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di Luciana Scarciaaltri sguardi

13/11/2013

La manutenzione della democrazia

Educazione senza prefissi. Per colmare lo scarto tra norme e realtà

Prendo spunto dalla notizia che a vincere l’ultima edizione del Concorso A scuola di Costituzione (sezione scuola media) sono stati i ragazzi del carcere minorile di Torino (vedi articolo "La "Costituzione vissuta da dentro").
Uno di loro, Bader, ha detto: “Quando uno come noi prova a cambiare strada deve poi fare i conti con la strada vera e propria e questo non è affatto facile”. Quelle parole pongono una questione importante che non riguarda solo le difficoltà che il detenuto incontra quando decide di cambiare vita, ma investe l’intera società e, in particolare, noi insegnanti, formatori, gente che per mestiere si occupa di educazione e cultura.

Quando nel dopoguerra i nostri Costituenti scrissero nell’art. 27: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, intendevano costruire un sistema penitenziario che fosse un tassello della società democratica e, insieme agli altri articoli della Parte I, delineavano un modello di società inclusiva, tale da accogliere anche chi ha inferto una ferita alla collettività. Il carcere, dunque, era pensato dentro una cornice sociale caratterizzata da valori condivisi, dai quali il comportamento criminale ha deviato e verso i quali bisogna riorientarlo.

Percorsi come quello dei ragazzi del minorile si iscrivono dentro quella tensione democratica a cui la Costituzione obbliga tutte le istituzioni. Il problema, però, è che quel principio costituzionale si scontra oggi con la realtà delle nostre carceri, da tutti denunciata come drammatica (la Corte Europea dei Diritti Umani nel gennaio di quest’anno ha condannato l’Italia per le condizioni disumane degli istituti penitenziari e se entro maggio 2014 il nostro Paese non adotterà provvedimenti adeguati dovrà pagare pesanti sanzioni pecuniarie). Questo non è un problema di degrado e inadempienza circoscritto a un settore particolare: essendo il carcere un’ istituzione dello Stato democratico, il suo funzionamento riguarda tutta la società ed è indicativo del grado di democrazia nel nostro Paese.

La domanda che voglio porre è: la società civile oggi costituisce davvero quella cornice democratica cui guardava la Costituzione? Questa domanda non si riferisce solo all’effettiva capacità materiale della società di accogliere il detenuto, ma anche alla reale condivisione dei valori democratici. Se allarghiamo lo sguardo a quello che accade dentro e fuori delle carceri, dobbiamo prendere atto che esiste un ampio scarto tra norme scritte o principi dichiarati e comportamenti reali. La violazione delle regole della convivenza civile non viene praticata solo da condotte criminali ma anche dalle mille manifestazioni di illegalità diffusa, intolleranza e discriminazione (dall’evasione fiscale al sistema delle tangenti in politica, dallo spreco di denaro pubblico all’indifferenza verso le zone di sofferenza sociale, dalla tutela del privilegio all’esclusione degli indesiderati). Questo vuol dire che i comportamenti della gente non sono guidati efficacemente dai principi su cui si fonda la Costituzione, da cui derivano le nostre leggi, e che i valori di Giustizia e Libertà non si traducono nella consapevolezza dei diritti e doveri di ciascuno.

Allora viene da chiedersi: solo i detenuti hanno bisogno di Rieducazione? Non viviamo forse tutti con preoccupazione la diffusione di comportamenti violenti, prevaricatori e razzisti? La parola Rieducazione non piace molto, in effetti quel prefisso -ri- rimanda a un’idea di correzione di comportamenti devianti da un sistema di valori di cui qualcuno (l’istituzione) sarebbe depositario. Meglio sarebbe parlare di Educazione tout court e prendere atto che tutta la società ne ha bisogno, perché i valori della democrazia non possono essere dati per scontati. Questi hanno bisogno di una manutenzione continua, di un’educazione permanente lungo l’arte della vita anche sul terreno delle convinzioni personali.

Oggi il confine tra normalità e devianza risulta molto meno definito, e siamo tutti più consapevoli che le categorie di male e bene non dividono gli uomini e i luoghi ma appartengono alla sfera delle scelte che ciascuno deve compiere quotidianamente. Quello che si impara dal carcere è che serve un esercizio continuo della capacità di scelta tra giusto e ingiusto, tra utile e dannoso, in sostanza tra bene e male. È tale esercizio di pensiero che educa alla libertà e alimenta la coscienza democratica. Qui è il nucleo di ogni azione educativa.

Se si rompesse l’isolamento del carcere e ci fosse uno scambio tra il dentro e il fuori, la società ne trarrebbe vantaggio, come dimostrano quei progetti educativi che in alcune scuole si realizzano da qualche anno (si veda  il sito della redazione di Ristretti Orizzonti del carcere di Padova), basati sullo scambio scuola – carcere. Questi creano le condizioni perché i nostri studenti capiscano che in carcere non necessariamente finisce il cattivo pervaso dal male, ma tanti giovani uguali a loro, con comportamenti e abitudini simili, che possono anche degenerare in atti delinquenziali (la guida in stato di ubriachezza, una rissa che finisce male, e così via).  
Il carcere può dare un grande contributo non solo all’educazione alla legalità, al rispetto delle regole ma, più in generale, all’esercizio della consapevolezza e della capacità di scelta.

 

Di che cosa parliamo

Le situazioni estreme obbligano a variare il punto di vista dal quale guardare alle questioni della vita e a ciò che è importante e utile per vivere bene. Uno di questi luoghi estremi è il carcere, che contiene le conseguenze ultime dei mali sociali. Guardando il mondo da questo luogo come da uno specchio ingrandente si capisce meglio cosa non funziona nei nostri modelli culturali. Nella rubrica utilizzeremo le storie di chi abita il carcere per riflettere su questioni pedagogiche e sui criteri che ne orientano le scelte.

 

L'autrice

Vivo a Roma, dove ho insegnato nella scuola media, all’università e in carcere. Ho fatto ricerca e formazione collaborando con il Cidi e occupandomi della rivista e di progetti europei. Tengo laboratori di scrittura in carcere come volontaria. Della mia attività di insegnante e di operatrice in carcere danno conto varie pubblicazioni.