Riflessioni a margine di un incontro con Massimo Recalcati
Per anni ho lavorato nel mondo della formazione dei docenti, ora come supervisore della SSIS ora come associato e poi presidente del CIDI di Napoli. Per anni ho combattuto contro la miopia del mondo adulto e del mondo politico che depotenziavano l'importanza sociale e culturale del ruolo docente, battendomi nel contempo, insieme a tanti colleghi, per una formazione che finalmente avesse gli strumenti per conciliare cultura della scuola e cultura dei giovani, saperi delle tradizioni e metodologie innovative senza porre eccessiva enfasi né sugli uni né sulle altre, convinta che la relazione educativa fosse in realtà il vero nodo da sciogliere per proporre un discorso seriamente rinnovato sulla scuola e sui suoi saperi. ,
A leggere "L'ora di lezione", il libro di Massimo Recalcati ultimo di una serie di suoi scritti che hanno saputo isolare il tema della fragilità del mondo adulto e delle sue ripercussioni sui nostri giovani in modo finalmente non banale e paternalistico, ci si sente dalla parte giusta, ad amare la scuola, e a insistere perché resista all'urto delle fragili ideologie neoliberiste, edoniste e consumistiche di questi anni.
A leggere questo libro, ci si sente tutti dalla parte di Telemaco, convinti che il nostro compito di educatori sia in primis quello di restituire la legge, di ridare fiato a regole e saperi che siano altro dal godimento effimero, in una parola sia quello di ergere con convinzione la lezione scolastica come ultima resistenza, in nome dell'amore della relazione tra insegnamento/apprendimento, che è essa stessa un atto d'amore.
A leggere il libro di Massimo Recalcati vien da pensare però che l’essere maestro in questo modo non sia insegnabile, ma consista in parte di una soggettività misteriosa che forse, aggiungerebbe qualcuno, puoi incontrare dovunque, non necessariamente a scuola. Gli esempi di questa fascinazione sono infiniti: tra i maestri di scuola ritornano alla mente le parole di Pasolini su Roberto Longhi incontrato a Bologna quando egli aveva 18 anni (ce le riporta Nico Naldini in Pasolini, una vita, Einaudi, 1989) :
"Che cos'è un maestro? (…) Egli viene vissuto: e la coscienza del suo valore è esistenziale. Longhi era semplicemente uno dei miei professori all'università: ma l'aula dove insegnava era un posto diverso da tutti gli altri , fuori dall'entropia scolastica. Longhi era sguainato come una spada. Parlava come nessuno parlava. Il suo silenzio era una completa novità. La sua ironia non aveva precedenti. La sua curiosità non aveva modelli. La sua eloquenza non aveva motivazioni. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione..."
Ma per comprendere il "magistero" oltre l'aula scolastica in un altro testo fondamentale, viene in mente il ritratto di Antonio Giurolo consegnatoci da Luigi Meneghello, che lo aveva conosciuto in pieno clima resistenziale e ritratto in Piccoli maestri e in Fiori italiani:
“Il modo più semplice per definire il raggio dell’influenza di Antonio è quello di considerarla sotto il profilo dei suoi libri. In un senso importante Antonio era quei libri; la sua persona appariva fusa con la sua biblioteca. Un uomo così poco libresco, così spregiudicato verso la scorza esterna dello studio, funzionava tuttavia per mezzo dei libri di cui era custode e esibitore. (...) Pareva che non solo Flaubert e Maupassant, ma Baudelaire e Rimbaud acquistassero (rispetto alla lettura scolastica o privata) un ruolo essenziale di opposizione culturale al fascismo.” (Fi, pp.185-187)
”In questo modo S. si trovò in contatto con un uomo colto, e con una cultura viva. Essa veniva a toccare la cultura scolastica e la struttura della mente di S. in tutta una serie di punti critici, e in ciascuno di questi l’effetto era esplosivo. Per la prima volta gli pareva di pensare, e si sentiva pensare. (…) Fu un processo esaltante e lacerante insieme: un po’ come venire in vita, e nello stesso tempo morire.” (id., p.190).
Il maestro di Recalcati si inserisce in questa linea: l’incontro con lui è esperienza di natura individuale eccezionale, che ciascuno di noi serba nella memoria come fondativa della nostra personalità ("noi impariamo i professori", non le materie, diceva qualche anno fa con grandissima efficacia Domenico Chiesa), non traducibile in metodo condiviso e collettivo.
Ciò detto, è indubitabile che il libro intercetti il bisogno altissimo che si manifesta dentro le scuole, tra tutti coloro che sentono con sofferenza l'isolamento del loro magistero, dovuto a una percezione sociale deprezzata ma anche a una evoluzione del dispositivo istituzionale in direzioni che non favoriscono, anzi ostacolano fortemente, il nodo vero: "l'ora di lezione". E allora dall’interno del dispositivo scuola (dirigenti, docenti) dibattendo con l’autore (l’incontro si è svolto di recente a Napoli presso il liceo “Genovesi”), si alzano le voci che chiedono invano: "Che cosa facciamo? Come lo facciamo?"
Nella scuola questo libro suscita infatti fascinazione e al contempo lamento. Entrambi - la fascinazione e il lamento - segnalano che l’analisi di Recalcati pone finalmente il problema della responsabilità dei soggetti, della rottura dell'alleanza generazionale, ma allo stesso tempo rivelano che essa non può porsi in sé a fondamento di una nuova visione di scuola, perché quello che è "già accaduto" lo impedisce. Si sente il grido di dolore di una irreparabilità... Perché, quando la direzione politica addirittura dà voce a genitori e figli col sondaggio telematico affinché giudichino il valore degli insegnanti, dicano che cos'è la buona scuola "secondo loro" , infarcendola di internet e inglese, allora si consuma la sconfitta non solo simbolica ma storica dell'alea del maestro...
Coloro che rivolgono quella domanda, e la pongono a chi ricorda loro la fascinazione dell’ora di lezione e le virtù salvifiche del maestro, commettono infatti in modo inconsapevole una dimenticanza, o forse un consapevole e desiderato fraintendimento, sovrapponendo "ora di lezione" e "riforma della scuola": giacché la riforma della scuola non si fa senza la politica, anzi è in sé un evento della politica come lo fu il ‘68 e come lo fu la Resistenza a cui pure ci richiamiamo, evento politico fondativo, per dirla con Alain Badiou. La riforma della scuola, dunque, ha bisogno di eventi fondativi: il tema del sapere del maestro e del suo amore non può essere assimilato a essa, sarebbe riduttivo per entrambi.
Né, temo, farà la "riforma" della scuola l'immissione in ruolo di 150.000 precari dalle variegate formazioni ed esperienze, che potrebbero averli resi non necessariamente appassionati al sapere: dico questo senza alcun paternalismo, io stessa al posto loro sarei furiosa e basta.
E allora abbiamo ragione di temere il rischio che la bella analisi di Recalcati, letta in modo paternalistico o - peggio – consolatorio/ nostalgico, il suo discorso non agisca come potrebbe in modo propulsivo, per una ridefinizione dei rapporti tra adulti e tra generazioni, ma appaia strumentale al dire "non c'è niente da fare, tutto è perduto, non ci sono più i maestri di una volta...". Niente di più falso e certamente da evitare, com’è da evitare un’ansia di nuovo a tutti i costi che non sappia più riconoscere ciò che c’è di buono negli impianti valoriali che hanno accompagnato fin qui le utopie di cambiamento.
A me sembra chiara invece una cosa: che il discorso di Recalacati, pur non puntando e non essendo finalizzato di certo alla "riforma" della scuola, abbia una sua intrinseca possibilità di aiutare a combattere la deriva performativa che la sta inguaiando. Con la sollecitazione che ci viene dai suoi ragionamenti, possiamo dare corpo alla possibilità di "non fare altri danni" ("Primum non nocere", insegnava la scuola medica salernitana ai suoi adepti, ed è un precetto essenziale anche per i maestri), bensì di dare uno spiraglio di luce e autorevole espressione ad alcune questioni:
- la questione della responsabilità “adulta” e individuale in un lavoro sempre più collegiale;
- l’invadenza degli psicologi "del benessere" che presidiano la scuola e spesso fanno danni inenarrabili, perchè favoriscono la deriva edonistica.
E soprattutto:
- la natura e la qualità del tempo scuola, della necessità che esso sia tempo "sprecabile" nella relazione allievo-maestro-sapere e non formattato in modo comportamentista come tempo della "verifica/prestazione" sia dell'alunno che del docente.
La riflessione di Recalcati può aiutarci a dar forza all'ipotesi non peregrina di sganciare la didattica dallo schema performativo della prestazione, dall'idea di "carriera" e agganciarlo invece all'unica vera necessità dei veri maestri: la qualità del lavoro (entro spazi e tempi appropriati) che apra le possibilità di incontri che suscitino passioni. È questo di cui la scuola tutta ha bisogno.
Io l'unica riforma della scuola che farei oggi, dopo averne indagate analizzate e spiegate tante, è dare più tempo e più occasioni di incontro, in luoghi più belli delle attuali aule squallide, a giovani e adulti per vivere insieme le loro avventure-disavventure culturali, essenziali alla crescita. Darei a me insegnante più tempo per trovare il libro che salva il mio alunno difficile. Come quella volta che consegnai Lo zen o l'arte della motocicletta di Robert Pirsig al mio alunno Michele, simpaticissimo, ma spesso oltremodo distratto, perché l'unico suo grande vero amore (apparente o reale) era far le corse con la moto: non lo sapevo allora, che con quel libro ci stavo azzeccando, ma quando qualche anno fa l'ho rivisto, e mi ha parlato – lui- dell’importanza di quel gesto di offerta, mentre mi raccontava della sua brillante carriera e mi donava la sua tesi del master in economia... beh, ho capito che l'esperienza del maestro ci tocca tutti, e di certo è il lavoro più gratificante del mondo. Altro che lamento!