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di Maurizio Muragliastereotipando

20/09/2016

"Il mio 6 vale 7" e altre facezie

Questa volta ho scelto di attirare l’attenzione non su uno ma su un grappolo di stereotipi che riguarda la verifica e la valutazione degli apprendimenti, che – bisogna ammetterlo – costituiscono la fucina principale di questa rubrica, e già questo rappresenta un elemento non marginale di riflessione cui non voglio sottrarmi. La domanda è questa: perché in ambito di verifiche e valutazione è più frequente imbattersi in frasi fatte, visioni sclerotizzate, mitologie consolidate?
La risposta forse va cercata nella sostanziale immobilità della cultura valutativa degli insegnanti italiani, che probabilmente discende a sua volta dalla percezione sclerotizzata del momento valutativo quale momento qualificante e “ufficiale” della vita scolastica. E in quanto tale separato concettualmente da ciò che invece ne rappresenta il fondamento, ovvero la progettazione e la realizzazione del processo di insegnamento e di apprendimento. Se ci pensiamo, i momenti della verifica e della valutazione stanno sempre al termine delle dichiarazioni di lavoro degli insegnanti. Prima insegno, poi verifico e valuto. Prima ci sono le spiegazioni, poi i compiti e le interrogazioni. D’altra parte il senso comune, che è sempre il grande pozzo cui attingono gli stereotipi scolastici, approverebbe senz’altro lo schema prestazione-valutazione. Prima avviene il “fatto”, poi la valutazione del fatto. Vorrò tornare in altra sede su questa concezione del processo valutativo nelle aule scolastiche. Qui invece occorre metter mano al grappolo di stereotipi in questione.

“Il mio 6 vale 7”, “Io 8 non lo do mai al primo quadrimestre”, “Non ti do 10 perché nella mia carriera non l’ho dato mai”, “Si sottraggono alle verifiche”. Vita reale, nelle scuole. Difficilmente si sente questa roba nei corsi di aggiornamento, e questo è già un indizio interessante. Trattandosi di stereotipi, occorre tenerli tra le “pareti domestiche” ovvero in sala professori o in classe con i ragazzi. Portati in luoghi perigliosi rischiano di essere smascherati da qualche esperto che mette in fila due pensieri con un po’ di scienza pedagogica. E non si possono fare figuracce.
Cosa c’è dietro? C’è una cultura del voto numerico, con tutta evidenza. Quel voto che di per sé non chiamerebbe il numero se non altro per il suo etimo (votum da voveo, io auspico, che chiama il futuro, il desiderio, il progetto). Ma a scuola questa nobile parola viene aggettivata con “numerico”, e la circostanza pone i professori all’interno di uno spazio dalle pretese – caricaturali – di oggettività. Pertanto la verifica cui seguirà un voto numerico rappresenta un momento cui non ci si deve “sottrarre”. Sottrarsi alla verifica – col carico di pathos che si annida in quel verbo che evoca stratagemmi, fughe, aneliti di libertà – significa compiere un vero e proprio misfatto, perché impedisce alla professoressa di riempire la casellina col suo voto.

Il voto numerico a scuola ha tutte le caratteristiche che vogliamo tranne quella del numero. Sembra un paradosso ma è così. Non misura nulla. Nessuno infatti potrebbe dire, nella vita reale, che quel tavolo è lungo due metri, ma anche due metri e mezzo. Se il tuo sei vale sette occorre stabilire cosa significa per te “sei” e cosa significa per te “sette”. In quel “per te” si annida la soggettività soggiacente al voto numerico che in genere l’insegnante medio riconosce con imbarazzo. Se dici a un insegnante che il voto numerico è una valutazione piuttosto che una misurazione, quel che generi in lui è una sorta di turbamento o di dissonanza, perché depotenzi la carica di ufficialità che egli immette non solo nel voto ma soprattutto nella relazione con gli allievi che il voto gli permette di instaurare. Ė tutto un depotenziamento. Il potere si annida proprio nell’autoconsapevolezza illusoria che quel numero dica la cosa “giusta”. Solo che gli stessi insegnanti per i quali il sei vale sette, oppure che non danno otto al primo quadrimestre o non mettono mai dieci risultano essere paradossalmente i primi a sconfessare la “giustezza” di quel numero. Perché?

Per una semplice ragione. Perché per gli insegnanti la valutazione numerica è funzione del rapporto che vogliono instaurare sia con gli allievi che col proprio sapere di riferimento. Astenersi dal dieci, per esempio, significa poter vagheggiare un’idea seducente di perfezione cui gli allievi attuali non possono accedere adesso, ma forse un giorno, chissà, oppure mai, perché la perfezione non esiste e dobbiamo sempre migliorare e potremmo fare di più bla bla bla, raccontato anche ai genitori, che difendono sempre i loro figli e quindi vanno tenuti un po’ sulla corda. Noi siamo i sacerdoti del sapere perfetto e dare dieci a un alunno significa che non gli si può più chiedere di migliorare, e invece questo è il sale della scuola, chiedere di migliorare ancora, ancora e ancora. E così il primo quadrimestre, che è come la fine del girone di andata nel campionato di calcio, deve essere il luogo del non ancora, non il luogo del già. Se no finisce che nel secondo quadrimestre l’allievo “si adagia” (altro stereotipo), cioè ritiene di essere arrivato e di non dover più migliorare, perché si sa che il voto più basso ti spinge a migliorare e il primo motore della motivazione degli studenti è proprio il voto. 

Si potrebbe dire, senza fare oltraggio alla delicata sensibilità valutativa dei docenti, che il voto ha una funzione di regolatore della motivazione degli studenti. E anche della loro capacità di emulazione, perché nulla spinge di più verso la capacità emulativa che il vedere il voto maggiore del compagno. Potenza del numero. E chi si sottrae alle verifiche si sottrae alla possibilità di capire in che “posizione” l’insegnante lo colloca rispetto al resto della classe. E allora “non ho elementi per valutare” o “non posso fare nessuna media perché ho un solo voto”, perché con tutta evidenza l’alunno lo conosci in quel momento, che è un momento “ufficiale”, in cui dichiara quel che sa e quel che sa fare. Perché negli altri momenti l’allievo è uno sconosciuto, e tutto quel che dice e che fa, tutti i suoi atteggiamenti, le foto scattate senza che egli se ne accorga, tutto questo, fuori dalla ufficialità numerica non è valutativamente rilevante. Manca il numero “congruo” di verifiche. Bastano due a quadrimestre?

 

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com