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di Maurizio Muragliastereotipando

15/12/2013

Non sono scolarizzati

Vi è un motivo ricorrente, in queste prime riunioni collegiali, tra gli insegnanti delle prime classi delle scuole superiori. Esso, per la verità più frequente al negativo che al positivo, si condensa nella celebre affermazione: “Non sono scolarizzati”. Come al solito, occorre smascherare la pedagogia implicita nello stereotipo, ma per farlo bisogna chiedersi qual è la fenomenologia di una classe non scolarizzata secondo gli insegnanti. In altri termini occorre indagare l’orizzonte di attesa di un gruppo di insegnanti delle superiori e l’accezione che essi danno al termine “scolarizzato”, che come si può ben vedere è un participio passato dal valore passivo. Implica cioè che sia stata compiuta un’azione di uno o più soggetti nei confronti di altri. Quale azione?
L’azione è quella espressa dal verbo “scolarizzare”. Io scolarizzo, tu scolarizzi ecc.  La scuola scolarizza. Se non scolarizzasse d’altra parte che scuola sarebbe? Eppure, se è possibile affermare che un gruppo di quattordicenni non è scolarizzato significa che fino a quell’età la scuola non ha realizzato il suo compito. Davvero pessima è una scuola che non scolarizza. Curiosamente fino al ciclone Gelmini la nostra scuola dell’infanzia e la nostra scuola primaria figuravano ai primi posti delle graduatorie internazionali di rendimento e questo avrebbe dovuto voler dire che la nostra scuola dei piccoli eccome se scolarizzava! Le comparazioni internazionali peraltro facevano notare - esattamente come adesso - come fosse proprio la nostra scuola superiore l’anello debole del sistema ovvero proprio quella che pronuncia spesso il giudizio di “non scolarizzazione”.

È evidente che qualcosa non quadra. Vi è cioè una evidente discrasia tra le attese del secondo ciclo e la filosofia di lavoro del primo. Se una classe non è scolarizzata che diamine avranno fatto gli insegnanti del primo ciclo? Avranno visto soltanto cartoni e film? Avranno fatto lavorare soltanto in gruppi? O fatto elaborare cartelloni? O allestire recite? Giornalini di istituto? Giochi di ruolo? O altre attività più o meno ludiche che fanno magari muovere i ragazzini da un punto all’altro della classe? Boh! Chissà come avranno fatto le maestre e i docenti della media a “non scolarizzare” questi fanciulli…
In realtà non sfugge che a monte dell’idea di scolarizzare ci deve essere un’idea di scuola. Una scuola che… scolarizza cosa fa? È qui l’embrione della pedagogia implicita di cui andiamo in cerca. Andando ancora più a fondo, posto che non dovrebbe mancare il consenso sul fatto che la scuola deve insegnare e gli alunni devono imparare, la domanda che incalza diventa ancora più pregnante: come fa la scuola che scolarizza a fare imparare i ragazzi? Come si fanno imparare i ragazzi? Come avviene il loro apprendimento? Una scuola che scolarizza dovrebbe creare un ambiente idoneo all’apprendimento. E qual è un ambiente idoneo all’apprendimento?

Da alcuni anni il Ministero dell’Istruzione manda a dire agli insegnanti del primo ciclo – cioè quelli che non… scolarizzerebbero – che l’ambiente più idoneo all’apprendimento dovrebbe avere alcune caratteristiche: laboratorialità, cooperazione, riflessività, valorizzazione dell’esperienza dei ragazzi, esplorazione e scoperta. Si dice anche che queste cose dovrebbero prendere il posto del tradizionale impianto trasmissivo dell’insegnamento, che è quella cosa per cui un insegnante sale in cattedra, comincia a spiegare cose che sa lui o che sono scritte sul libro di testo, vuole che i ragazzini stiano ad ascoltare “attenti”, lascia i compiti per casa e poi aspetta il rendimento dei suoi alunni. Non vorrei essere impertinente, ma ho la sensazione che questo tipo di ambiente sia proprio quello delle scuole superiori. Dunque c’è un'aporia. Vediamola meglio.
Se il Ministero dice alle scuole del primo ciclo che l’ambiente più idoneo all’apprendimento è quello che i ragazzini non troveranno alle scuole superiori, vuol dire che la scuola che scolarizza sarebbe proprio quella del primo ciclo. E allora com’è possibile che i docenti del secondo ciclo dicano spesso che i ragazzini delle prime non sono scolarizzati? Vorranno forse dire che non lo sono perché non stanno sempre con lo sguardo fisso su uno che parla? O perché si muovono nel banco? O perché cercano di comunicare con altri compagni? O per altri atteggiamenti non riducibili a un assetto preuniversitario? Vorranno forse dire che non sono scolarizzati perché tentano di essere…. umani? Mi rendo conto che questa rappresentazione della scolarizzazione secondo le scuole superiori risulta essere ingenerosa nei confronti di quelle didattiche che invece sfuggono allo schema trasmissivo qui descritto. Pieno rispetto per queste ultime, ma a giudicare da quel che si vede in giro non mi pare che siano proprio la maggior parte.

L’aporia rimane tale. Se la scuola che è… pienamente scuola è quella che il Ministero delinea nel primo ciclo i casi sono due. O il primo ciclo non onora i suggerimenti del Ministero, mentre il secondo ciclo vorrebbe costruire ambienti di apprendimento coinvolgenti, partecipativi, riflessivi e quant’altro, oppure il primo ciclo fa bene la sua parte, ma il secondo ciclo vorrebbe che non la facesse. Che dire? Forte è il sospetto che le cose stiano in quest’ultimo modo. Forte cioè è il sospetto che il secondo ciclo desideri trovarsi nelle prime classi ragazzine e ragazzini disciplinati, attenti, motivati allo studio, ben attrezzati sui contenuti, insomma quella roba umana che si troverà forse in qualche Liceo Classico, ma forse neppure lì, stando a quanto dicono molti colleghi di quell’indirizzo di studi.

Cercasi alunno scolarizzato a quattordici anni dunque. E cercasi anche chi riesca a spiegare ai docenti italiani com’è possibile tenere insieme cose che è davvero difficile tenere insieme. Per esempio, la motivazione con la trasmissione di contenuti; oppure le competenze con i voti numerici; o la cooperazione con il silenzio in classe; o ancora la riflessività con la corsa a finire il programma; l’assetto laboratoriale con la lezione cattedratica frontale. Insomma, come si deve far scuola ad un alunno perché sia… scolarizzato? Quante cose deve sapere perché risulti tale? La scuola italiana non può rispondere a queste domande. E non può rispondere perché gioca su due tavoli. Il tavolo nozionistico e il tavolo formativo. Il primo tavolo richiede una scolarizzazione a forte iniezione di contenuti che chiamano risultati, traguardi, voti, statistiche e quant’altro. Il secondo tavolo richiede una scolarizzazione a forte iniezione di stimoli culturali legati al vissuto degli studenti che chiamano processi, descrizioni, contestualizzazioni, interpretazioni e quant’altro. Qual è la “giusta” scolarizzazione? Quella che si gioca sul primo tavolo o sul secondo? O entrambe? Chi farà unità e ci svelerà l’arcano?

Anche altrove, certo in modo più estremo, se ne parla… Da "Scuola libertaria".

 

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com