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di Maurizio Muragliastereotipando

27/10/2023

FragilitĂ 

Si sa che quando una parola tratta dal linguaggio comune entra nella scena scolastica è altamente probabile la sua progressiva trasformazione in stereotipo. Se così non fosse, questa rubrica non avrebbe alimento per la sua sussistenza. Il fenomeno meriterebbe un approfondimento, che però non pertiene a questo spazio, in virtù del carattere di leggerezza che la rivista ha inteso assegnargli. Chi avesse voglia di ragionare in modo più analitico sul tema degli stereotipi scolastici può utilmente leggere un altro mio contributo.

Da un po’ di tempo si aggira a scuola la parola fragilità. Nel senso comune il suo significato è di tutta evidenza. Connotato che attiene tanto agli oggetti quanto alle persone, fragilità si contrappone a solidità o, nel caso di umani, a forza. Nelle aule scolastiche, e nelle carte che di questi tempi vanno riempite per giustificare i fondi del PNRR, è sempre più presente la fragilità come categorizzazione dei discenti. I moduli da compilare in fase di programmazione degli interventi devono presupporre un’attenta analisi, da parte dei docenti, delle fragilità presenti nelle classi.

Le programmazioni contengono sempre più spesso il termine, che ha una sua patina di inclusività, perché non si limita a designare quella che un tempo si definiva brutalmente come “ignoranza” ma in qualche modo riconduce le carenze di apprendimento ad una condizione generale, cognitiva ed emotiva, di difficoltà o disagio, appunto di fragilità. Chi è l’alunno fragile? Ad intervistare campioni di docenti, ci si imbatterebbe grosso modo in due scenari interconnessi: lo scenario didattico legato agli apprendimenti e lo scenario socioaffettivo legato alle condizioni extracurricolari, si potrebbe dire.

Fragile è l’alunno che esibisce valutazioni insufficienti, che mostra carenze, che si distrae in classe, che compie monellerie. Approfondendo la diagnosi, se ne conclude che il suo quadro familiare è precario, che la sua motivazione è inesistente, che questo, che quello, insomma ci si avvicina sempre più a varcare il confine della “normalità” per entrare nello spazio della “specialità”. Quell’alunno è fragile perché portatore di bisogni speciali. Da qui alla compilazione delle carte il passo è breve, perché la famiglia esige un trattamento speciale in quanto non si fida della capacità dei docenti di praticare naturaliter un insegnamento per tutti, normali e speciali, senza aver bisogno di patti chiari nero su bianco. Un insegnamento secondo Costituzione, per intenderci. Insegnamento da scuola pubblica, cioè di tutti e per tutti.

Dunque, molte volte il fragile è un cosiddetto BES, naturalmente a patto che la squadra di medici messa in campo dalle famiglie apprensive non vada a scoprire quel disturbo particolare, organico, ultraspecifico, che rende difficile l’apprendimento, appunto un disturbo specifico dell’apprendimento, acronimo DSA che rende ancora più evidente la fragilità e più cogente la necessità dei cosiddetti strumenti dispensativi e compensativi, insomma di tutto quell’armamentario inclusivo che un docente medio deve mettere in campo per quei due tre un po’ così, continuando magari per tutti gli altri a dare manganellate di voti, punteggi, medie e ti-metto-due. Messa la museruola ai docenti cattivi, le famiglie plaudono alla salvaguardia del figlio o della figlia fragile.

È questa la torsione dell’idea di inclusione e didattica inclusiva di cui ho avuto già occasione di ragionare in altro contributo. Medicalizzare o ghettizzare la fragilità serve soltanto a giustificare una didattica non inclusiva rivolta a tutti coloro che ci si illude non essere fragili. Lo stereotipo nasce dal fatto che una parola attinente all’umano in quanto tale (inclusi docenti, dirigenti, ispettori, ministro) assume veste tecnica e categorizza specifici individui verso cui ci si sente in dovere di fare una scuola diversa, più buona, più empatica, maledicendo poi le dannate carte che obbligano a far promossi alunni che non lo meriterebbero. Eccolo, il merito.

E così, col passare degli anni, nelle classi i fragili sono sempre di più. “Sono fragili questi ragazzi di oggi”, è la giaculatoria delle sale professori, con significativo slittamento da una fragilità clinica ad una fragilità sociologica, che addirittura investe anche le famiglie, più fragili dei loro alunni. Insomma, è tutto un proliferare di fragilità che induce a riflettere. Ma, di forte, chi è rimasto a scuola?

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com