Il metodo, anzitutto. Anche se il ministro sembra ignorarlo e punta tutto sui contenuti, ancora una volta ci tocca ricordargli che il metodo è tutto. In questo caso, il metodo della comunicazione prescelto assume i tratti di un atto politico. Infatti, per dare alcune anticipazioni sulla cosiddetta riforma della scuola a cominciare dal primo ciclo, con qualche breve incursione sul secondo, ha scelto di rilasciare un’intervista sul quotidiano Il Giornale. Questo proprio contestualmente alla presentazione in Consiglio dei ministri di un decreto-legge: testo di cui non si ha traccia, neanche in quelle versioni ufficiose che in altre circostanze erano circolate.
Questo contributo, perciò, non consisterà nell’analisi, doverosamente puntuale, di un provvedimento al momento indisponibile: ciò detta i suoi limiti ma apre comunque a possibilità rilevanti di riflessione. Lo stile e il registro comunicativo sono già in sé stessi eloquenti, coerenti – va detto – con un Esecutivo che privilegia, nella maggior parte dei suoi esponenti, l’annuncio all’azione, confondendo spesso i due piani, al punto che in certi casi l’annuncio finisce per stare al posto dell’azione: circostanza abbastanza stravagante per un Esecutivo, che non è esattamente un Ufficio studi. Questa modalità non è solo un espediente, quando non un’arma di distrazione: rischia anche di essere un tranello nel quale è bene non cadere. Si finisce con il rincorrere gli annunci piuttosto che verificare il grado di avvera mento e di passaggio all’atto, come è dovere di chi segue per l’informazione queste vicende e diritto dei cittadin* di questo Paese.
In questo caso l’annuncio semplicemente anticipa la diffusione del testo, e non è poco…Ma resta significativa la scelta del mezzo, al punto da farci pensare , con Marshall McLuhan, che “il mezzo è il messaggio”. La forma dell’intervista, infatti, consente di spaziare negli argomenti, senza l’impaccio dello schema burocratico di un decreto legge, e i vincoli di un linguaggio giuridico-amministrativo in cui sono vietati punti esclamativi e toni enfatici, voli pindarici e ben calibrati accenni. E’, insomma, un veicolo formidabile di propaganda.
In questa cornice non propriamente confacente ad una riforma istituzionale, alcuni tratti del disegno tuttavia emergono ed alcune considerazioni fondate si possono fare. La prima, al modo di una premessa per chi legge, si può formulare così: se qualcuno si aspettava le “nuove” Indicazioni nazionali, sarà deluso. In questa primizia offerta dal ministro, non ce n’è traccia. Altrimenti detto, forse sono così “nuove” da non ricordare in nulla le edizioni precedenti (2007 – 2012 – 2018). Mentre ci sono, per la soddisfazione di chi li ha a lungo rimpianti, i Programmi di vecchio conio: quelli, per intenderci, che non si vedevano nella scuola del Primo ciclo dagli anni Sessanta del secolo scorso. Quelli della lista di argomenti e contenuti, al più rafforzati da qualche affondo esortativo-moralistico. Quelli che giustificavano la fatidica domanda: a che punto sei del programma? Una domanda che, va riconosciuto, non ha mai del tutto abbandonato l’immaginario scolastico, come uno spettro che si aggira. E’ la stessa domanda che è servita come alibi per le operazioni più controverse, come la bocciatura di quei soggetti che devono essere fermati perché altrimenti il programma non va avanti.
Ministro Valditara, esimi componenti della commissione che ha elaborato il progetto di riforma, la notizia è banale ma dirimente: i Programmi non esistono più, in quella forma ed accezione, dagli anni Settanta! E’ stato un processo graduale, non esente da rischi di regressione culturale, ma inarrestabile, per il motivo decisivo che la scuola e l’educazione hanno a che fare con la crescita, umana e culturale, dei soggetti e in definitiva con quel fenomeno che chiamiamo vita. I “programmi” hanno cominciato a vacillare con la L. 517/77, quando sono diventati materia della programmazione educativo-didattica, acquistando in duttilità e capacità di risposta ai bisogni dei diversi contesti da parte della scuola e degli insegnanti. Sono nel tempo cresciuti in termini di rigore psicopedagogico e in capacità di perseguire realmente gli obiettivi di una scuola inclusiva, assumendo la forma e la metodologia della progettazione curricolare, che ha profondamente inciso sulle pratiche e le premesse “teoriche”del fare scuola quotidiano, fino a toccare i territori dei testi istituzionali dagli anni Novanta. Le Indicazioni nazionali nella prima versione risalgono al 2007 e rappresentano un primo approdo metodologico-didattico che ha superato l’idea di una scuola di contenuti separati dai percorsi di apprendimento. Il frutto maturo, per quanto sempre rivedibile, di questo lungo processo politico-culturale sono state le Indicazioni nazionali per il curricolo del 2012, aggiornate su una linea di coerenza e di sviluppo nella versione del 2018.
Ora io non so, ad oggi, quale contenuto avrà il testo del decreto legge approvato in consiglio dei ministri, in attesa della firma del presidente della Repubblica e della successiva discussione parlamentare per la conversione in legge. Mi sembra però di poter dire, dalle anticipazioni del ministro pubblicate nell’intervista, che la riforma agisce guardando in modo prioritario, se non esclusivo, ai contenuti. E questo è il primo dato di discontinuità (dal mio punto di vista, di regressione) rispetto alle Indicazioni nazionali. Prima ancora di ragionare criticamente su quali contenuti, bisogna ragionare sul fatto che di contenuti si tratti: questo basta a considerare il carattere regressivo dell’operazione e gli effetti devastanti che potrà avere sulla scuola, l’istruzione educante, la qualità dei processi di insegnamento e della crescita in termini di apprendimento.
Non è dunque una posizione pregiudiziale, formulata in assenza dell’analisi del provvedimento, sostenere che la riforma così annunciata, e perfino sbandierata, in realtà prefigura lo smantellamento non solo di una storia istituzionale che ha prodotto i suoi effetti, ma di un patrimonio di pratiche, elaborazioni, esperienze che ha attraversato, in modo evolutivo, decenni di generazioni di studenti e di insegnanti. Le norme, e gli assetti cui esse danno luogo, sono prodotti storici, lo sappiamo bene: questo significa che non devono essere cristallizzati e tanto meno assolutizzati. Significa anche che non vivono, per così dire, di vita propria, ma di quella vita che sanno dar loro, nel cambiamento, i soggetti che sono coinvolti a vario titolo nel grande fenomeno culturale e sociale che chiamiamo educazione, di cui la scuola è figura istituzionale. Personalmente, credo perciò che ogni atteggiamento di conservazione dell’esistente tradisca il senso profondo dell’educazione e della scuola. Non di meno, sono essenzialmente due i rischi che vedo per chi ha la responsabilità di governare i processi educativi, sotto il profilo dell’istituzione e della cultura. Il primo, quello di perseguire per fini propagandistici, di mero consenso, una politica che in altre occasioni ho definito del punto a capo. L’idea di lasciare una traccia di sé come fosse un monumento aere perennius ha fatto danni rilevanti, se non irreparabili, nelle diverse stagioni politiche che abbiamo alle spalle. Questo anche nelle migliori intenzioni, e con un approccio di riforma illuminata da realizzare. Si sono susseguite riforme annunciate, minacciate, abbozzate e talvolta (malauguratamente) attuate: tutto sul corpo fragile della scuola e sui processi delicati della conoscenza.
Il secondo rischio, non meno esiziale, è una sottospecie della politica del "punto a capo": lo definirei il rischio della restaurazione modernista. Quello animato da un sentimento di rivincita perdente. Perché dico “perdente”? Perché in educazione il ritorno al passato è niente di più e niente di meno che una contraddizione in termini.
Intendiamoci, può sortire effetti sul piano dei fatti; riportare indietro gli orologi della storia verso un passato che, come succede sempre, è un artefatto degli interessi momentanei e circoscritti del presente. Ma non può impedire a chi cresce di crescere…e, si sa, il futuro non appartiene ai malati di nostalgia.
Ecco, a me sembra che l’innovazione preannunciata con una buona dose di enfasi nell’intervista del ministro appartenga proprio al genere che ho brevemente descritto della “restaurazione modernista” e tradisca un intento di “rivincita perdente”. Se è il miglioramento del sistema-scuola che si vuole perseguire (intento nobile, obiettivo addirittura necessario) diciamo che gli elementi dell’operazione evidenziati mancano il bersaglio, per difetto di vista e di prospettiva: questo ministero, governato da questa compagine politica, è come un Giano bifronte che però guarda un solo lato: guarda al passato, pensando di potere, da quella postazione, puntare al futuro. Operazione evidentemente impossibile.
Chi si aspettasse un riferimento puntuale a taluni passaggi o accenni contenuti nell’intervista, su cui peraltro già ci sono stati diversi contributi sui mezzi di stampa e sui social, non lo troverà. Basti, in questa sede, fare un’osservazione che vuole aprire più che chiudere un confronto: l’operazione politico-culturale a me sembra, nella sostanza, quella che ho descritto, seppure con la dovuta sinteticità. Tutto il resto ne consegue: i contenuti preannunciati; il “ritorno” del latino in grande spolvero, come emblema dell’immagine di scuola e di società che si vuole veicolare; l’insistenza sugli aspetti “identitari” sotto diverse forme, che ritorna in più punti; il richiamo alle “regole” che investe perfino, con effetti quasi di umorismo involontario, lo studio della grammatica, e molto altro che lascio alla vostra voglia di proseguire l’elenco...
L’intervista al ministro si chiude, nella parte conclusiva, con un auspicio: il ritorno alla “scuola seria”. Cavallo di battaglia dai tempi della Gelmini. Come se finora la scuola sia stata preda di pericolosi sovversivi o non meno pericolosi buontemponi…Mi viene da chiosare, a questo proposito, con un famoso detto del grande Ennio Flaiano: “la situazione è tragica, ma non è seria”.