“Chiudere è stato un atto di responsabilità del governo (…) Bisogna essere ancorati alla realtà: le scuole del primo ciclo le abbiamo tenute aperte fino allo stremo, anzi le scuole non hanno mai chiuso".
Con queste parole il Ministro Bianchi ha difeso con semplicità la decisione presa non a cuor leggero di rinunciare alla scuola in presenza anche per i piccoli in larga parte del Paese.
Le sue affermazioni, però, non rispecchiano il Paese: in Campania le scuole sono state tenute “chiuse” fino allo stremo, non “aperte”: anzi hanno rivisto tutti gli allievi da vicino per alcune settimane tra dicembre e febbraio - a seguito di sentenze del TAR- ed ora, come in tutta Italia, accolgono in percorsi di inclusione gruppi di bambini con disabilità e bes, per realizzare quella che gli operatori sociali definirebbero “riduzione del danno”. Riduzione, ma non risoluzione: gentile direttore, chi scrive osserva dall'esterno processi che i bravissimi docenti e dirigenti della scuola napoletana vivono da vicino e su cui tutti dovremo trovare strumentazioni e risposte nuove.
La chiusura delle scuole in Campania, rivendicata con protervia quando non era necessario, ha dato linfa ad aspetti deteriori della cultura della nostra terra con cui dovremo fare i conti: non solo la disuguaglianza di opportunità tra i nostri studenti e il resto del Paese; non solo la disaffezione allo studio generalizzata da parte di bambini e adolescenti di tutte le condizioni; non solo, nonostante gli sforzi dei docenti e il lavoro incessante condotto al loro fianco dalle reti del privato sociale, l'abbandono di tanti ragazzi in condizione di maggior fragilità; non solo indici di inadempienza che non si erano mai visti prima - in certi quartieri triplicate le segnalazioni al servizio sociale-, non solo centinaia di richieste di “istruzione parentale”.
Non solo; la chiusura della scuola in presenza ha fatto riemergere aspetti di quel familismo deteriore che purtroppo costituisce nel meridione una piaga contro cui la scuola pubblica ha da sempre combattuto: ha rigettato bambini e ragazzi tra le sue braccia. Il disvalore assegnato all'istituzione pubblica, la sottovalutazione dell'istruzione come diritto del minore, essenziale al suo benessere e al progetto di vita, la scarsa attenzione ai bisogni del bambino come “persona”, che comportava talora, in certi quartieri, la necessità di “convincere” le famiglie alla frequenza al nido o alla scuola d'infanzia; l'affidamento a reti familiari in cui la paura (che spinge a tenere lontani i figli dalle classi) non va di pari passo con la consapevolezza del danno culturale e umano che si verifica se non gli si sta accanto, ai figli. Ha ragione Recalcati a dire che i ragazzi hanno straordinari mezzi di resilienza per venire fuori dalla perdita subita, ma la società che li circonda ce li ha? Molti sembrano rassegnati all'ineluttabile. Non è possibile colpevolizzare nessuno di fronte a tale rassegnazione, tanto meno le madri che in certi contesti ogni mattina faticosamente, col corredo dei figli piccoli, vanno in giro a far la spesa, a lavorare, e nella fatica non trovano certo sponde, o il tempo di fermarsi a ragionare su quello di cui i figli avrebbero bisogno.
“Senza scuola non c'è infanzia” mi ha detto Mena Nocera, dirigente scolastica illuminata. “L'eredità negativa che ci lascerà il COVID sarà l'idea che a scuola “se voglio, ci vado”- così Ida Francioni, altra preside combattente. Idea delle famiglie, più che dei minori. Dario Spagnuolo, altro dirigente in frontiera ha osservato amaramente durante le conferenze di servizio sulla dispersione scolastica: “(I ragazzi e i bambini) hanno imparato da noi. Siamo stati come scuole intermittenti, disorientate. E loro sono così, saltuari nella frequenza, intermittenti, disorientati”.
Questo percepito di una scuola precarizzata in tanti quartieri alimenta il danno che alla scuola stava già facendo, in tutta Italia, l’idea della “libera scelta”, della sua subalternità alle scelte familiari. Scuola on demand, scuola che tende alla privatizzazione non tanto dal punto di vista del suo governo, ma della sua offerta.
Al Ministro allora, che si sta in questi giorni occupando di un programma-ponte tra giugno e settembre, sarà chiaro di certo: non in tutta Italia la situazione può essere affrontata allo stesso modo. Non in tutti gli ordini di scuole o indirizzi può essere proposta la stessa strategia. Qui, in molti quartieri, non recupereremo il danno rendendo alle scuole un po' di fondi per realizzare accattivanti attività estive. Ci vogliono linee-guida ben chiare: interventi personalizzati, progetti sulle persone, non solo su quelli che sono andati in difficoltà ma sui tanti che si sono persi. Ma per far questo bisognerà forse arrivare nelle case, riprendere un dialogo con le famiglie, vincere e con-vincere dell' indispensabilità tutti gli attori. La scuola ha già dato tanto in questi mesi, ma è stremata: il sistema delle alleanze con il territorio e con le reti deve perciò rinforzarla e ricevere risorse ad hoc, destinate e vincolate. A nulla serviranno gli investimenti se non arriva chiaro il messaggio che – come dopo l'unità d'Italia, come nel dopoguerra, come negli anni di Don Milani – si devono far uscire i ragazzi da una condizione di povertà educativa delle famiglie e dei contesti peggiore della precedente, perchè peggiorata dal messaggio di svalutazione della scuola passato in tutti questi mesi: e bisognerà farceli uscire uno ad uno, non uno di meno. Tenendo al centro la scuola, di cui si è smarrita la centralità.