di Stefano Casarino*
Ospitiamo questo contributo al dibattito che è pervenuto al Gruppo di coordinamento di "Sì, cambiamo la scuola (davvero)!" dopo il seminario dell'11 febbraio.
L'inizativa del Cidi
L’iniziativa del CIDI di Torino su “Sì, allora cambiamo la scuola (davvero!)”, tenutasi nel pomeriggio di mercoledì 11 febbraio, ha rappresentato un importante momento di riflessione “olistica” sull’attuale emergenza educativa (del sistema scolastico italiano nel suo complesso, ma non solo!). Mi ha fatto personalmente molto piacere sentire rigettare con vigore da parte di tutti i relatori la deleteria visione della scuola-azienda così in auge ancora sino a qualche tempo fa, con tutto il repertorio delle tre “I”, e corredata da principi di concorrenza e di competitività che di “educativo” proprio non hanno (né vogliono avere) alcunché.
Doveroso, allora, interrogarsi su quale idea di scuola si voglia realizzare oggi. Se manca un progetto, una visione sistemica, un insieme coeso ed articolato di valori fondanti, viene meno qualunque seria e credibile possibilità di innovazione. I responsabili del Cidi ci hanno ripetutamente chiesto di dare un contributo: provo a farlo, allora, nel modo più pragmatico possibile, riprendendo anche alcuni spunti che ho già formulato in altre occasioni.
Discutere di scuola
Voglio partire da questa constatazione: un merito indubbio “La Buona Scuola” ce l’ha! È quello di aver (ri)messo la scuola italiana al centro dell’attenzione e di un generale e condiviso dibattito; negli ultimi anni, ci si è limitati ad eseguire direttive calate dall’alto, senza alcuna possibilità di intervento. Almeno ora c’è stata una fase di ascolto, chi ha voluto ha potuto esprimersi.
Solo un’operazione propagandistica oppure una fase propedeutica per giungere a decisioni – si spera il più possibile condivise – forti e significative?
Qualcuno ha deplorato l’impiego dell’aggettivo “buona”, come se si volesse intendere che tale la nostra scuola non è (non lo è più ora?; lo è stata in passato?); qualcun altro lo ha inteso semplicemente non come critica al presente, ma come auspicio per il futuro.
Ma cosa è oggi, nel 2015, la scuola italiana? Un chiaro quadro diagnostico è l’indispensabile punto di partenza per qualsivoglia proposta di cura.
La scuola smarrita...
Essa è certamente, a parere di chi scrive, “smarrita”: e tale smarrimento si è accentuato vistosamente da sette anni a questa parte. Grazie ad una capillare e sistematica opera di delegittimazione, prima culturale, poi sociale ed infine politica, perpetrata da tanti, da troppi.
È urgente la restituzione di senso e di dignità alla scuola, al “fare scuola”, allo studio (finalizzato ad “essere” preparati e competenti, non ad “avere” delle abilità e delle conoscenze), alla rielaborazione critica concettuale: istruzione ed educazione, non addestramento!
È altrettanto urgente un’opera di essenzializzazione, di eliminazione di tutto “il troppo e il vano” che nella scuola è stato artatamente introdotto negli ultimi tempi e che l’ha snaturata al punto da trasformarla in una sorta di “non-luogo”, per dirla con Marc Augé.
Chiediamoci, ad esempio, chi è oggi “il docente”, se davvero la sua prima (e insostituibile) funzione sia quella di “docere”, cioè di insegnare. In realtà, a parere di chi scrive, la sua identità, dalla scuola dell’infanzia all’Università, è stata profondamente alterata: oggi predominano le mansioni impiegatizie, si scrive sempre, si verbalizza tutto, si stilano piani di lavoro, programmazioni – spesso il trionfo del “taglia e incolla”, tanto chi le legge? –, progetti, relazioni, richieste… Il consumo di carta – nonostante o forse piuttosto grazie all’avvento dell’informatica – è aumentato a dismisura: credo che in nessun altro sistema scolastico i docenti scrivano tanto!
Mode e imposizioni
La prassi didattica si è poi rapidamente modificata sulla spinta di “mode” e di imposizioni dall’alto: in un attimo si è passati dalla valutazione formativa ed incoraggiante a quella parcellizzata e sommativa; si sono introdotti strumenti e modalità del tutto estranei alla nostra tradizione, test e quiz, con l’assurda, velleitaria pretesa della massima oggettività, adottando sistemi che altrove vengono ora ripudiati: si pensi alle recenti dichiarazioni di Diane Ravitch che, parlando delle scuole di New York, i cui studenti sono i meno alfabetizzati degli USA, afferma: "il sistema dei test ha fallito. I programmi diversificati hanno prodotto disparità di preparazione. E il persistere di diseguaglianze sociali ed economiche ha fatto il resto. Il risultato è un paradosso: l’aumento parallelo del numero dei laureati e degli abbandoni scolastici)" e di David Lohman: "invece che promuovere la meritocrazia questi test la ritardano".
E si potrebbe continuare, chiedendosi anche se basta il ricorso a LIM e a tablet per innovare davvero nel profondo la didattica. Se non si ha chiara la profonda differenza tra “informazione” – con tutti i rischi, tra l’altro, di information overloading che dovrebbero indurre a metodologie di orientamento e di discernimento critico – e “formazione”, si finirà per combinare dei guai irreparabili.
A scuola non si va per essere informati: almeno, non solo e non tanto per quello. A scuola si va – e, si spera, si continuerà ad andare – per essere formati.
Diversamente, è sicuramente più “economico” starsene a casa, davanti al computer ed attingere dati da Wikipedia: è questa l’educazione postmoderna che aveva in mente Lyotard?! Davvero, i terminali informatici, le banche dati possono sostituire validamente, sensatamente, la vicinanza fisica, il dialogo tra esseri umani?
Il "preside"
Ma continuiamo la disanima dello smarrimento di chi la scuola la vive tutti i giorni.
Il Preside oggi non si chiama neppure più così, anche se “La Buona Scuola” restaura in più punti tale termine: ma cosa c’è, concretamente, dietro l’altisonante etichetta di “Dirigente Scolastico”?
Un leader educativo (davvero?), un manager (con quale budget e con quali effettivi poteri?) o piuttosto un capoufficio, che si relaziona sempre meno coi suoi colleghi docenti (anch’egli, almeno finora, proviene da quelle fila) e che è sempre più angustiato dai problemi della sicurezza, della privacy, della trasparenza, ecc… e sempre meno in grado – vuoi per l’inadeguatezza della formazione vuoi per l’incombere di differenti richieste – di occuparsi di problemi educativi (in quanto tempo oggi si svolgono gli scrutini? quanti minuti si dedicano a svolgere collegialmente la “pratica” della valutazione? certo più a scrivere, a compilare “griglie” che a discutere!).
Responsabile solo formalmente dei risultati conseguiti e in rapporto problematico, quando non conflittuale, col DSGA, il Preside è diventato una sorta di nomade errante tra un plesso e l’altro, dotato dell’ubiquità tutta italica di chi provvede a volte a più di una reggenza: altra prassi funesta, che sarà bene eliminare una volta per tutte, a meno che non si pensi che la prima e finora riuscita forma di dematerializzazione sia quella di tale ruolo e di tale figura!
Lo studente
Lo studente, nemmeno lui lo si chiama più così: è diventato prima cliente, poi utente.
Sino a ieri non era un vaso da riempire, ma un fuoco da accendere, per dirla con la suggestiva frase di Plutarco.
Oggi quel fuoco ci guardiamo bene da accenderlo, lo preferiamo ben spento, a forza di “somministrargli” (termine orrendo!) prove che non mettono più in gioco (altra dimensione perduta, quella ludica: con buona pace di Huizinga!) la sua “intelligenza” (nel senso etimologico del termine) e la sua creatività, ma la sua passiva esecutività, celebrando il trionfale ritorno del nozionismo sotto altre vesti.
Le famiglie
Le famiglie, infine: da collaboratrici ad antagoniste, spesso.
I decreti delegati sono vecchi di una quarantina d’anni, pensati per coinvolgere i genitori in un altro contesto storico-sociale: siamo in incredibile ritardo, dovremmo deciderci a porre velocemente rimedio a ciò.
I decreti delegati sono vecchi di una quarantina d’anni, pensati per coinvolgere i genitori in un altro contesto storico-sociale: siamo in incredibile ritardo, dovremmo deciderci a porre velocemente rimedio a ciò.
Non passa giorno che la cronaca non segnali qualche fatto eclatante di alunni e/o genitori (recentemente, perfino zie!) che aggrediscono docenti o dirigenti. Siamo arrivati al punto da far firmare a studenti e famiglie al momento dell’iscrizione il Patto di corresponsabilità educativa, aggiungendo così un’altra pratica burocratica, un’altra formalità da espletare: ma se tutto ciò non viene interiorizzato, se resta solo un insieme di affermazioni scritte sulla carta…!
Ed ha ancora senso pensare ai nostri studenti – tutti indiscriminatamente dai 3 ai 18 e più anni – come “minori” da vigilare sempre e ovunque, vivendo nel sacrosanto terrore della “classe scoperta” o del “chi li accompagna negli spostamenti dall’aula al laboratorio?” o del “e se poi succede qualcosa”? Come se ciò avvenisse solo da noi, senza curarsi di vedere come funziona da altre parti: altrove l’aula è del docente, quasi un suo ufficio, sono gli alunni a spostarsi, da un’ora all’altra, senza alcun bisogno di “badanti”.
Norme antiquate
Varrebbe la pena di rileggere la formidabile prosa dell’ art. 2048 del codice civile, tuttora vigente, che disciplina la tremenda culpa in vigilando, dove si parla di “tutori”, “affilianti” e “precettori”, norma del 1942!!
Un anacronismo sempre imperante, che nessuno in settant’anni di vita repubblicana si è curato di aggiornare! Ma questo dovrebbe attirare l’attenzione sulla legislazione scolastica italiana, la più farraginosa al mondo, con norme che si sedimentano e si contraddicono, vero paese di Bengodi per avvocati e ricorrenti, pensato per ridurre al minimo qualunque discrezionalità intelligente ed esasperare al massimo il contenzioso. Scrive Lucio Ficara in merito al suo aumento: "Le cifre sono da capogiro, perché stiamo parlando di un aumento di oltre il 300%, calcolato in riferimento all’anno 2014 rispetto all’anno solare 2013, da La Tecnica della Scuola 06.02.2015."
Tanta “cura” legislativa, ma il Testo Unico della scuola è di più di vent’anni fa, non comprende e non contempla ovviamente nulla di ciò che è nato e si è sviluppato in questo non breve lasso di tempo.
Un tale groviglio di norme (e altrove? qualcuno ha mai pensato di informarci su quanti e quali siano le disposizione di legge che regolano la vita degli altri sistemi scolastici europei?) eppure – o forse, anche per questo – nelle ultime indagini siamo i peggiori d’Europa. Forse perché destiniamo solo il 4% del PIL all’istruzione, rispetto ad una media europea del 5,3%? Forse perché è più di tutti il sistema universitario a non funzionare, con solo il 22,4% dei laureati di fronte alla media europea del 38%?
L'Università
Curiosamente, però, l’Università non è mai sul banco degli imputati, non si mette mai bene a fuoco l’incredibile dispersione che avviene dopo la secondaria superiore e gli ingiustificati ritardi (i fuoricorso di antica memoria) per pervenire alla laurea: non sarebbe il caso di chiedersi se non sia urgente “colmare” lo scollamento tra Scuola e Università, pretendere che anche questo mondo, molto più autoreferenziale di quello della scuola, ripensi radicalmente alla propria didattica, smettendola di considerarla di rango assolutamente inferiore rispetto alla nobiltà della pura ricerca?
Luogo di libertà aperto all'esterno
Torniamo alla scuola. Che si può fare di concreto e di immediato per curare questo smarrimento di identità? Anzitutto, rispondere alla domanda delle domande: che cos’è la scuola?
A parer mio, è, deve essere e restare, uno spazio, un luogo di libertà di pensiero e di cultura, di interazione reciproca del processo di insegnamento-apprendimento: un luogo in cui si formano e si sviluppano l’apertura verso gli altri e la curiosità intellettuale, a tutti i livelli, dall’infanzia all’educazione degli adulti; in cui ci si dedica all’esercizio attivo di una cittadinanza praticata, come è stato detto molto bene da qualche relatore.
Un luogo aperto e in relazione dinamica col territorio, in grado di offrire e di ricevere stimoli, suggestioni, apporti: dal mondo del lavoro e delle professioni, dall’Università, dagli Enti locali, dalle Associazioni Culturali, ecc…
Un luogo in cui operano professionisti della cultura e dell’insegnamento – tali sono e devono essere considerati i docenti – che devono essere ben formati e costantemente aggiornati: è qui che si gioca una partita importante, finora incredibilmente trascurata.
La formazione degli insegnanti
Come si diventa insegnanti in Italia? Il tema è stato toccato anche dall’intervento di Luigi Tremoloso.
Tra tante norme, nemmeno una definitiva, chiara e sistematica al riguardo. Per anni, in Italia, “docenti” lo si è diventati quasi per caso: bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di ammetterlo!
Non era giusto ieri, non possiamo più permetterlo oggi.
Credo che bisognerà decidersi una buona volta a smetterla coi pasticci ingovernabili del TFA e dei PAS e a recuperare il meglio della decennale esperienza delle SSIS, eliminate con incredibile rapidità e totale incoscienza: l’unica volta che mondo accademico e mondo della scuola avevano iniziato a comunicare, a contagiarsi reciprocamente e beneficamente con le loro pratiche, a realizzare una sinergia che andava certamente riformata e migliorata, ma assolutamente non stroncata.
La carriera dei docenti e il lavoro collegiale
Dalla delineazione di un chiaro percorso per accedere all’abilitazione alla necessità di superare concorsi – cadenzati e condotti con assoluta regolarità, senza dare adito a quelle impressionanti sequele di ricorsi possibili solo da noi –, alla determinazione di una carriera docente: che si potrebbe realizzare sin da subito, identificando profili precisi e precise competenze, analizzando i curricula di chi è già da tempo nella scuola e ha al suo attivo collaborazioni scientifiche e didattiche con Facoltà universitarie, Enti di ricerca, ecc… oppure collabora a diverso titolo col DS oppure svolge funzioni importanti per la vita del singolo Istituto.
Non è difficile immaginare qualcosa di sensato e di articolato, se solo se ne avesse la volontà.
E invece no, almeno finora: titoli ed esperienze pregresse non hanno quasi nessun valore, non vengono valutati come prerequisiti nei concorsi a DS, non servono a “salvare” il proprio posto di lavoro: in caso di contrazione di cattedre a partire è sempre chi ha minore anzianità di servizio nella scuola!
Senza, però, passare dall’estremo (assurdo) di una carriera solo per anzianità a quello (altrettanto assurdo) di una carriera in cui il conseguimento di una maggiore esperienza professionale non ha più alcun valore!
Da questa impostazione discendono abbastanza naturalmente la soluzione di altri problemi: a condurre le scuole (ormai dimensionate sui 900 e più alunni) non un uomo o una donna soli al comando, ma uno staff, un gruppo, una gestione collegiale, anche lì con oggettive possibilità di carriera; a valutare la scuola (e perché no, anche il lavoro del singolo docente) non un unico giudice, ma un gruppo di lavoro, ridando senso ed importanza a quel ruolo ispettivo che da noi è quasi un’astrazione metafisica (e che altrove, invece, funziona benissimo, vd. Ofsted nell’UK).
L'autonomia
Bisogna infine realizzarla davvero, questa benedetta autonomia!
Abbiamo perduto una quindicina d’anni, riconosciamolo!
Non ci potrà mai essere, se sarà solo “funzionale” e non si ripenserà anche al ruolo del MIUR, che dovrà essere meno impositivo e direttivo.
Non ci potrà mai essere, se il Preside sarà avvertito non come espressione della sua scuola ma come controparte rispetto ai docenti (si dovrebbe prestare anche attenzione alla proposta della sua eleggibilità o, almeno, a diverse forme di reclutamento rispetto a procedure concorsuali che non danno il giusto peso alle capacità relazionali ma continuano a privilegiare gli aspetti più buro-tecnocratici del ruolo); se FIS e MOF, altri deliziosi acronimi, avranno consistenze ridicole; se la prassi burocratica non sarà davvero ridotta al minimo.
Deburocratizzare, delegiferare e restituire senso e dignità alla scuola: abbiamo a che fare con bambini e con ragazzi, non con prodotti da sfornare o con pratiche da sbrigare.
Siamo responsabili (“responsabilità”: altra parola che è risuonata più volte durante la giornata: mi piace ripensare alle riflessioni di George Steiner in merito: da “respondeo”, dare anzitutto risposta; di cosa e a chi, questo dev’essere molto ben calibrato!) della formazione delle nuove generazioni.
Non possiamo permetterci, per noi e per loro, un ennesimo fallimento.
* L'autore, che inegna Lettere nei Licei, è stato supervisore di tirocinio, è presidente della Delegazione di CN dell'A.I.C.C.; membro della S.I.A.C. e dell’A.N.F.I.S.; collaboratore di Associazioni Culturali (Dante Alighieri; UNIDEA; UCIIM) e di riviste (Università e Scuola; La Nuova Secondaria; Civiltà dei Licei).