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di Lina Grossipagine dimenticate

24/04/2025

Il carteggio tra Einstein e Freud sul tema Perché la guerra? Breve guida alla lettura

Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica…Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.

(S. Freud)

Il carteggio tra Einstein e Freud sul tema "Perché la guerra" [1] avviene nel 1932 quando la Commissione internazionale di Cooperazione intellettuale della Società delle Nazioni propone ad Albert Einstein di invitare una persona di suo gradimento a uno scambio di opinioni su un problema da lui scelto. L’intento è quello di sollecitare un confronto tra gli intellettuali più rappresentativi della cultura del tempo su temi di universale interesse. Einstein sceglie di dialogare sul tema della guerra e indirizza a Freud uno scritto denso e serrato in cui pone una serie di domande concatenate a partire da “una domanda che appare a me, nella presente condizione del mondo, la più urgente fra tutte quelle che si pongono alla civiltà. La domanda è: c'è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”

1. La lettera di Einstein a Freud

Scrive Einstein a proposito della sua iniziale domanda sulla guerra:

… riguardo a tale inchiesta, dovrò limitarmi a cercare di porre il problema nei giusti termini, consentendoLe così, su un terreno sbarazzato dalle soluzioni più ovvie, di avvalersi della Sua vasta conoscenza della vita istintiva umana per far qualche luce sul problema. Vi sono determinati ostacoli psicologici di cui chi non conosce le scienze mentali ha un vago sentore, e di cui tuttavia non riesce a esplorare le correlazioni e i confini; sono convinto che Lei potrà suggerire metodi educativi, più o meno estranei all’ambito politico, che elimineranno questi ostacoli.

E avvia la riflessione sulle possibili cause di insuccesso dei tentativi di porre un argine alla guerra, centrando l’attenzione su due fattori: gli squilibri di potere all’interno dei singoli Stati tra i diversi gruppi sociale che sgretolano la coesione; le difficoltà di un organismo sovranazionale, quale l’allora Società delle Nazioni, di operare fattivamente per comporre i conflitti tra gli Stati dovute alla mancanza del potere necessario per far rispettare le proprie decisioni a causa del rifiuto della limitazione della sovranità nazionale da parte degli Stati. Sostiene Einstein:

L’insuccesso, nonostante tutto, dei tentativi intesi nell’ultimo decennio a realizzare questa meta ci fa concludere senz’ombra di dubbio che qui operano forti fattori psicologici che paralizzano gli sforzi. Alcuni di questi fattori sono evidenti. La sete di potere della classe dominante è in ogni Stato contraria a qualsiasi limitazione della sovranità nazionale. Questo smodato desiderio di potere politico si accorda con le mire di chi cerca solo vantaggi mercenari, economici. Penso soprattutto al piccolo ma deciso gruppo di coloro che, attivi in ogni Stato e incuranti di ogni considerazione e restrizione sociale, vedono nella guerra, cioè nella fabbricazione e vendita di armi, soltanto un’occasione per promuovere i loro interessi personali e ampliare la loro personale autorità.

Da queste considerazioni fondate su dati irrefutabili, scaturisce una seconda domanda rivolta da Einstein al destinatario della sua lettera:

Ci troviamo subito di fronte a un’altra domanda: com’è possibile che la minoranza ora menzionata riesca ad asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere? […] Una risposta ovvia a questa domanda sarebbe che la minoranza di quelli che di volta in volta sono al potere ha in mano prima di tutto la scuola e la stampa, e perlopiù anche le organizzazioni religiose. Ciò le consente di organizzare e sviare i sentimenti delle masse rendendoli strumenti della propria politica.

Ma questa considerazione non sembra fornire una convincente soluzione alla questione. Ne consegue un ulteriore interrogativo rispetto al quale Einstein sollecita un’analisi di Freud nella sua qualità di “esperto nella conoscenza degli istinti umani”.

com’è possibile che la massa si lasci infiammare con i mezzi suddetti fino al furore e all’olocausto di sé? Una sola risposta si impone: perché l’uomo ha dentro di sé il piacere di odiare e di distruggere. In tempi normali la sua passione rimane latente, emerge solo in circostanze eccezionali; ma è abbastanza facile attizzarla e portarla alle altezze di una psicosi collettiva. Qui, forse, è il nocciolo del complesso di fattori che cerchiamo di districare, un enigma che può essere risolto solo da chi è esperto nella conoscenza degli istinti umani.

Seguendo il ragionamento di Einstein, la domanda che segue e sulla quale sollecita un più esperta disamina è: vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? 

Einstein tocca inoltre un aspetto ancora non considerato riguardo al tema generale della guerra, ossia che l’istinto aggressivo può manifestarsi anche in forme e circostanze altre rispetto alle guerre tra Stati. Aggiunge infatti:

…penso alle guerre civili, per esempio, dovute un tempo al fanatismo religioso, oggi a fattori sociali; o, ancora, alla persecuzione di minoranze razziali.

E conclude ricordando i precedenti scritti di Freud sulla guerra nei quali in modo esplicito o implicito erano stati affrontati tutti gli interrogativi sul problema in discussione “che è insieme urgente e imprescindibile” e auspicando che Freud possa, alla luce delle più recenti scoperte nell’ambito della psicoanalisi, indicare “la strada a nuovi e validissimi modi d’azione” nella direzione della pace mondiale.

2. La risposta di Freud

In apertura della sua densa e complessa lettera di risposta Freud si dichiara interessato al dibattito ma sorpreso dalla domanda che gli è stata rivolta.  

Lei mi ha pertanto sorpreso con la domanda su che cosa si possa fare per tenere lontana dagli uomini la fatalità della guerra. Sono stato spaventato per prima cosa dall’impressione della mia - starei quasi per dire: della nostra - incompetenza, poiché questo mi sembrava un compito pratico che spetta risolvere agli uomini di Stato. Ma ho compreso poi che Lei ha sollevato la domanda non come ricercatore naturale e come fisico bensì come amico dell’umanità, che aveva seguito gli incitamenti della Società delle Nazioni

All’interrogativo Freud fornisce inizialmente una risposta di carattere storico e sociale piuttosto che di “esperto nella conoscenza degli istinti umani”, come richiestogli. La sua risposta ha infatti come punto di partenza il rapporto tra diritto e forza già introdotto da Einstein con l’affermazione:

Vi è qui una realtà da cui non possiamo prescindere: diritto e forza sono inscindibili, e le decisioni del diritto s’avvicinano alla giustizia, cui aspira quella comunità nel cui nome e interesse vengono pronunciate le sentenze, solo nella misura in cui tale comunità ha il potere effettivo di imporre il rispetto del proprio ideale legalitario.

Freud, pur concordando sul punto di partenza della discussione, propone una significativa modifica del binomio diritto-forza. Afferma infatti:

Lei comincia con il rapporto tra diritto e forza. È certamente il punto di partenza giusto per la nostra indagine. Posso sostituire la parola “forza” con la parola più incisiva e più dura “violenza”? Diritto e violenza sono per noi oggi termini opposti. È facile mostrare che l’uno si è sviluppato dall’altro […] I conflitti d’interesse tra gli uomini sono dunque in linea di principio decisi mediante l’uso della violenza. Ciò avviene in tutto il regno animale, di cui l’uomo fa inequivocabilmente parte; per gli uomini si aggiungono, a dire il vero, anche i conflitti di opinione ….

A conferma della tesi di Einstein, Freud ripercorre i passaggi che portano dalla violenza originaria alla affermazione del diritto che rappresenta quella che egli definisce “la potenza di una comunità” la quale, per restare tale deve fondarsi su una unione stabile tra i suoi componenti. Uno stato di pace durevole è però pensabile solo teoricamente perché nella realtà, all’interno delle comunità, si creano rapporti di forza ineguali ai quali il diritto, come affermazione della classe dominante, si conforma. Ne conseguono conflitti che sfociano in forme di violenza. La storia dell’umanità fornisce testimonianze continue di conflitti decisi mediante la prova di forza della guerra.

Sembra dunque, conclude Freud che:

…il tentativo di sostituire la forza reale con la forza delle idee sia per il momento votato all’insuccesso. È un errore di calcolo non considerare il fatto che il diritto originariamente era violenza bruta e che esso ancor oggi non può fare a meno di ricorrere alla violenza.

Nel ripercorrere sistematicamente le questioni poste dal suo interlocutore, Freud si mostra pienamente concorde anche riguardo all’ affermazione relativa alla possibilità con cui “sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra” a causa della presenza insita negli esseri umani di una pulsione all’odio e alla distruzione che li predispone ad accogliere tali istigazioni. Sostiene infatti:

Di nuovo non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale istinto e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni. Mi consente, in proposito, di esporLe parte della teoria delle pulsioni cui siamo giunti nella psicoanalisi dopo molti passi falsi e molte esitazioni?

Procedendo nel suo ragionamento Freud ritiene che non ci sia speranza di poter abolire l’aggressività umana. Si potrebbe, però, se non abolirla del tutto, cercare di arginarla e deviarla, impedendo che trovi espressione nella guerra. È nella polarità tra pulsione di vita e pulsione di morte, tra Eros e Thanatos, le due forze opposte ma complementari che operano nell’agire umano, che Freud cerca una risposta, analizzando i legami emotivi tra gli uomini. Il primo tipo di legame si basa sulla forza di Eros e sulla sua capacità di unione, il secondo sulla capacità di identificazione, un termine che in psicoanalisi indica quel processo con cui un soggetto assimila uno o più tratti di un altro individuo modellandosi su di esso. Sostiene a questo proposito:

Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due tipi. In primo luogo relazioni che pur essendo prive di meta sessuale assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: “ama il prossimo tuo come te stesso”. Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L’altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana.

La sua conclusione è però amara in quanto ritiene che con ogni probabilità questa sia una speranza utopistica dal momento che, per realizzarla, la comunità umana dovrebbe assoggettare “la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione”. Nient’altro infatti, potrebbe produrre un’unione tra gli uomini così perfetta e così tenace, perfino in assenza di reciproci legami emotivi. Non esclude comunque che possano esserci altre vie per impedire indirettamente la guerra, ma non tali da promettere alcun rapido successo. 

Affronta poi un altro problema sollevato da Einstein: Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, perché non la prendiamo come una delle molte e penose calamità della vita? Il tema lo interessa in modo particolare, come dimostra la densa e articolata argomentazione in risposta, in quanto può tornare su una questione già oggetto di riflessione. Nella lezione sul tema “Una concezione del mondo” [2] aveva infatti sostenuto: La nostra più viva speranza per il futuro è che l'intelletto (lo spirito scientifico, la ragione) col tempo ottenga una preminenza dittatoriale sulla vita psichica dell'uomo. Una affermazione che sembrerebbe quasi evidenziare la necessità e l’importanza del pensiero critico per lo sviluppo della consapevolezza umana.

Di fronte alla catastrofe del primo Novecento e agli eventi in corso che lasciavano presagire tempi altrettanto bui - ascesa e affermazione del regime nazista in Germania, crollo dell’economia e crisi del capitalismo, instabilità politica - Freud fa appello alla dittatura della ragione chiamata a gestire la vita pulsionale.  Si tratterebbe pertanto di una speranza, e non di una certezza, che gli deriva dalle perplessità circa gli sviluppi in atto del processo dell'incivilimento o civilizzazione, secondo una definizione verso cui mostra una nota di polemica. Afferma Freud:

La risposta è: perché ogni uomo ha diritto alla propria vita, perché la guerra annienta vite umane piene di promesse, pone i singoli individui in condizioni che li disonorano, li costringe, contro la propria volontà, a uccidere altri individui, distrugge preziosi valori materiali, prodotto del lavoro umano, e altre cose ancora. Inoltre la guerra nella sua forma attuale non dà più alcuna opportunità di attuare l’antico ideale eroico, e la guerra di domani, a causa del perfezionamento dei mezzi di distruzione, significherebbe lo sterminio di uno o forse di entrambi i contendenti. Tutto ciò è vero e sembra così incontestabile che ci meravigliamo soltanto che il ricorso alla guerra non sia stato ancora ripudiato mediante un accordo generale dell’umanità. 

La guerra è percepita da Freud come un evento intollerabile e contro di essa non si può non indignarsi e opporre un netto rifiuto in quanto contraddirebbe tutto ciò che il processo civile ha imposto all’umanità. Essere pacifisti implicherebbe dunque continuare a credere e promuovere l’evoluzione civile, come unico possibile contrasto alla guerra. Questi alcuni passaggi importanti sul rifiuto della guerra e sulle ragioni del pacifismo nella sua risposta ad Einstein:

Ho in mente qualcos’altro, credo che la ragione principale per cui ci indigniamo contro la guerra è che non possiamo fare a meno di farlo. Siamo pacifisti perché dobbiamo esserlo per ragioni organiche …]. Ecco quello che voglio dire: Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo ad esso il meglio di ciò che siamo divenuti e buona parte di ciò di cui soffriamo. […]
Dei caratteri psicologici della civiltà, due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che ne conseguono. Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo civile, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa… […]
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è una speranza utopistica che l’influsso di due fattori - un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura - ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dirci: tutto ciò che promuove l’evoluzione civile lavora anche contro la guerra.

3, Il tema della guerra in altri scritti di Freud

Del problema della guerra, e dei suoi effetti sull’agire e sul sentire umano Freud si era occupato in diversi scritti precedenti. Dopo un fugace entusiasmo patriottico alla notizia dello scoppio della prima guerra mondiale, trova spazio in lui  una riflessione dolorosa espressa in numerosi scritti, tra i quali  Considerazioni attuali sulla guerra e la morte del 1915, che comprende i saggi La delusione della guerra e Il nostro modo di considerare la morte e lo scritto Caducità, sempre del 1915 [3]E su questo tema torna ancora dopo anni su sollecitazione di Einstein nel 1932, in un periodo molto critico che preannunciava già il tragico scoppio di una seconda guerra mondiale. Scrive Freud con tono sgomento e dolente in La delusione della guerra:

La guerra a cui non volevamo credere è scoppiata, e ci ha portato... la delusione. Non soltanto è più sanguinosa e rovinosa di ogni guerra del passato, e ciò a causa dei tremendi perfezionamenti portati alle armi di offesa e di difesa, ma è anche perlomeno tanto crudele, accanita e spietata quanto tutte le guerre che l’hanno preceduta. Essa infrange tutte le barriere riconosciute in tempo di pace e costituenti quello che è stato chiamato il diritto delle genti […] Abbatte quanto trova sulla sua strada con una rabbia cieca, come se dopo di essa non dovessero più esservi avvenire e pace fra gli uomini. Spezza tutti i legami di solidarietà che possono ancora sussistere fra i popoli in lotta e minaccia di lasciar dietro di sé un rancore tale da rendere impossibile per molti anni una loro ricostituzione. […] Due fatti hanno suscitato in questa guerra la nostra delusione: la scarsa moralità verso l’esterno di quegli Stati che all’interno si erigono a custodi delle norme morali, e la brutalità del comportamento di quei singoli individui che, in quanto membri della più progredita civiltà umana, non ci saremmo aspettati capaci di tanto.

Non meno decise le parole pronunciate contro gli Stati che in epoca di guerra rendono lecite ingiustizie e violenze che disonorerebbero i singoli cittadini imponendo loro di accettare e porre in atto tutto ciò in nome del patriottismo. Sostiene Freud in proposito:

Lo Stato scioglie ogni convenzione e trattato stipulato con altri Stati, e non teme di confessare la propria rapacità e volontà di potenza: e il cittadino è tenuto ad approvare tutto ciò in nome del patriottismo. Né ci si venga a obiettare che lo Stato non può rinunciare all’uso dell’ingiustizia per non trovarsi in condizioni di svantaggio.

 

Note

[1]  I testi in traduzione italiana delle due lettere sono reperibili all’indirizzo internet: https://www.iisf.it/discorsi/einstein/carteggio.htm 
[2]  Cfr. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni) (1932), in OSF, vol. 11, lezione 35, pp.186-7

[3]  

 

Di che cosa parliamo

 

(ri)dare forza a parole già dette. La narrativa italiana e straniera cui riferirsi per parlare di scuola è affollata di esempi tuttora letti  rispetto ad altri a torto dimenticati. Lo spazio della mia I/stanza non vuole essere una retrospettiva e neppure una trincea nostalgica, ma intendo parlare di scuola e di educazione attraverso la (ri)lettura di pagine (di letteratura e non) a partire dalle riflessioni o dalle emozioni già “fissate” in un testo, per cercarvi corrispondenze, risposte, stimoli, suggestioni e altro ancora rispetto agli interrogativi sull’educazione e la società di oggi. Pagine godibili, ancora capaci di generare un rapporto empatico con il lettore, ora come semplici elementi di “cornice”, ora perché essenziali allo sviluppo di una narrazione.

L'autrice


Come insegnante nei licei, si è occupata di didattica del latino e dell’italiano. In molte attività di formazione ha collaborato a lungo con Università, Istituti  di ricerca, Associazioni di insegnanti, scuole e reti di scuole. Ha svolto attività di  ricerca presso l’INVALSI coordinando progetti in ambito nazionale e internazionale sulla valutazione degli apprendimenti e sulle competenza di lettura e scrittura.  È autrice di numerosi articoli e saggi su riviste specializzate;  di monografie, di testi scolastici e di ricerca didattica nell’editoria diffusa; di rapporti di ricerca.