Titolo originale: Ma vie de Courgette
Genere: Film di animazione
Regia: Claude Barras
Sceneggiatura: Céline Sciamma (già regista di intensi film su adolescenti con Tomboy 2011, e Quando si hanno diciassette anni 2016) , Germano Zullo, Claude Barras e Morgan Navarro
Scenografia : Ludovic Chemarin e Delphine Daumas
Musiche: Sophie Hunger
Durata: 66 min.
Produzione: Svizzera, Francia, Germania, 2016
Le fonti del regista
Il film del regista svizzero esordiente (all’origine disegnatore di fumetti, poi autore di alcuni corti) è basato su un adattamento del libro omonimo di Gilles Paris Autobiographie d’ une courgette (2002), un racconto con un io narrante solo nel 2016 tradotto in italiano da Piemme. L’opera di Barras presenta, per la sincerità e la sensibilità con le quali è affrontato l’argomento, affinità con almeno due altre narrazioni: il film I quattrocento colpi di François Truffaut (1959) e soprattutto il romanzo La vita davanti a sé, premio Goncourt 1975 di Emile Ajar (pseudonimo di Romain Gary, pseudonimo a sua volta di Romain Kacev). Con uguale delicatezza e realismo in tutte e tre queste opere si rappresentano emozioni, sentimenti, disorientamenti, melanconie di un preadolescente orfano, salvato dal caso e dalla sua naturale vitalità. Ma il regista de La mia vita da zucchina, intervistato, ha rivelato così quali maestri e modelli cinematografici lo hanno ispirato:
“Sono un grande ammiratore di Tim Burton e l'estetica delle mie zucchine deve molto a lui e al suo cinema. [ ...] Ma devo anche dire che il suo team fa sempre più uso del CGI mentre noi amiamo le imperfezioni della stop motion classica. A livello contenutistico i miei punti di riferimento sono Ken Loach e i fratelli Dardenne”
La trama
Icare è un bambino di nove anni, dalla mamma soprannominato Zucchina. Per prima cosa lo vediamo far volare fuori dalla finestra un aquilone sul quale ha disegnato un supereroe da una parte e una gallina dall’altra. Spiegherà poi che si è immaginato così il papà, perché la mamma gli ha sempre detto che lui, da supereroe, è volato via per aver sempre avuto un debole per le “pollastre”. Già abbandonato dunque dal padre, perde anche la madre alcolista proprio nel cercare di impedirle di raggiungerlo: mentre lei sale le scale per arrivare a punirlo, involontariamente lui, per difendersi, la fa cadere. Qui giustamente Barras ha la delicatezza di modificare il romanzo, che racconta un vero e proprio matricidio con sparo di una pistola, consapevole che quanto si vede sullo schermo risulta sempre troppo più forte, più emozionante, di quanto si legge in un libro.
Rimasto solo, Zucchina viene raccolto dal burbero poliziotto Raymond e portato a vivere in una casa famiglia, dove incontra altri bambini rimasti orfani in tragiche circostanze: genitori drogati, madri rimpatriate a forza, padri pedofili o ladri o assassini. Simon Les Fontaines è il bullo, coi genitori tossicodipendenti. Ahmed odia gli sbirri perché gli hanno messo in galera il padre che ha fatto una rapina. Jujube ha la mamma pazza, piena di manie e psicosi. Alice porta i segni sul corpo e nell’anima degli abusi subiti dal padre. Béa ogni volta che sente una macchina arrivare pensa che sia sua madre, immigrata espulsa dal Paese mentre lei era a scuola. Camille, orfana, ha una zia cattiva come una “strega”: la vorrebbe portare via con sé per maltrattarla.
Dopo le difficoltà iniziali, dovute alla sua muta tristezza e alla conseguente diffidenza degli altri bambini nei suoi confronti, Zucchina riesce a poco a poco a stringere amicizia con il gruppo dei coetanei, tra cui spicca la dolce Camille, l’ultima arrivata, che a lui sta particolarmente a cuore. La nascita del sentimento dell’amore è osservato dai bambini anche negli adulti, spiando il bacio tra il maestro di scuola e l’assistente. Buoni sentimenti sono anche quelli di Raymond, il poliziotto vedovo, un padre lasciato solo dal figlio andato lontano: si prende cura dei bambini orfani, portandoli in gita, e alla fine adotterà Zucchina e Camille insieme. E che dire della dimostrazione di affetto di un coetaneo del protagonista, l’amico più caro: in un primo tempo si era arrabbiato per la scelta del compagno di andarsene con il poliziotto, giudicandola un tradimento, poi arriva perfino a raccomandare generosamente a Zucchina di non lasciarsi sfuggire l’occasione fortunata dell’adozione!
L’ultima scena è tutta dedicata alla nascita del figlio del maestro e della assistente, in cui i bambini con le loro domande mettono alla prova l’indissolubilità dell’amore di quei genitori, qualunque carattere e comportamento, anche se di disturbo, il piccolo riveli e sviluppi crescendo. Naturalmente la neomamma si mostra disposta ad accettare totalmente, senza riserve, la persona che diventerà il neonato: non abbandonerà mai il suo bambino, per nessun motivo. Con questa definizione dei sentimenti entusiastici che caratterizzano la maternità quando è sana si conclude il film sulle difficoltà psicologiche che devono affrontare i bambini vittime di tragedie familiari e abbandono.
La tecnica di animazione
Il film è costruito con una tecnica innovativa gefinita in inglese stop-motion o frame by frame. I disegni sono sostituiti da pupazzi, alti circa 25 cm, costruiti artigianalmente combinando materiali diversi (schiuma di lattice per i capelli, silicone per le braccia, resina per il viso, tessuti per i vestiti) avvolti intorno uno scheletro articolabile adattato alla morfologia di ogni personaggio. I pupazzi vengono quindi collocati in un set realizzato in scala e illuminati dal direttore della fotografia, prima dell’intervento degli animatori. Qui devono essere mossi a ogni fotogramma: ci sono voluti otto mesi di riprese, realizzando in media quattro secondi di film al giorno (utilizzando 62 scenografie e 53 marionette, di cui ben 9 solo per Zucchina), seguiti da sei mesi di postproduzione.
I capelli dei pupazzi sono di colori diversi, in modo da contraddistinguere i vari personaggi. La testa è una sfera più grande del corpo e il viso circolare, con bocca piccolissima e naso disegnato in verticale, sottile, è quasi interamente occupato da sproporzionati occhi rotondi, finestre spalancate sul mondo, dalle quali escono le emozioni troppo grandi, raramente liquefatte in lacrime traboccanti. I vestiti sono differenziati nei colori e nelle forme. Chiaramente questi pupazzi si ispirano ai primi disegni infantili della figura umana, per esempio quelli definiti dagli psicologi “Le Bonhomme Têtard” (dai 3 anni e mezzo ai 4 e mezzo)
Riflessioni
La mia vita da zucchina è un film che ha il pregio di non nascondere neppure ai bambini il male che alcuni di loro possono incontrare nella vita. Si tratta della poetica del regista, che, come Ken Loach e i fratelli Dardenne, vuole raccontare la realtà così com’è, cioè prendere in considerazione proprio gli esseri più sfortunati, mettendone sotto agli occhi di tutti, compresi i minori, le sofferenze. Ma nello stesso tempo Claude Barras riesce a presentare drammi e tragedie familiari che hanno ferito gravemente dei piccoli innocenti senza traumatizzare gli spettatori loro coetanei. Fondamentale nel creare questo effetto è il filtro emotivo della animazione con schematici pupazzi, invece della recitazione di attori in carne ed ossa, che avrebbe favorito sofferte identificazioni: una tecnica che porta sullo schermo il metodo dell’antico teatro dei burattini in uso prima del cinematografo, forse già alla base dell’ispirazione narrativa di Collodi, a differenza di quella tragica di Andersen e Grimm.
È interessante il fatto che sia Pinocchio che i protagonisti delle più note fiabe (Cappuccetto rosso, Biancaneve, Cenerentola, ecc.) sono bambini orfani, o di entrambi o di uno dei genitori, come quelli in La mia vita da Zucchina. Ma il film ha il vantaggio di potersi avvalere anche della comunicazione musicale: Claude Barras ha accompagnato l’animazione con delle bellissime canzoni, non retoriche né sdolcinate, che stemperano ogni possibile commozione eccessiva negli spettatori. Sophie Hunger, vero nome Émilie Jeanne-Sophie Welti (Berna, 31 marzo 1983), cantautrice svizzera di musica folk-pop-blues, poliglotta, qui le canta in francese. Peccato che manchino i sottotitoli in italiano per farne comprendere da tutti le parole.