutte e tre queste opere si rappresentano   emozioni,   sentimenti,  disorientamenti,  melanconie di un preadolescente orfano,  salvato dal caso e dalla  sua naturale vitalità.  Ma il regista de La mia vita da zucchina, intervistato, ha rivelato così quali   maestri e modelli cinematografici lo hanno ispirato:

“Sono un grande ammiratore di Tim Burton e l'estetica delle mie zucchine deve molto a lui e al suo cinema. [ ...] Ma devo anche dire che il suo team fa sempre più uso del CGI mentre noi amiamo le imperfezioni della stop motion classica. A livello contenutistico i miei punti di riferimento sono Ken Loach e i fratelli Dardenne”

La trama

Icare è un bambino di  nove  anni, dalla mamma soprannominato Zucchina. Per prima cosa lo vediamo far volare fuori dalla finestra un aquilone sul quale ha disegnato un supereroe da una parte e  una gallina dall’altra. Spiegherà poi che si è immaginato così il papà, perché  la mamma gli ha sempre detto che  lui, da  supereroe, è volato via per aver sempre avuto un debole per le “pollastre”. Già  abbandonato  dunque  dal  padre,  perde anche la madre  alcolista proprio  nel cercare di impedirle di raggiungerlo:  mentre  lei sale le scale per arrivare a punirlo, involontariamente lui, per difendersi, la fa cadere. Qui giustamente Barras ha la delicatezza di  modificare il  romanzo, che  racconta un vero e proprio  matricidio con  sparo di una pistola, consapevole che quanto si vede sullo schermo  risulta sempre troppo più forte, più emozionante, di quanto  si legge in un libro.

Rimasto solo, Zucchina viene raccolto dal burbero poliziotto Raymond  e  portato a vivere in una casa famiglia, dove incontra altri bambini rimasti orfani in tragiche circostanze: genitori drogati, madri rimpatriate a forza, padri pedofili o ladri o assassini. Simon Les Fontaines è il bullo, coi genitori tossicodipendenti. Ahmed odia gli sbirri perché gli hanno messo in galera il padre che ha fatto una rapina. Jujube ha la mamma pazza, piena di manie e psicosi.   Alice  porta i segni sul corpo e nell’anima degli abusi subiti dal padre. Béa ogni volta che sente una macchina arrivare pensa che sia sua madre, immigrata  espulsa dal Paese mentre lei era a scuola.  Camille, orfana, ha una zia  cattiva come una “strega”: la vorrebbe portare via con sé per maltrattarla. 

 Dopo le difficoltà iniziali, dovute alla sua muta tristezza  e alla conseguente diffidenza degli altri bambini nei suoi confronti, Zucchina riesce a poco a poco a  stringere  amicizia  con il  gruppo dei coetanei, tra cui spicca la dolce Camille, l’ultima arrivata, che  a lui  sta particolarmente a cuore.  La nascita del sentimento dell’amore è osservato dai bambini anche negli adulti,  spiando il bacio  tra il maestro di scuola e l’assistente.  Buoni sentimenti sono anche quelli di  Raymond, il poliziotto vedovo, un padre lasciato solo dal figlio andato  lontano:  si prende cura dei bambini orfani, portandoli in gita, e alla fine adotterà Zucchina e Camille insieme.  E che dire della  dimostrazione di affetto di un coetaneo del protagonista, l’amico  più caro: in un primo tempo  si era arrabbiato per   la  scelta del compagno di andarsene con il poliziotto, giudicandola un tradimento, poi arriva  perfino a raccomandare generosamente a Zucchina di non lasciarsi sfuggire l’occasione fortunata  dell’adozione!

L’ultima scena è tutta dedicata alla nascita del figlio del maestro e della assistente, in cui i  bambini con le loro domande mettono alla prova l’indissolubilità dell’amore di quei genitori, qualunque carattere e comportamento, anche se di disturbo, il piccolo riveli e sviluppi crescendo. Naturalmente la neomamma si mostra disposta ad accettare totalmente, senza riserve,  la persona che diventerà il neonato:  non  abbandonerà mai il suo bambino, per nessun motivo. Con questa definizione dei   sentimenti entusiastici che caratterizzano  la  maternità quando è sana si conclude il film  sulle difficoltà psicologiche che devono affrontare i bambini vittime di tragedie familiari e abbandono.

 La tecnica di animazione

Il film è costruito con una tecnica innovativa gefinita in inglese stop-motion o frame by frame. I disegni sono sostituiti da pupazzi,  alti circa 25 cm, costruiti artigianalmente combinando materiali diversi (schiuma di lattice per i capelli, silicone per le braccia, resina per il viso, tessuti per i vestiti) avvolti intorno uno scheletro articolabile adattato alla morfologia di ogni personaggio. I pupazzi vengono quindi collocati in un set realizzato in scala e illuminati dal direttore della fotografia, prima dell’intervento degli animatori. Qui devono essere mossi a ogni fotogramma: ci sono voluti otto mesi di riprese,  realizzando in media quattro secondi di film al giorno (utilizzando 62 scenografie e 53 marionette, di cui ben 9 solo per Zucchina), seguiti da sei mesi di postproduzione.

I capelli dei pupazzi sono di colori diversi, in modo da contraddistinguere i vari personaggi.  La testa è una sfera più grande del corpo e il viso circolare, con bocca piccolissima e naso disegnato in verticale, sottile, è quasi interamente occupato da  sproporzionati  occhi   rotondi,  finestre  spalancate sul mondo, dalle quali escono  le emozioni troppo grandi,  raramente  liquefatte in  lacrime traboccanti. I vestiti sono differenziati nei colori e nelle forme.  Chiaramente  questi  pupazzi si ispirano ai primi disegni infantili della figura umana, per esempio quelli definiti dagli psicologi  “Le Bonhomme Têtard” (dai 3 anni  e mezzo ai 4 e mezzo)

Riflessioni   

La mia vita da zucchina  è un film che ha il pregio di non nascondere neppure ai bambini il male che alcuni di loro possono incontrare nella vita. Si tratta della poetica del regista, che,  come  Ken Loach e  i fratelli  Dardenne, vuole raccontare la realtà  così com’è, cioè prendere in considerazione  proprio  gli esseri più sfortunati, mettendone sotto agli occhi di tutti, compresi i minori, le sofferenze. Ma  nello stesso tempo Claude Barras riesce a presentare drammi e tragedie familiari  che hanno   ferito gravemente dei piccoli innocenti senza traumatizzare gli spettatori loro coetanei. Fondamentale nel creare questo effetto è il filtro emotivo della  animazione   con  schematici pupazzi, invece  della recitazione di attori in carne ed ossa, che avrebbe  favorito sofferte identificazioni: una tecnica che porta sullo schermo il metodo dell’antico teatro dei burattini in uso  prima del cinematografo, forse  già   alla base dell’ispirazione narrativa di Collodi, a differenza  di quella tragica di  Andersen e Grimm.

È interessante  il fatto che sia Pinocchio che i protagonisti delle  più note fiabe (Cappuccetto rosso, Biancaneve, Cenerentola, ecc.) sono  bambini  orfani, o di entrambi o di uno dei genitori, come quelli   in  La mia vita da Zucchina. Ma il film ha il vantaggio di potersi avvalere anche della comunicazione musicale: Claude Barras ha accompagnato l’animazione con delle bellissime canzoni, non retoriche né sdolcinate, che stemperano ogni possibile commozione eccessiva negli spettatori. Sophie Hunger, vero nome Émilie Jeanne-Sophie Welti (Berna, 31 marzo 1983),  cantautrice svizzera di musica folk-pop-blues, poliglotta, qui  le canta in  francese. Peccato che manchino i sottotitoli in italiano per farne comprendere da tutti le parole.

 

 

Di che cosa parliamo?

Il cinema narrativo è uno strumento di comunicazione educativa e didattica  quasi indispensabile  nella scuola di oggi, sia come arte visiva sia come mezzo per far passare e fissare  l’apprendimento attraverso emozioni. Gli insegnanti   hanno bisogno di  mantenersi    informati sui film più adeguati a questi scopi della loro attività professionale. “Lo specchio di Alice” (in quanto il cinema può essere un  vero specchio del mondo per  i ragazzi e le ragazze in formazione) si propone  di informare i docenti sui film contemporanei e su quelli del passato più interessanti e comprensibili   da parte di allievi e allieve adolescenti. Come a scuola per le letture, a  volte verranno  recensite, e didatticamente corredate,  anche opere cinematografiche meno valide esteticamente, ma capaci di suscitare interrogativi, introdurre problemi, illustrare argomenti di studio presso  gli studenti.

L'autrice

Ha insegnato in un triennio linguistico.  Supervisore di tirocinio dal 1999 al 2003  e docente di didattica della letteratura fino  al 2008 presso la SSis dell’università di Torino.  Esperta di cinema e didattica, dal 2003  ha recensito assiduamente sulla rivista insegnare  il “Torino film festival” e i film in uscita più adeguati  a prestarsi come sussidi  nell’insegnamento agli adolescenti.

 


All’indirizzo   marialuisa.jori@gmail.com  su richiesta si forniscono  gratuitamente sia  informazioni  su film  utilmente  collegabili ad  argomenti  dei  programmi scolastici (per es. di storia) sia indicazioni metodologiche   sull’uso didattico del cinema nella scuola di ogni ordine e grado.