Pubblichiamo le risposte ai nostri quesiti rivolti a testimoni scelti fra docenti universitari, ricercatori, studiosi, formatori e docenti che in questi anni abbiano attivamente operato nel campo dell'educazione linguistica.
1. Quali tra gli auspici e le raccomandazioni contenuti nelle “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica” le sembra che sia stato maggiormente perseguito e realizzato? Quale, al contrario, le sembra che stato fortemente o del tutto disatteso? |
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Le Dieci tesi sono un documento importante e lungimirante che ha promosso una stagione di dibattiti, innovazione nell’editoria scolastica, entusiasmo e voglia di sperimentare e innovare rimediando agli errori della “pedagogia linguistica tradizionale” tra molti insegnanti. Molti dei principi che le caratterizzano sono penetrati anche nei programmi scolastici prima, nelle Indicazioni nazionali per i vari ordini scolastici dopo. Compreso il principio della trasversalità dell’educazione linguistica e della necessità che essa, lungi dal limitarsi alle ore di “italiano”, sia curata consapevolmente dai docenti di tutte le discipline. Compreso il superamento del tema come unico esercizio di scrittura da praticare a scuola dato che, almeno negli esami di Stato, a partire dal 1999, esso è stato affiancato da saggio breve, articolo di giornale e analisi del testo. Tuttavia, di realizzato completamente e in modo soddisfacente e generalizzato vedo ben poco, anche se non mancano e non sono mancate, soprattutto in passato, isole felici di innovazione e sperimentazione, alimentate anche da piani nazionali di formazione degli insegnanti in servizio rivelatisi particolarmente efficaci. Primo tra tutti, quello che, a suo tempo, accompagnò i programmi della scuola elementare del 1985, con iniziative che toccarono in modo capillare e a tappeto tutti gli insegnanti. Una qualche efficacia avrebbe potuto avere anche il “Laboratorio di scrittura”, partito in concomitanza con l’introduzione delle nuove prove di scrittura all’esame di Stato e durato almeno cinque anni. Il progetto aveva l’ambizione di affidare ai docenti selezionati da varie ‘scuole-polo’ di ogni regione il compito di riportare ‘a cascata’, nelle rispettive regioni e sedi, le esperienze formative ricavate dai seminari nazionali cui partecipavano. Ma la cosa non ha funzionato come avrebbe dovuto e potuto per molteplici ragioni organizzative, non ultimo il fatto che il MPI non poteva più imporre alle scuole della subentrata ‘autonomia’ di far partecipare con continuità sempre gli stessi insegnanti a ognuno dei seminari nazionali in cui il progetto si articolava. I dirigenti scolastici preferivano spesso farli ‘ruotare’, come se si trattasse di premiarli a turno perché partecipassero agli incontri nazionali, ma veniva così a cadere la possibilità di una loro formazione efficace perché continuativa. Intendo dire, con questi esempi, che finché non ci si preoccuperà seriamente di formazione degli insegnanti, sarà inutile poter vantare il fatto (qui ricordato inizialmente) che molte delle raccomandazioni presenti nelle “dieci Tesi” siano penetrate via via nei documenti ufficiali per le scuole. Del tutto disattesa è stata infatti la IX tesi, che sottolinea la necessità di una buona formazione linguistica degli insegnanti. La loro formazione iniziale, che spetterebbe all’Università, ha visto certo qualche piccolo timido cambiamento ordinamentale, ma del tutto insufficiente a spostare le attenzioni delle facoltà umanistiche dall’asse tradizionalmente privilegiato (quello letterario e storico-letterario). Abolite le SSIS, dove si stava pian piano cercando di far passare attenzioni trasversali all’educazione linguistica (e in alcune sedi ciò avveniva nell’area comune destinata a insegnanti di qualunque disciplina), i TFA hanno riportato le poche ore a disposizione nell’alveo delle impostazioni più tradizionali di singole facoltà e corsi di laurea, mentre tutti da istituire sono i corsi di laurea per insegnanti, che non promettono molto di buono o di diverso da un semplice computo burocratico di crediti da distribuire tra gruppi di discipline (o settori) accademici, i cui docenti in genere sono più mossi da preoccupazioni lobbistiche inerenti la propria stessa sopravvivenza che non da attenzione alla necessità di istituire percorsi formativi efficaci rispetto a competenze da acquisire per poter insegnare. Quasi completamente disattesa mi sembra poi, nella scuola, la cura delle abilità orali di ascolto e parlato. Il lavoro sul parlato è stato del resto spesso confuso con (o limitato a) discussioni in classe, magari su argomenti di ‘attualità’; faticoso, e poco praticato dagli stessi insegnanti, specie nella scuola secondaria, sembra essere il parlato euristico; nelle interrogazioni dei singoli allievi ci si preoccupa in genere di accertare che abbiano studiato, mentre poca attenzione sembra essere dedicata alla loro capacità di organizzare al meglio un discorso; poco diffuso sembra l’uso del registratore per riascoltare una lezione o un’interrogazione e analizzare in classe come avrebbero potuto essere organizzate in modo più efficace. L’ascolto e, ovviamente, la (verifica della) comprensione di quanto fruito ‘naturalmente’ sembrano poi ancora più trascurati, non mi sembra siano quasi mai oggetto di attività specifiche. |
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2. Appare a molti innegabile che particolarmente negli ultimi anni la didattica nel campo dell’educazione linguistica e letteraria abbia registrato un sensibile arretramento su posizioni (neo)conservatrici. Condivide questo giudizio? Quale o quali ritiene sia o siano le principali cause di tale arretramento? |
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Per l’educazione letteraria, o meglio linguistico-letteraria, sicuramente è venuta meno, anche all’Università, l’attenzione per quella centralità del testo da cui partire per allargare, solo dopo averlo letto davvero, lo sguardo al contesto (storico-culturale e storico-letterario). Nessuno sembra più possedere gli strumenti di analisi narrativa e/o poetica suggeriti da una semiotica letteraria un tempo in piena espansione. Alcuni parametri di analisi sono penetrati, è vero, nei manuali scolastici, ma ridotti a griglie povere e da usare meccanicamente, senza che gli insegnanti siano mai stati dotati di strumenti per usarli e insegnare a usarli con intelligenza critica. |
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3. Negli anni che ci separano dalle “Dieci Tesi” si sono verificati fenomeni di forte impatto sulla realtà comunicativa e linguistica del nostro paese (la diffusione dei media digitali, i flussi migratori, la crisi occupazionale, le trasformazioni stesse dell’italiano, ecc.): vi sembra che università e scuola abbiano saputo fronteggiare in modo adeguato le emergenze educative che ne sono derivate? |
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I fenomeni citati nella domanda sono troppo complessi per poter essere presi in carica tutti da una risposta veloce. Mi limito perciò a considerare che, se solo si volessero trovare davvero risposte soddisfacenti a tutto ciò, non mancherebbero le analisi, gli strumenti teorici e le indicazioni operative. Ma, soprattutto, occorrerebbe poter contare su decisori politici ben più colti e preparati di quelli attuali, o su decisori perlomeno capaci di ascoltare i veri esperti sulle problematiche educative scolastiche e universitarie, le associazioni scientifiche, professionali e disciplinari dei docenti, tutti coloro che da anni fanno proposte, spesso convergenti ma ancora più spesso inascoltate, su quanto sarebbe necessario per migliorare davvero la qualità della scuola e dell’insegnamento, adeguandola ai mutamenti verificatisi e in atto. Invece abbiamo assistito e assistiamo a processi di valutazione spesso iperburocraticamente concepiti che – almeno all’Università - producono tagli di risorse finanziarie e penalizzazioni proprio per chi ottiene i risultati meno soddisfacenti, anziché produrre semmai interventi capaci di far recuperare il gap rispetto a sedi più avvantaggiate, che stanno più al Nord che non nel Sud e nelle isole (che strano…!). Inoltre, tornando alla scuola, sono sotto gli occhi di tutti le storture di una didattica orientata quasi esclusivamente al superamento dei test Invalsi (nel fiorire di farraginosi manuali appositi); mentre si sono registrate e si registrano in questi anni, nel senso comune collettivo, alimentato dalla stampa e ancora una volta dai governanti e ministri di turno, una mal riposta fiducia nel valore taumaturgico delle nuove tecnologie e della loro utilizzazione nella didattica, come se fossero sufficienti un PC prima, un tablet e una LIM poi, per risolvere tutti i problemi e ovviare a dispersione scolastica, incapacità di lettura e comprensione, assenza di curiosità culturali e di motivazione allo studio, ecc. ecc. Occorre certo fare i conti con le nuove tecnologie, ma da vedere come strumenti che si sommano agli altri senza sostituirli: sono strumenti da insegnare ad usare criticamente, utili ma, insieme, incapaci di garantire i tempi lenti e riflessivi necessari agli apprendimenti non effimeri che si radichino davvero nella memoria a lungo termine dei ragazzi. Sono insomma per la non sostituibilità, in questo senso, della carta stampata e dei libri… La presenza di ragazzi di madrelingua diversa dall’italiano, che nella scuola italiana devono trovare accoglienza, ripropone inoltre la necessità di fare i conti con tutte le parlate e le lingue altre. L’educazione linguistica dovrebbe essere capace di istituire ‘ponti’ tra le lingue d’origine e l’italiano in quanto lingua della scuola. E’ un compito in fondo non nuovo per la scuola italiana, chiamata in passato a fare i conti con dialetti e altre parlate locali, che a lungo sono stati lingue native diverse dall’italiano stesso per la maggior parte degli allievi. Un compito assolto malamente in passato, un compito che oggi, verso le lingue altre, potrebbe essere assolto bene solo – ancora una volta- da docenti provvisti di una valida formazione linguistica. Infatti un’educazione linguistica efficacemente democratica, come ricordano le Dieci tesi, se deve evitare che le parlate diverse da quella della scuola diventino “gabbie discriminanti”, e deve dunque insegnare al meglio l’italiano che a scuola si parla, nello stesso tempo non deve trascurare la realtà linguistica di partenza degli allievi, trasformando così “in causa di svantaggio la diversità dialettale, culturale e sociale”. E ciò vale oggi anche per tutte le lingue e le culture immigrate. |
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4. Qualche speranza per il futuro: quale attenzione si sentirebbe di consigliare per dare nuovo vigore all’Educazione linguistica democratica nel nostro paese? |
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Credo di avere in fondo già risposto a quest’ultima domanda. L’attenzione prioritaria, insisto, dovrebbe essere volta alla formazione iniziale e in servizio dei docenti, fornendo loro gli strumenti per gestire al meglio e con alta professionalità l’educazione linguistica nella scuola. Ma tutto ciò dovrebbe accompagnarsi anche a un recupero di consapevolezza e fierezza per la grande responsabilità insita nel mestiere dell’insegnante. Una fierezza che potrebbe crescere se solo si riuscisse a ridare all’istruzione il debito valore e prestigio, a partire da un doveroso innalzamento di quanto lo Stato spende per la scuola pubblica e statale. |
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Di Cristina Lavinio, su quest tema, si veda anche Il ruolo delle Dieci tesi nell’educazione linguistica trasversale, nello speciale dedicato dalla Enciclopedia Treccani on line ai 40 dell'Educazione linguistica democratica. |
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Professore ordinario, insegna attualmente Linguistica educativa. Autrice di numerosi studi in vari filoni di ricerca, spesso provvisti di ricadute sul terreno della linguistica educativa e dell’educazione linguistica. Tra gli altri, Comunicazione e linguaggi disciplinari (Roma, Carocci, 2004), dove si sottolinea la cura che tutti i docenti (anche di scienze, di matematica ecc.) dovrebbero dedicare agli aspetti linguistici. |