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di Maurizio Muragliastereotipando

19/01/2024

Focus-group

La recente Direttiva ministeriale in materia di educazione alle relazioni esibisce all’art.2 il “gruppo di discussione” (che il legislatore timoroso di eccesso di italianismo ribattezza come focus-group) quale modalità di intervento privilegiata per affrontare i delicati temi della violenza di genere. La misura prevede figure “formate” di docenti-moderatori incaricati di gestire gruppi di discussione. Tutto ciò fa venire in mente il genere del debate (faccio qui l’inverso e riformulo con “dibattito”) quale dispositivo orientato a stimolare il protagonismo degli studenti. Voglio qui soffermarmi su queste pratiche scolastiche per cercare di delinearne i presupposti culturali e professionali.

Il Ministero stanzia fondi perché si attivino gruppi di discussione in ambito extracurricolare con volontari. Come dire che il prof tal dei tali riunisce al pomeriggio un gruppo di discenti al di fuori del curricolo disciplinare per affrontare temi di attualità. Si tratta di una prassi che rientra tra gli innumerevoli progetti che si attivano nelle scuole. Ciò ovviamente non esclude che anche al mattino, nell’ambito delle attività curricolari, la prof tal dei tali, questa volta con tutto il gruppo classe, affronti gli stessi temi. La differenza però è sostanziale: nel primo caso si tratta di un gruppo di volontari che hanno come focus quel tema; nel secondo è tutto il gruppo classe coinvolto su quel tema, ma a partire dall’argomento che si sta trattando in aula nell’ambito del curricolo. Tenere il focus-group fuori dal curricolo al mattino significa produrre una forzatura.

In entrambi i casi occorre che chi gestisce la discussione sappia farlo. Ed un moderatore di dibattito non è affare che dipenda esclusivamente da eventuale “formazione” come il nostro Ministero ritiene, forse con un pizzico di ingenuità. Dibattere, intanto, presuppone avere voglia di dire qualcosa, e già a questo livello generare voglia di discutere è un’abilità non scontata. Può farlo soltanto chi è abituato a dibattere ed è intimamente convinto che il dibattere accresca conoscenza e consapevolezza. Si tratta in altri termini di chi assume il dibattere come abituale pratica dell’insegnare. Di più: chi fa dell’insegnare, con naturalezza, una pratica interlocutiva e democratica. Non c’è “formazione” che possa innestare tutto questo in chi considera l’insegnare in modo unidirezionale e trasmissivo.

A ciò si aggiunge la capacità di costruire conoscenza collettiva armonizzando i singoli interventi e consegnando ai dibattenti una percezione di auctoritas che fatalmente, carismaticamente direi, alcuni docenti possiedono ed altri no. Non è neppure qui questione di formazione o di incentivazione. Gestire un dibattito è una competenza professionale raffinata, culturalmente evoluta, che non si improvvisa. Non è estranea a questa considerazione neppure la necessità di un’assoluta padronanza dell’argomento di cui si discute ed una socratica capacità di “non saperne nulla”, che rende credibile agli occhi dei ragazzi la figura che sta moderando il dibattito.

Insomma, al di là delle stereotipate illusioni sui focus-group che discutono su temi scottanti, sarebbe più opportuno riflettere su quanto attualmente la pratica della discussione faccia parte integrante della prassi di insegnamento. La formazione per la cittadinanza e la crescita umana globale riceverebbero un forte impulso da un’attitudine generalizzata della scuola a fare conversazione continua [1] di quanto si apprende, nella convinzione - sorretta dalla filosofia contemporanea, filone ermeneutico -  che ogni conoscenza non è altro che la risposta ad una domanda e che l’accesso alla stessa conoscenza è sempre un accesso mediato dallo sguardo soggettivo, e tale sguardo va allenato e messo in discussione con altri sguardi. Quel che viene chiamato conflitto delle interpretazioni.


[1]È quel che intende Bruner quando parla della cultura come forum: “Da questa concezione della cultura come forum - si legge in La mente a più dimensioni, Laterza 2005 - discende che, se l’inserimento del giovane nella cultura mediante l’educazione deve servire ad avviarlo alla vita vissuta, allora anche l’educazione dev’essere improntata allo spirito del forum, della negoziazione e della ricostruzione del significato. Senonché, una conclusione del genere cozza contro tradizioni pedagogiche legate al passato, nonché contro un’altra interpretazione della cultura e un’altra concezione dell’autorità: in una parola, contro l’idea che il processo educativo consista in una trasmissione di conoscenze e valori da chi sa di più a chi sa di meno, da chi è più competente a chi lo è meno. Ad un altro livello, queste tradizioni pedagogiche poggiano altresì su altre presupposizioni secondo cui il giovane è sprovveduto non solo sul piano conoscitivo, ma anche su quello morale, essendo incapace di cogliere le proposizioni di valore ed il senso sociale. Egli sarebbe non soltanto privo di quelle conoscenze del mondo che, infatti, gli devono essere impartite, ma anche ‘carente’ sul piano dei valori”.

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com