Di fronte alla radicalizzazione e all’imbarbarimento del dibattito sul dramma della guerra in Palestina, che trasforma, sui principali canali dei media, la volontà di analisi in uno scontro tra tifoserie avversarie, si sente, come operatori della scuola pubblica, il bisogno di rispondere ad una domanda: cosa dovrebbe “insegnare” la scuola sulla vicenda palestinese e sul conflitto arabo-israeliano?
Domanda che in questi giorni è stata spesso peraltro sollevata come questione critica, a seguito delle manifestazioni studentesche pro-Palestina e pro-Hamas e delle minacce di ispezioni e punizioni da parte del ministro Valditara. Questione però gravemente fraintesa, con il ricorso ad argomenti obsoleti (di berlusconiana memoria) come il presunto “condizionamento ideologico” operato dai prof di sinistra sugli allievi imberbi: si tratta di stereotipi cari solo a chi, come certi esponenti dell’attuale governo, di scuola evidentemente nulla sa, oppure a scuola c’è andato poco e male.
Come deve e può affrontare un contesto educativo la tragedia del popolo palestinese, della radicalizzazione dell’attuale conflitto, delle vittime del terrorismo di Hamas, della riduzione alla fame degli abitanti di Gaza, della nuova corsa alle armi, dell’inutilità di cinquanta anni di trattative di pace puntualmente sacrificate all’altare dell’antagonismo mosso da motivazioni economiche e di potere, i cui fili sono purtroppo anche lontani da Gaza? O ancora, come si dovrebbero spiegare, senza peccare di semplicismo idiota, le ragioni dell’ odierna cronaca di orrori? Parlando, come nelle fiabe, di buoni e cattivi e avendo cura di scegliere i primi nel glorioso parterre delle democrazie occidentali? O viceversa, consentendo a tutti e a ciascuno dei nostri ragazzi di costruirsi opinioni articolate su quanto accade nel mondo che stiamo loro consegnando, attraverso la promozione di ricerca, documentazione e confronto?
Bisogna avere rispetto per i ragazzi e le ragazze che abitano le scuole, e per i loro maestri: non c’è altro compito che la scuola debba svolgere che quello di aiutare a pensare con la propria testa, sdi insegnare a riflettere sulle ragioni che muovono la storia e a saper contrapporre – sempre - la profondità del pensiero alla superficie dell’opinione.
Ebbene, ciò facendo, si scontentano molti dei commentatori da talk show oggi assetati del sangue degli arabi, oppure, più semplicemente, desiderosi di inquinare i pozzi con il “loro” ideologismo per fare un dispetto agli avversari politici.
La storia non si cancella, si insegna e ci insegna a pensare: se Rabin e Arafat vinsero il Nobel per la pace, fu perché avevano contrapposto agli estremismi le ragioni della convivenza necessaria; se oggi le elezioni le vincono le destre radicali, che si chiamano in Israele Netanyahu e dall’altra parte Hamas, è perché l’obiettivo della distruzione dell’avversario, del rifiuto di riconoscerne i diritti sta prevalendo, e non solo in Medioriente. Oggi i pacifisti perdono le elezioni, ha osservato brillantemente qualche giorno Ferdinando Boero su un quotidiano nazionale. E temo che accadrà non solo oggi, ma fin quando l’illusione, anzi la presunzione tutta occidentale di poter intervenire nelle controversie internazionali in nome della propria cosiddetta superiorità storica, civile e morale durerà e cercherà di nascondere, senza riuscirci, il suo vero volto: si interviene nei conflitti solo per stabilire le ragioni del proprio potere economico e finanziario, e si lasciano sul terreno macerie e tragedie di popoli. Questa storia qui va insegnata a scuola, o no? Se la risposta è sì, come ci auguriamo, i fanatismi di ieri, oggi e domani vanno interrogati e sviscerati tutti, e non solo quando e come fa comodo al pensiero unico dominante.