Pubblichiamo le risposte ai nostri quesiti rivolti a testimoni scelti fra docenti universitari, ricercatori, studiosi, formatori e docenti che in questi anni abbiano attivamente operato nel campo dell'educazione linguistica.
1. Quali tra gli auspici e le raccomandazioni contenuti nelle “Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica” le sembra che sia stato maggiormente perseguito e realizzato? Quale, al contrario, le sembra che stato fortemente o del tutto disatteso? |
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Si è capito – ma forse l’hanno capito più i docenti che gli studenti – che la padronanza piena, sofisticata del linguaggio è condizione necessaria per la partecipazione alla vita del Paese, alla democrazia, ma anche per la realizzazione di sé, dei propri progetti di autopromozione umana e sociale. Si è capito quindi che l’insegnamento della L1 è un atto politico: e questo è un contributo fondamentale delle Tesi. Disatteso invece, tranne in pochissimi casi, il concetto di trasversalità dell’educazione linguistica, che integra l’italiano L1, le lingue straniere e, dove ci sono, le lingue locali e quelle classiche, che valorizza le lingue d’origine presenti nella classe e che include anche una forte attenzione per i linguaggi non verbali. Queste istanze inclusive, integrative, trasversali delle "Dieci Tesi" erano state tradotte in indicazioni operative dai "Nuovi programmi della scuola media" del 1979, ma 35 anni dopo sono ancora avveniristiche! |
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2. Appare a molti innegabile che particolarmente negli ultimi anni la didattica nel campo dell’educazione linguistica e letteraria abbia registrato un sensibile arretramento su posizioni (neo)conservatrici. Condivide questo giudizio? Quale o quali ritiene sia o siano le principali cause di tale arretramento? |
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In didattica non esistono posizioni conservatrici e usare il parametro conservatore/ innovatore è fuorviante e può portare a risultati controproducenti. Cosa vuol dire ‘conservatore’? Che si torna a fare grammatica, analisi logica e grammaticale? Queste tre cose sono buone se finalizzate a sviluppare la capacità cognitiva di classificazione, lavorando su quel che si sa meglio, la lingua, o cose cattive se sono mirate ad uno sterile nominalismo, all’elencazione di complementi, ecc.: bene/male, in ordine alla finalità cognitiva, sono un parametro attendibile, mentre conservatore/innovatore non è corrispondente di buono/cattivo. Un dispiego di LIM e tablet può parere innovatore, ma spesso contiene solo viete tipologie di esercizi stantii. Starei quindi attento a verificare con attenzione che cosa i vari ‘esperti’ hanno risposto a questa domanda, come hanno interpretato ‘conservatore’. È significativo quello che è avvenuto in un settore dell’educazione linguistica che dovrebbe essere integrato con l’italiano L1, le lingue straniere: traduzione, dettato, grammatica ed esercizi di fissazione divennero improvvisamente il male, e chi vi ricorreva era un malefico conservatore, chi le ignorava era un buon innovatore; con gli anni, si è riconosciuto che la grammatica esplicita ha un ruolo essenziale, purché sia punto d’arrivo e non di partenza, strumento di riflessione sulla lingua e non norma da applicare pedissequamente; gli esercizi di natura neocomportamentistica, anche se non nella forma rigida e meccanica dei pattern drill, sono necessari per la funzione di rehearsal richiesta dai neuroni specchio ai fini della acquisizione; che il dettato non ha senso come prova di verifica, ma offre un contributo essenziale alla memorizzazione, e che può essere svolto in autonomia utilizzando i file sonori in internet; che la traduzione, anche qui non certo per verifica, è un’abilità fondamentale nei livelli avanzati, che va sviluppata nella direzione lingua straniera → lingua italiana, e che contribuisce allo sviluppo della sensibilità alla connotazione lessicale proprio in italiano… Chi sono i conservatori e gli innovatori, in tutto questo? |
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3. Negli anni che ci separano dalle “Dieci Tesi” si sono verificati fenomeni di forte impatto sulla realtà comunicativa e linguistica del nostro paese (la diffusione dei media digitali, i flussi migratori, la crisi occupazionale, le trasformazioni stesse dell’italiano, ecc.): vi sembra che università e scuola abbiano saputo fronteggiare in modo adeguato le emergenze educative che ne sono derivate? |
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Sono esempi di natura totalmente differente e vano trattati in maniera differenziata. La diffusione dei media digitali, in sé, ha dato accesso a enormi quantità di testi, che nel 1975 sarebbe stato un sogno delirante immaginare, ma ha modificato l’uso dei testi, ha cambiato il concetto di lettura: ad esempio, le parole chiave scritte in neretto hanno abituato i ragazzi ad un sussidio cognitivo che nei libri e nei giornali non c’è; la possibilità di navigare di testo in testo attraverso i link ha reso più difficile l’abitudine alla concentrazione su un singolo testo; la stessa correzione automatica degli errori ortografici ha diminuito l’attenzione a questo aspetto della lingua scritta: ci pensa word! Se quanto detto sopra riguarda la lettura, le reti sociali (vogliamo smetterla di usare social network, magari letto sòcial all’italiana?), con i loro meccanismi di comunicazione breve (mail, post, chat) o in un numero limitato di caratteri (tweet, sms), hanno modificato l’uso produttivo della lingua (e secondo me anche i processi cognitivi e creativi che sottostanno all’uso stesso). Quasi nessuno dei media delle reti sociali valorizza i testi di tipo argomentativo; quelli narrativi diventano una sequenza di ‘dopo’, ‘e poi’ ecc., con una coincidenza di fabula e intreccio che non abitua alla narrazione sofisticata, come quella letteraria e cinematografica. Sono tutti cambiamenti linguistico-cognitivi indotti dalle tecnologie digitali… e quel che è grave è che nelle scuole non si usano le potenzialità del web interattivo e internazionale ai fini dell’insegnamento delle strategie di lettura e scrittura, ma ci si limita ad usare testi su formato elettronico anziché cartaceo, ad esplorare l’enorme e caotica biblioteca costituita da internet anziché a saper usare la biblioteca della scuola. Non che questa sia migliore di quella virtuale (anche se la biblioteca della scuola è frutto di un progetto, di scelte), ma è una biblioteca che costringe a riflettere sul modo di cercare, su come valutare se scegliere o non un dato testo, come affrontarlo in lettura cursoria o analitica, ecc.: abilità essenziali per poter navigare nella rete senza naufragare o senza restare in balia delle onde, dei link. Le Dieci tesi miravano allo sviluppo di competenza che consentissero di padroneggiare la lingua nella sua versione più estesa, ma in questo la scuola ha ancora molto da camminare. E l’università è ferma al palo di partenza, come un ronzino anziché come il purosangue che dovrebbe essere. Secondo punto presente nella domanda: i flussi migratori. Fino al 2005, più o meno, sono stati gestiti darwinianamente sia dal punto di vista dello studente (se impari l’italiano, bene; altrimenti sono problemi tuoi, mi spiace…) sia da quello dell’insegnante (se sai adattarsi, a spese tue, alla nuova realtà continuerà a insegnare con dignità; gli altri potranno consolarsi imprecando contro il governo). Lo spirito delle Dieci tesi è che l’educazione linguistica debba essere tagliata e cucita sulle caratteristiche della persona, dello studente: questo avrebbe significato (e lo dice un figlio di emigranti, arrivato quasi 60 anni fa nella scuola media italiana senza sapere l’italiano!) creare classi ponte per i neo arrivati, un trimestre da dedicare esclusivamente alla lingua e alla cultura (sociale, scolastica, relazionale) italiana: ma l’opposizione a questa idea, nel nome della non-ghettizzazione e dell’inclusione tout court, è venuta proprio da molti che si richiamano alle Dieci Tesi cogliendone solo la dimensione inclusiva – sacrosanta nel contesto in cui furono stesi le Tesi, ma superata dopo l’impatto della migrazione: il vero ghetto, l’esclusione, è essere soli con se stessi, immessi in una classe in cui non si capisce una parola, mentre l’apparente esclusione della classe ponte è uno strumento ineludibile di inclusione. Inclusione vera, dopo, e non inclusione apparente, subito. Quanto alle trasformazioni dell’italiano: non credo che quelle che si sono realizzate in questi 40 anni siano paragonabili a quelle che erano avvenute nei 20 precedenti le Dieci Tesi, e che alle Tesi avevano portato: quindi non le sopravvaluterei, perché rientrano nella normale dinamica di una lingua viva, quella che le Tesi ci hanno insegnato a tenere in conto nell’insegnamento. Mi pare che la scuola abbia saputo accettare molte delle variazioni: un esempio evidente è dato dai pronomi personali soggetto nei manuali di italiano per stranieri: nel 1975 erano egli, ella, esso, essa, essi, esse, da vent’anni non più; lo stesso vale anche in italiano L1 per molti ‘errori’ del 1975 che oggi sono comunemente accettati: un periodo ipotetico con due imperfetti era sanzionabile anche all’orale, oggi è pienamente accettato… |
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4. Qualche speranza per il futuro: quale attenzione si sentirebbe di consigliare per dare nuovo vigore all’Educazione linguistica democratica nel nostro paese? |
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Anzitutto un commento alla domanda: "dare nuovo vigore". Già sopra era apparsa una visione pessimistica di quello che sta avvenendo, quasi che le Dieci Tesi siano state tradite… Certo, quanto propugnato nelle Tesi si è in parte trasformato in prassi consolidata (ad esempio l’attenzione alla lingua viva e mutevole, di cui si parlava sopra) e altre cose no: ma le Tesi sono contestualizzate negli anni Settanta, e il contesto è radicalmente mutato: sono mutati in parte gli obiettivi dell’educazione linguistica; sono mutati gli studenti e gli strumenti comunicativi che usano; negli anni Settanta c’era il MEC, il Mercato Comune Europeo, oggi lo studente è – anche ma non solo per ragioni occupazionali – un cittadino europeo, anche se non lo sa, anche se aderisce istintivamente a movimenti che si dicono antieuropei; nel 1975 il problema erano i dialetti e l’italiano parlato, popolare, oggi il problema è l’italiano divenuto un ‘dialetto’ europeo, laddove la ‘lingua’ è l’inglese (e precisamente il bad English alla Renzi, funzionale per quanto linguisticamente straziante) mentre nel 1975 la lingua internazionale era ancora il francese, lingua romanza e quindi agevole per italofoni). La speranza è che la scuola e gli insegnanti si rendano conto che educazione linguistica deve significare lavoro integrato e concordato su tutte le lingue del repertorio di un giovane europeo – ma ancora oggi si ode spesso parlare di ‘educazione linguistica’ significando solo l’insegnamento dell’italiano… La speranza è che nella formazione dei docenti impegnati nell’educazione linguistica si valorizzi la competenza in didattica della lingua (che la si chiami ‘linguistica educativa’ o ‘glottodidattica’ ai nostri fini non cambia nulla), mentre abbiamo visto nei TFA e nei PAS che la dimensione didattica è stata affidata a storici della lingua, a linguisti applicati, a linguisti delle singole lingue, persino a pedagogisti – anche se le Tesi usano “pedagogia linguistica” per indicare la “didattologia delle lingue”, per calcare la definizione francese. |
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Linguista italiano, docente universitario e studioso di glottodidattica. È autore di numerose pubblicazioni sulla didattica dell'italiano a stranieri, sulla didattica delle lingue straniere moderne, sulla didattica dei linguaggi settoriali nelle lingue straniere, sulla comunicazione interculturale, sulla storia dell'insegnamento linguistico in Italia, oltre che di un dizionario di glottodidattica. Ha curato inoltre il fortunato manuale di italiano per stranieri Rete! |