Ospitiamo questo contributo al dibattito e alla elaborazione, che è pervenuto al Gruppo di coordinamento di "Sì, cambiamo la scuola (davvero)!" .
di Mariangela Colombo Ranzini
Premessa*
Comincerò con una breve annotazione lessicale, relativa al titolo di queste note.
La ricerca di un titolo è sempre un’impresa molto difficile . Un titolo deve “preannunciare” il contenuto del testo , rendendo esplicita la volontà dello scrivente.
Mi rendo conto che l’enfasi di questo mio titolo rischia di farlo apparire come una specie di slogan, come una sorta di “striscione” da esibire in occasione di una marcia, di una manifestazione, di un atto collettivo di protesta, di contestazione, o di solidarietà.
Lo Stato moderno: crisi di una definizione
Si usa definire lo Stato attraverso tre elementi: territorio, popolo, potere sovrano.
Possiamo, oggi, considerare ancora valida questa declinazione di “Stato”? Evidentemente sì, se ci limitiamo a definire l’essenza - la struttura portante - di un qualsiasi Stato nazionale.
Ma - a fronte dei due fenomeni della globalizzazione e della rivoluzione scientifica e tecnologica che hanno pervaso gli ultimi decenni del XX° secolo e connotano integralmente l’inizio di questo terzo millennio - dobbiamo pur chiederci fino a qual punto l’idea tradizionale di Stato nazionale continui ad avere prospettive di realizzazione concreta e - soprattutto - di sviluppo efficace e produttivo.
La crisi del “territorio” e la crisi del “popolo” (cioè la crisi della loro identità, così come tradizionalmente intesa) sta dentro la diaspora dei migranti, dentro la velocità di spostamento da un luogo all’altro ( non solo per mera sopravvivenza, ma anche per ragioni di mobilità professionale, culturale o turistica), dentro la mondializzazione delle economie, e dentro la diffusione planetaria (informatizzata e mediatizzata) dei dati e delle notizie, realizzata da sistemi e strumenti di comunicazione variamente interconnessi e in rapidissima evoluzione.
Accade allora che i flussi transnazionali di merci, di capitali, di persone, di informazioni rendano anche il “potere sovrano” (terzo degli elementi classici di definizione di uno Stato nazionale ) sempre più inadeguato al compito di “regolare” l’esistenza dei popoli all’interno dei territori in cui essi vivono.
Accade cioè che il “potere sovrano” finisca per venire eroso da processi che lo attraversano e lo pervadono dal basso verso l’alto e viceversa: nel primo caso, dall’ascesa e dal consolidamento di poteri “regionali” e “locali”; nel secondo, dalla nascita di forme e strutture di potere intergovernativo e sovranazionale, fra le quali va collocata - ad esempio - quell’ Unione Europea che fu pensata da grandi combattenti contro il nazifascismo, durante la seconda guerra mondiale e - al termine di quest’ultima - da illuminati politici di ogni convincimento ideologico e di ogni provenienza nazionale.
Chi sono e con chi dialogano gli “attori” della nuova società civile?
I nuovi attori non sono soltanto le grandi imprese multinazionali ma le associazioni professionali, i soggetti del cosiddetto Terzo Settore, le Organizzazioni non-governative… In altre parole, tutti quei “corpi intermedi” con cui possiamo entrare quotidianamente in contatto, per ragioni lavorative , politico-sociali, culturali…
Tutti questi “attori” hanno ormai orizzonti tendenziali di carattere globale, che vanno ben oltre il mero dialogo coi Governi nazionali , contribuendo a creare e a sviluppare una società civile orientata verso la nascita di un’opinione pubblica sovranazionale, con la quale il potere legislativo e quello esecutivo nazionali debbono abituarsi a fare i conti.
Le grandi domande
In questo mondo globalizzato e interconnesso possiamo chiuderci alle culture “altre” ed essere indisponibili alla ricerca di nuove categorie interpretative e di nuovi linguaggi, di cui impossessarci per comunicare pacificamente ed efficacemente?
Sappiamo bene che il compito primario di ogni Stato di questo nuovo mondo globalizzato e interconnesso è quello di garantire a tutti i suoi cittadini quei beni pubblici che sono la ragion d’essere dello Stato stesso, ossia la pace e la sicurezza, lo sviluppo economico e il lavoro, la salute, l’istruzione, la coesione sociale, la tutela dell’ambiente.
Tutti questi “beni” sono tra loro strettamente interconnessi. La domanda - dunque - è: quale di questi beni può essere adeguatamente garantito, in condizioni di “chiusura” o di innalzamento di “barriere” nazionalistiche e protezionistiche? Possiamo ragionevolmente pensare che - a difesa di “confini “ che la globalizzazione e la tecnologia hanno reso “porosi”, ibridando le comunità, mescolando le etnie, moltiplicando le lingue, le credenze religiose, i riti, le tradizioni - debba essere ripristinato l’uso delle armi? Quali armi? Prodotte da chi? Vendute da chi? Nell’interesse di chi? In vista e in funzione di quale obiettivo?
Multiculturalità e multiculturalismo
E’ importante rilevare come l’identica radice di questi due termini non connoti una loro identità semantica: nel primo caso, si designa un fatto, nel secondo un orientamento strategico..
La logica vorrebbe che il primo termine rappresentasse la “conseguenza “ del secondo: Se, infatti, la nostra realtà quotidiana appare ormai - ovunque nel mondo - contrassegnata dal fenomeno di una multiculturalità diffusa, l’approccio alla strategia del multiculturalismo comporta un insieme di scelte consapevoli, che sono il frutto di un processo di impadronimento di conoscenze (o saperi ) che - lentamente, minuziosamente, puntualmente - diventano azioni. Di questo processo - con tutta evidenza - non è responsabile il solo potere politico o amministrativo, ma l’intera comunità di cittadini che coopera alla gestione quotidiana del fenomeno della multiculturalità.
Ed è proprio a questo punto del nostro ragionamento che cominciano ad affacciarsi i maggiori problemi.
Una realtà in pericolo
Viviamo giorni di grande pericolo. Assistiamo - in condizioni di pressoché totale impotenza - alla rinascita proterva e arrogante di forme di xenofobia e razzismo, che si coagulano in inattesi successi elettorali di movimenti nazionalisti e populisti, che arrivano addirittura a minacciare l’assetto democratico di interi Paesi .
Come una metastasi, il male dell’intolleranza, del pregiudizio, della ripulsa di ogni “diversità” è tornato ad assumere le sembianze orrende di un terrorismo generalizzato, “globalizzato”, ingestibile, davanti al quale riemerge - insieme alla paura per la propria sopravvivenza individuale - lo spettro (che credevamo sepolto) della Guerra Totale, intesa come scontro definitivo tra civiltà.
Dove si annida il “gene” che sta ridando vita a questo cancro? Possiamo combatterlo - e abbatterlo - con le armi, con i missili, i cannoni, i carri armati, le bombe? Con le rappresaglie violente , che - insieme al male - eliminano l’ammalato, il colpevole, e - accanto a lui - l’innocente? Possiamo rispondere all’integralismo dell’odio e della morte, con l’integralismo della disperazione e della paura?
La proposta sta in una risposta “di comunità”.
Va subito detto che non si tratta affatto di una proposta di facile realizzazione.. Anzi.
Essa comporta un lungo cammino , per molti versi, ancora da “puntellare” su robusti principi ideali, che richiedono il concorso delle menti, delle volontà, delle capacità organizzative e operative di tutti i cittadini. A qualunque livello di “responsabilità” appartengano.
Bisogna essere consapevoli che si tratta di un panorama inedito nella storia umana, prodotto da una globalizzazione che ha reso sempre più multiculturali e meticce le società, e che richiede quindi un grande sforzo di immaginazione e innovazione istituzionale. Tutti noi dobbiamo assumere questa sfida , producendo cambiamento, trasformazione, evoluzione, grazie alla costruzione di alleanze paritetiche con tutti gli attori impegnati in questa direzione . Dobbiamo, insomma, educarci ed educare a interiorizzare il principio che - insieme al diritto alla differenza - esiste il diritto/dovere alla convivenza.
Come e dove nasce una comunità?
Tra un potere politico e amministrativo inattivo, imbelle, spesso corrotto e corrompibile e un popolo costituito da individui educati alla coltivazione del tornaconto personale e rapidamente trasformatisi in minuscole monadi, sempre più affezionate al consumismo, all’arrivismo , al qualunquismo che fa - del cittadino attivo - il suddito sordo-cieco e acritico, continua a esistere (talora in condizioni di difficilissima sopravvivenza ) una luogo privilegiato perché organico e organizzato istituzionalmente allo scopo della formazione iniziale e continua del futuro cittadino.
Questo luogo è la SCUOLA.
E’ nella scuola che si impara (e si insegna) il metodo che trasforma il suddito in cittadino, che muta un’accozzaglia di “individui” in una “comunità” che interiorizza - crescendo - le regole della convivenza tra le differenze.
Il “metodo” (che è patrimonio culturale e operativo specifico della scuola ) è tutt’altro che semplice. Esso comporta la necessità di costruire grandi racconti che siano in grado di alimentare l’immaginario, i sentimenti, le opinioni, i giudizi, e persino i pre-giudizi, attraverso l’inclusione e il dialogo che “argomenta”, che dà conto del “perché “ delle proprie prese di posizione, che confronta e dibatte tra i diversi “perché”, optando infine democraticamente per il “perché” che - anche se non completamente e immediatamente accettato - ha comunque innescato un meccanismo di messa in crisi cognitiva e metacognitiva che contribuisce al dinamismo del pensiero e aiuta ad accrescere il senso critico, insieme a quel senso di “responsabilità personale” che ci trasforma in membri di una comunità.
E’ questo tipo di Scuola (e non certo la scuola che irreggimenta a suon di editti, parole d’ordine, punizioni, emarginazioni o subdoli “premi” al conformismo e all’ubbidienza) il luogo della ri-conquista della PACE universale kantiana.
E’ la Scuola del confronto dialettico, motivante e motivato, che genera la Democrazia. Chi cresce in questa Scuola, impara – strada facendo - che “l’altro” (il “diverso da sé”) è una fonte di conoscenza e non un’occasione di sopraffazione , di violenza, di morte. E’ un processo lungo e difficile: sarebbe assurdo (e demagogico ) negarlo.
Ma chi ha mai detto che il “fare scuola” sia un mestiere facile?
Diciamolo pure tranquillamente: la nostra scuola (soprattutto la scuola di questi nostri, difficilissimi tempi) è il luogo della più complessa - ma anche della più esaltante - delle scommesse: quella di contribuire a costruire - con l’arma del pensiero - un mondo in cui le guerre con le armi che mutilano, devastano e annientano non abbiano mai più diritto di cittadinanza.
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Queste note che seguono sono una rielaborazione e - in qualche punto - un approfondimento del contributo da me fornito in occasione della 2.a Conferenza (anno 2011), promossa dal Forum piemontese delle Associazioni, sul tema del Federalismo e dell’Autonomia scolastica. Quel mio contributo si ispirava alle pubblicazioni del prof. Giampiero Bordino (membro del direttivo del Movimento Federalista Europeo), il cui lavoro di docente e ricercatore si orienta - da anni - verso l’obiettivo dell’acquisizione di una consapevolezza e di una maturità “civica” che porti alla trasformazione, sia di colui che insegna sia di colui che apprende, in partecipe, attivo, autentico cittadino.