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di Annamaria Palmierila scuola "scomoda"

14/12/2018

La scuola salta i muri

 

Chiariamo subito l'immagine, affermando con essa un primo principio. Rappresenta la scuola che mi piace. Una scuola che a Napoli ancora non c'è, ma per la quale lavoro: pubblica, laica, gratuita, accogliente, pluralista e interculturale. Altrimenti la scuola non svolgerebbe il ruolo che la Costituzione le ha affidato.
Una Costituzione che non è dello Stato e dei governanti e nemmeno degli enti locali: è della Repubblica italiana.

Interroghiamoci allora su una seconda verità: qual e la vera emergenza oggi in Italia? Sono gli stranieri o la povertà educativa? Perché dobbiamo deciderci: non può essere vero tutto e il contrario di tutto. Non posso come la collega Angela Brandi assessora del Comune di Trieste imporre il crocifisso in un malinteso afflato misto di cattolicesimo e tradizione e poi imporre il tetto discriminatorio per i bimbi con background migratorio, perché Gesù diceva "Gli ultimi saranno i primi" -l'abbiamo imparato tutti al catechismo, luogo della tradizione per eccellenza-, e allora dovremmo iscrivere prima gli ultimi arrivati e riservare loro i posti e poi disporre i successivi agli altri. Anche perché a Trieste i posti ci sono per tutti, a differenza di ciò che accade nel Sud, dove spesso c'è penuria di sedi e di servizi, in primis per il tempo pieno.

Introduciamo inoltre un terzo aspetto, e cioè una verità inconfutabile: la diversità è necessaria, come scriveva Daniel Pennac (Diario di scuola, 2008): "Ogni studente suona il suo strumento, non c'è  niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l'armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un'orchestra che prova la stessa sinfonia". "...il problema, concludeva,  è quando vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini".

Peraltro le parole in uso oggi, "emergenza", "invasione" non aiutano a leggere il fenomeno migratorio nell'unico modo sensato possibile: come movimento di compensazione naturale tra i popoli del mondo.  Poi, certo, la diversità che c' è va governata, e questa è un'ovvietà che è sotto gli occhi di tutti. A Napoli c'è un quartiere che sta esplodendo, perché avendo dato luogo ai CAS, hanno stipato  il 70 per cento dei 1900 migranti richiedenti asilo in alberghi non preparati all'accoglienza e gestiti male in termini di quantità e qualità. Questo quartiere si chiama Vasto, ed è un quartiere popolare, umile ma onesto come diceva Troisi, in cui italiani e stranieri vivevano insieme in armonia, condividendo commerci, luoghi di aggregazione e in certi casi anche la povertà. Ma non c'erano "guerre". Perché  la politica, quando agisce nell'emergenza, genera mostri, e 20.000 arrivi annuali prendono il sopravvento sui circa sei milioni di stranieri che già sono in Italia da regolari. 

E la scuola? La scuola  è il mondo e la fotografia del mondo come esso è. Nel mondo la varietà è ricchezza. Per questo non dimentichiamoci di fare valutazioni serie prima di affrontare il tema dell'integrazione a scuola.

La prima  è la questione dei numeri.  Poniamoci allora insieme qualche domanda: sono pochi o molti gli 800.000 minori con background migratorio delle nostre scuole?  Il ministro per la famiglia del governo del cambiamento recentemente in TV si è detto preoccupato per il calo nascite, perché  l'Istat in 10 anni  in Italia registra 120.000 culle in meno. Allora, per logica e buon senso, dovrebbe essere contento della presenza di questi bambini, perché il calo senza di loro sarebbe quasi di un milione.
Senza alunni stranieri la popolazione scolastica in Italia sarebbe molto diminuita. E cosa sarebbe accaduto nel nostro Paese se per un quinquennio nelle nostre aule fossero spariti all'improvviso tutti gli studenti non italiani? I soli alunni autoctoni non sarebbero stati in grado di tenere i ritmi della crescita.

La seconda valutazione, di tipo qualitativo, chiede di non dimenticare la storia del nostro Paese. Spesso si dice che il problema che crea l'inclusione è di carattere materiale e organizzativo, che non ce la facciamo, che i problemi di cui ci si carica con la mediazione sono troppi, che  la scuola soffre le difficoltà  di una integrazione linguistica per cui non ha strumenti.
Sarà vero, anzi di sicuro lo è. Ma nella storia del nostro paese queste difficoltà hanno rappresentato anche occasioni propulsive e di crescita, e c'erano molti strumenti culturali in meno. Dire che lo straniero è un problema per la lingua e la cultura è un falso storico, questa cosa in Italia è già accaduta, e dato che io alla categoria di straniero etnico sono refrattaria, parlo di me, dei napoletani e pugliesi che sono emigrati a nord negli anni Settanta, e hanno trovato lavoro, la scuola e la lingua nazionale. L'Italia esiste grazie a questo. L'Italia a cui diciamo di tenere tanto, il nostro Bel Paese, non esisterebbe senza l'emigrazione interna.

Appare inoltre piuttosto sensato, rileggendo qualche pagina della Storia linguistica dell'Italia unita di De Mauro, ritenere che il problema delle "identità nazionali" passa per la cultura e non per l'inesistente questione delle etnie.

Ed è per questo che l'Osservatorio Nazionale per l'infanzia e l'adolescenza ha redatto un Piano nazionale di azione e di interventi che oggi è legge (legge non revocata), in cui si recita che obiettivo generale è "rafforzare la scuola come strumento di integrazione sociale per i minori aventi una storia personale o familiare di migrazione" e obiettivi specifici connessi sono  "valorizzare  la diversità linguistica" e "prevenire la segregazione scolastica... adottando misure specifiche idonee a garantire una buona qualità dell'insegnamento e apprendimento.

Si può  raggiungere questo obiettivo? Io penso di sì, sempre che  ci impegniamo tutti insieme contro le false credenze: quali ? Pensare di dover riconoscere e comprendere "un altro" piuttosto che la nostra propria storia. Immaginare la diversità culturale come un tema etico, oscillando dall'etica della differenza a quella dell'identità, o cadendo nel tranello rifiuto/assimilazione.  Cadere nel tranello del pensare che omogeneità e assimilazione siano meglio che eterogeneità e differenza deve essere stato il tranello in cui è caduta la collega di Trieste. Soprattutto, dimenticare o sottovalutare che tra la pelle e la povertà ciò che più spesso produce esclusione, e dunque conflitto, diffidenza, chiusure, è la povertà.  

I veri temi da combattere sono il sommarsi di povertà e diversità, come spesso accade nelle grandi città, ed è per quello che molti preferiscono discriminare, polarizzare le differenze. Anche da quartiere a quartiere, da scuola a scuola. E invece serve proprio il contrario: sono necessarie politiche integrate, intenzionali e  non casuali, politiche continuative e non progetti momentanei, politiche strutturali e non episodiche ed extra. Non si può convivere con eventi epocali, né governarne le conseguenze con politiche perennemente emergenziali e antagoniste.

 


Intervento al "Festival dell'educazione", Torino, 30 novembre 2018.

Di che cosa parliamo

La scuola, se è vera scuola, scomoda le coscienze e le scuote dall'indifferenza poiché è luogo e pratica di democrazia, di inclusione, di tolleranza, di convivenza solidale.
La scuola, se è vera scuola, è contraria al pensiero unico, al conformismo, alle mode, al quieto vivere perché è luogo e pratica di riflessione critica, di sguardo problematico, di pensiero divergente.
E per questo la scuola è scomoda.
È  scomoda perché pratica e rispetta le diversità e i disagi, ma spesso vi si lascia travolgere e inibire e allora diviene scomoda a se stessa.
E deve essere scomoda anche per tutti coloro che la vorrebbero luogo di competizione, di gara, di apprendistato all'arrivismo e alla prevaricazione.
In tal senso  la rubrica raccoglie e racconta momenti e situazioni di scuola "scomoda", talvolta anche per se stessa e spesso per i territori in cui come Istituzione vive e agisce.

L'autrice

Dirigente scolastica presso un istituto professionale di Torino, attualmente tutor organizzatore di Scienze della formazione primaria all'università di Salerno; è stata per due mandati Assessore all'Istruzione del Comune di Napoli al servizio della scuola della sua città, intesa e praticata come diritto inalienabile e bene comune.


 

maestri copertina

Annamaria Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero, Aracne, Ariccia, 2015, pp. 246, 14 euro in volume, 8,4 euro in PDF

Nella storia dell’Italia post-unitaria la scrittura letteraria dei maestri-scrittori ha assunto un’importanza straordinaria, perché proprio la scuola ha dovuto affrontare i problemi fondamentali, e tuttora in parte irrisolti, di formazione dell’unità culturale, umana e linguistica della nazione. L’autrice affronta il nodo interpretativo di questa narrazione compiendo una scelta esemplare: tre ‘maestri’, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e Lucio Mastronardi, che sono stati scrittori e intellettuali e che hanno vissuto in un’aula scolastica un momento determinante della loro esperienza esistenziale. Per tutti e tre, la scuola fu il luogo di una delusione ma anche della denuncia, humus originario del loro impegno civile, contro la degenerazione del capitalismo e le storture di una società iniqua che vanificava l’utopia democratica ed egualitaria su cui la scuola di massa era nata o stava nascendo: eroi moderni del racconto di un’umile Italia che vive un’ultima stagione di ‘resistenza’ contro la trasformazione in una nazione senz’anima e senza cuore.               

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