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di Simonetta Fasoliscuola, tra il dire e il fare

21/01/2023

Scuola media: una biografia, un impegno

Ricorre in questo anno il 60° della Scuola media unica e varie iniziative che già si profilano. E’ un’occasione preziosa per dare un contributo anche in questa sede, con l’intenzione dichiarata di sottrarsi ad intenti celebrativi o a posizionamenti contrapposti, fra detrattori e sostenitori.
Tra le alternative che sembrano essere messe in campo, “superare” o “rifondare”, sceglierei la terza via: “ri-comprendere”: operazione che, come sempre, richiede un riandare alle origini. Cominciando da una buona domanda, come quella che troviamo  in questo passo:

Dov’è, da noi, la scuola per il ragazzo comune […]? Il ragazzo comune non ha la sua scuola perché lo Stato continua a offrirgli (e i privati non possono che seguirlo, in genere peggiorando i suoi modelli) una scuola che andava bene per la classe signorile, ed un’altra che si credette opportuno istituire per i figli della classe lavoratrice. Nella misura in cui la nostra società si differenzia, nella sua realtà e nei suoi ideali, da questo schema, la nostra scuola lavora nel vuoto.” [1].

La data è significativa, 1956: sulla spinta di un serrato confronto politico-culturale sul finire degli Anni Cinquanta, si susseguono iniziative, parlamentari e governative, con l’obiettivo di dare uno sbocco legislativo al dibattito sulla nuova Scuola media che deve nascere dal superamento dell’impianto gentiliano. La didattica trasmissiva è largamente praticata nell’istruzione post-elementare, nella quale il doppio canale tra la scuola media di tipo ginnasiale e l’avviamento professionale divarica per sempre gli strumenti di conoscenza, l’approccio teorico e quello pratico, legittimando la subalternità del secondo al primo: una dicotomia destinata ad avere una lunga, e non ancora superata, influenza sull’intero sistema di istruzione e formazione.
Queste considerazioni possono rendere l’idea dello scarto rappresentato dalla  riforma della Scuola media (Legge n. 1859, 31 dicembre 1962) pur negli aspetti di compromesso politico che configura.
La nuova Scuola media ha segnato il superamento definitivo del doppio canale che, a dieci anni (!), separava precocemente percorsi formativi e, soprattutto, destini sociali, fungendo da meccanismo di sanzione di differenze piuttosto che da fattore di emancipazione sociale: la scuola della Costituzione è ora più vicina, anche se non ancora pienamente attuata. Tuttavia, restano, e pesano, i segnali della soluzione di compromesso. Infatti, il Piano di studi previsto dalla norma (art. 2) distingue tra insegnamenti obbligatori e insegnamenti facoltativo/opzionali. E sull’opzionalità si gioca una partita decisiva. Le discipline denominate Applicazioni tecniche (maschili e femminili) ed Educazione musicale diventano facoltative nelle seconde e terze classi, mentre il Latino è facoltativo nelle terze, dopo essere introdotto nella seconda come integrazione dello studio della lingua italiana. Insomma 
la nuova Scuola media, formalmente unica, porta al suo interno il germe della separazione” [2] attraverso il dispositivo delle opzioni: ogni alunno, scegliendo in un contesto di condizionamenti, predetermina di fatto il proprio percorso successivo.

Nella mia esperienza diretta di insegnamento, ho potuto vedere rappresentata, quasi plasticamente, la reale natura di quella Scuola media, ancora ai primi Anni Settanta. Poche immagini sono più eloquenti di una classe che, ad un certo orario (insegnamento di lettere) si scinde, fisicamente: una parte resta per partecipare all’ora di latino, un’altra lascia l’aula e va altrove per svolgere l’ora di applicazioni tecniche.
Un segnale altrettanto netto di una scuola inadeguata a rispondere alle istanze di de-condizionamento socio-culturale è il costante aumento delle classi differenziali istituite dalla norma, che passano dalle 123 del ‘65/’66 alle 870 del ‘70/’71, con prevalenza nelle periferie urbane e nelle aree a forte immigrazione interna, dove più presente è il disagio sociale. Sembra evidente che la Scuola media unica, conservando il retaggio di un’idea sostanzialmente elitaria di istruzione, faccia davvero fatica a realizzare il dettato costituzionale.
Negli anni successivi alla sua istituzione, anche per effetto delle profonde trasformazioni sociali che investono il Paese, si sviluppa una riflessione, teorica ma anche militante, attorno alla sua funzione sociale, alla sua natura e agli assi pedagogico-culturali che la devono caratterizzare. Questi germi di fermento hanno attraversato l’intera istruzione di base, contribuendo a mettere in discussione modelli pedagogici e didattici che, in particolare nella Scuola media, ne mostrano i limiti e le contraddizioni.

Tra gli Anni Sessanta e Settanta, si comincia a porre attenzione a quell’attore essenziale di ogni riforma, della sua riuscita come del suo fallimento, che è il docente: come singolo, ma anche come realtà collettiva, culturale e sociologica. Ha avuto una grande risonanza, in proposito, un testo che, raccogliendo i risultati di varie ricerche sul campo effettuate dall’istituto Cattaneo, mette a tema la forte resistenza manifestata da un gran numero di insegnanti di fronte alla Scuola media riformata. [3]
Dovranno, tuttavia, passare quindici anni dalla legge istitutiva perché si possa dire compiuto il percorso verso la piena identità e verso un coerente assetto pedagogico-didattico: con la Legge 16 giugno 1977, n. 348, è abolita la distinzione tra materie facoltative e obbligatorie (scompare l’insegnamento del latino) e viene dunque riconosciuta la pari dignità formativa di tutti gli insegnamenti.
E’ dello stesso anno un’altra norma che possiamo considerare una vera e propria chiave di volta nell’evoluzione del sistema di istruzione: la Legge 4 agosto 1977, n. 517. Essa investe l’intero arco della Scuola di base, coincidente, al tempo, con la fascia dell’obbligo: si pongono così i presupposti per perseguire una reale continuità educativa tra i due segmenti formativi, almeno sul piano dei dispositivi pedagogici, se non ancora dei quadri ordinamentali. Soprattutto, con la 517 vengono previsti dispositivi orientati al principio del sostegno all’integrazione scolastica, con le relative risorse professionali e il concorso delle istituzioni amministrative e sociosanitarie sul territorio. Possiamo ben dire che sono poste le basi per quella che oggi definiamo una scuola inclusiva: in termini di cultura pedagogica, quella separatezza, che abbiamo ritrovato negli assetti precedenti, come risposta ad una popolazione scolastica sotto diversi profili fragile e difforme da un’astratta normatività, deve cedere all’opposto criterio dell’integrazione.

Nei provvedimenti del 1977, in coerenza con il principio di una scuola davvero “aperta a tutti”, come detta la Costituzione, e con il superamento di qualsiasi gestione delle diversità attraverso percorsi strutturalmente separati, vengono eliminate le classi d’aggiornamento e le classi differenziali. Per realizzare un’integrazione scolastica effettiva, è allora la didattica, intesa come scelte metodologiche, strumenti, spazi/tempi educativi, la risorsa prioritaria, se non l’unica, riconosciuta. Viene dato seguito alla preziosa indicazione di metodo che troviamo già tra gli elementi qualificanti nel Documento sui temi della disabilità elaborato dalla Commissione Falcucci nel 1975.
Manca, al perfezionamento del processo, un “contenuto” culturale e pedagogico adeguato al “contenitore”; mancano le indicazioni programmatiche del resto anticipate già nella L. 348/77 che rinviava per esse ad una successiva decretazione. Arriviamo così al D.M. 9 febbraio 1979, (Programmi, orari di insegnamento e prove di esame per la scuola media statale) poi indicati comunemente come “Nuovi programmi”. Sto leggendo in contributi recenti giudizi sommari su questo testo, probabilmente dovuti ad una lettura non adeguatamente approfondita. Si tratta invece, a mio parere, di un documento di grande spessore pedagogico: basta analizzare la Premessa generale per rendersi conto di come esso mantenga ancor oggi elementi di sorprendente attualità. E’ anzitutto significativo il fatto che l’art. 1 richiami nello stesso titolo Il dettato costituzionale, riportando testualmente gli articoli 34 e 3. Su questo passaggio, l’articolato del Decreto è di grande rilievo: infatti, vi si afferma che "al raggiungimento di queste finalità è diretta e ordinata la scuola media nella sua impostazione educativa e didattica, nelle sue strutture, nei suoi contenuti programmatici".

Dunque, la finalità della Scuola media va ben oltre i limiti di un’alfabetizzazione funzionale: nel sistema scolastico, il triennio post-elementare acquista una propria specificità pedagogica sia rispetto all’istruzione primaria, sia rispetto alla successiva istruzione secondaria, poiché può vantare un preciso profilo istituzionale e culturale. All’art. 3  (Principi e fini generali della scuola media) la norma definisce gli assi culturali e i criteri pedagogici che ne costituiscono il riferimento e la cornice. Siamo, infatti, alla “Scuola della formazione dell’uomo e del cittadino”, alla “Scuola che colloca nel mondo”. Si afferma come “Scuola orientativa”, nel significato più pieno del termine, che va oltre la mera funzione di informazione e di accompagnamento nei percorsi successivi, in quanto promuove “la possibilità di operare scelte realistiche nell’immediato e nel futuro”, che “deriva dal consolidamento di una capacità decisionale che si fonda su una verificata conoscenza di sé”. Dunque, la Scuola media è orientativa in quanto strutturalmente orientante: in altri termini, il tessuto disciplinare concorre a promuovere "conoscenza di sé e del mondo", in un processo unitario. Qui troviamo il fondamento della cosiddetta “dimensione formativa delle discipline”, spesso evocata ma non altrettanto argomentata: in questa prospettiva, ogni disciplina racconta la realtà al modo del suo linguaggio, del suo metodo di ricerca e della sua sintassi epistemologica. Le Indicazioni nazionali del Primo Ciclo, nelle diverse edizioni (2007, 2012 e 2018), hanno declinato questa impostazione, ma non l’hanno superata: lo tengano presente coloro che tendono a considerare tutto ciò che è antecedente alle Indicazioni come un materiale obsoleto.
Valga per tutte, emblematicamente, la significativa dicitura che titola la Parte IV dei "Nuovi programmi" del 1979, Le discipline come educazione - metodologie dell’apprendimento: si profila una concezione delle discipline, non più intese come corpi separati di conoscenze, che trova conferma nell’articolo 2, il quale riporta nel suo titolo Le articolazioni di un’educazione unitaria.
All’interno della salda collocazione nel Primo ciclo, vale la pena sottolineare il carattere di secondarietà della Scuola media, su cui si gioca, a mio parere, una parte essenziale della sua identità, al di fuori di certi furori identitari del tutto fuori luogo, che non aiutano il dialogo professionale con gli insegnanti dei segmenti precedenti e successivi. L’articolo 3, infatti, da un lato riafferma la sua collocazione “all’interno del processo unitario di sviluppo della formazione”, il che esclude qualunque cesura pedagogica nei passaggi da un segmento all’altro, dall’altro chiarisce in modo inequivocabile che “non è finalizzata all’accesso alla scuola secondaria di secondo grado pur costituendo il presupposto indispensabile per ogni ulteriore impegno scolastico”.

Leggo in alcuni interventi ora diffusi nell’occasione del 60° che non sarebbe più valida la formula della Scuola media come “terra di mezzo”, essendosi spostato in avanti il termine dell’obbligo di istruzione. Questo è certamente vero dal punto di vista ordinamentale, ma non lo è, a mio avviso, se si guarda alla sostanza pedagogica.  Così come terra di passaggio è l’età dei preadolescenti, è ancora sostenibile la funzione di mediazione della Scuola che li ospita: tenere insieme l’unitarietà dei processi educativi con la specificità degli strumenti di conoscenza e di rielaborazione costituiti dai depositi culturali di saperi e discipline; valorizzare la professionalità dei docenti che sono impegnati sul terreno impervio delle turbolenze adolescenziali, tra le istanze di una formazione alla cittadinanza e il compito di favorire la padronanza di codici simbolici sempre più complessi.
Il lungo e accidentato percorso della Scuola media, come si è visto da questa sintetica ricognizione, ha impiegato oltre venti anni per avvicinarsi il più possibile ai suoi principi ispiratori e alle prefigurazioni di tanti “visionari” che hanno immaginato possibile un’altra scuola, finalmente emancipata dall’impronta classista ed elitaria tipicamente gentiliana. Quasi altrettanto sta durando un processo che, rispetto a quelle istanze, è per molti versi involutivo. Per questo non è tempo di affrettati “necrologi”, come alcuni in corso nella circostanza del suo 60°. La scuola, in generale, non è quel pachiderma burocratico a cui si vorrebbe ridurla: è un corpo vivo, fragile come tutti i viventi, soggetto alla crescita ma anche al rischio di regressione, e perciò bisognoso di attenzione, di atti ponderati e concreti di cura.
Come ogni ricostruzione che prenda le mosse da uno sguardo al passato, anche questo contributo intende partire dalla storia per trarne motivi di impegno attivo volto al presente e al futuro: senza cedere a sterili nostalgie e senza legittimare i solerti “liquidatori fallimentari”, i fautori del “punto e a capo”.

 

Note

[1] Il Mulino, Bologna, a. VI, n. 12, genn.-febbr. 1956
[2] Alberto Alberti, La scuola della Repubblica, ed. Anicia, 2015
 [3] Marzio Barbagli - Marcello Dei, “Le Vestali della classe media. Ricerca sociologica sugli insegnanti”, Il Mulino, 1969

Di che cosa parliamo

Contrappunti sulla scuola. Molti dei paradossi della scuola, e attorno alla scuola, nascono dalle separatezze: tra la scuola che si fa e quella di cui si parla; tra i grandi disegni riformatori e l’aleatorietà degli esiti; tra visioni e pratiche...

Si potrebbe continuare. Qui preme sottolineare che una via per rendere compatibili, o addirittura comporre, i diversi piani può essere quella di mettere in luce di volta in volta le dimensioni prioritariamente in gioco: la cornice  istituzionale, le pedagogie sottese o esplicite, l’intenzionalità educativa che si traduce in scelte didattiche, l’orizzonte culturale che dà senso al tutto.

E’ ciò che si propone questo spazio di confronto e riflessione, accettando la sfida di distinguere per meglio analizzare questioni e fenomeni, e al tempo stesso di fare sintesi per comprenderli compiutamente.

L’autrice
 

E’ stata insegnante di materie letterarie nella Scuola secondaria, per circa venti anni, con esperienza prevalente nella Scuola media; dirigente scolastica per i successivi  venti anni nella scuola di base (Scuola media e Istituti comprensivi). Negli anni più recenti (2017/2022) ha svolto attività di insegnamento, in qualità di docente a contratto, nel Corso di Scienze dell’educazione e della formazione presso l’Università la Sapienza. Attiva da lungo tempo nell’associazionismo professionale, è impegnata in particolare in percorsi di ricerca e formazione, rivolti  alle diverse professionalità della scuola sui vari temi attinenti al sistema educativo di istruzione.