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di Maurizio Muragliastereotipando

12/04/2023

Tendono a distrarsi...

Chi non ha mai sentito una frase del genere in un consiglio di classe, di qualsiasi ciclo? La sua accoglienza in questa rubrica, e quindi la sua riduzione a stereotipo, nasce dal convincimento, come davanti a tanti altri stereotipi, che chi la pronuncia offra una scatola vuota. Dentro non c’è nulla, se i destinatari la aprono. E nessuno tra questi osa squarciare il pirandelliano cielo di carta con la domanda: “Embé?”. In termini più espliciti: e perché si distraggono? Sarebbe infatti una domanda imbarazzante, perché conterrebbe un implicito tale da richiedere ore, giorni, settimane di ragionamento. E un consiglio di classe è programmato al massimo per un’ora. È un luogo di adempimento, non di ragionamento.

La trincea del ragionamento può essere un breve contributo come questo. Che ha il compito di scavare negli impliciti. In questo caso sembrerebbe che qui si voglia ragionare sulla distrazione dei ragazzi. No. Almeno, non solo. L’intento è più sottile: si vuol ragionare sul senso che chi lamenta la distrazione vuole dare alla sua lamentela. Un po’ come dire: colleghi, questi ultimamente si distraggono. Non è che possiamo far finta di niente. A questo punto, delle due l’una: o chi nota la distrazione vuole invocare strumenti didattici evoluti che possano coinvolgere gli allievi (ipotesi remota), oppure vuole soltanto attirare l’attenzione sul fatto in sé, magari invitando la comunità a serrare i ranghi con opportuni richiami all’attenzione. Con tutta evidenza siamo davanti ad una disattenzione in tutte le discipline. Se lo fosse solo con qualcuna il discorso si potrebbe complicare. Ma la proverbiale discrezione dei nostri organi collegiali non lo permetterebbe mai.
 

Come che sia, può servire qui lavorare sulla parola distrazione e su quel che può seguirne in termini di riflessione sull’insegnare e sull’imparare. Non senza una premessa però. Doverosa.
Questo discorso non è decontestualizzato. Cento anni fa nacque Lorenzo Milani e lo scritto dei suoi allievi di Barbiana ancora riecheggia tutte le volte che la famosa professoressa della lettera è chiamata in causa per la sua ineffabile attitudine a fare una scuola pedante, che espelle i poveri e annoia i ricchi. Non solo, ma è recente l’altrettanto ineffabile introduzione di un ulteriore dispositivo deresponsabilizzante (come i BES, i PDP, l’educazione civica e altra roba pedago-ministeriale) quale il tutor orientativo
che la Repubblica forma e sovvenziona per far capire a quelli che si distraggono troppo che forse hanno sbagliato indirizzo di studi.

Milani ed il tutor, a loro volta, non sono slegati tra loro. Camminano ancora insieme, perché quella professoressa, quella che se-il-compito-è-da-quattro-gli-do-quattro, è ben presente con le sue nipotine (o nipotini, per carità!) che ancora pensano che il mondo giri come prima di Copernico. “Maledetto sia Copernico!”, esclama Mattia Pascal di fronte al disordine determinato dalla crisi di tutte le certezze. Tranne quelle della prof che vede un compito da quattro.  

Opportunamente contestualizzata, si ragiona brevemente qui sulla parola distrazione. Cioè l’azione del farsi trascinare fuori da un binario. Deragliare. Scantonare. Una cosa tipo la diritta via era smarrita. Persino il buon padre Dante si smarrì… “imagini di ben seguendo false”, come gli rimprovererà la sua Beatrice. Andando appresso a illusioni di bene. Insomma, distraendosi. Chi si distrae è attratto da altro che individua più o meno consciamente come bene, oppure semplicemente segue il corso dei suoi pensieri. Insomma, sta altrove. Talvolta è un solo allievo o una coppia di allievi a distrarsi, talaltra è tutta la classe. Fatto sta che la distrazione è un movimento divergente rispetto al convergere auspicato dagli insegnanti. Che lo conoscono bene: soprattutto durante i Collegi docenti o certi corsi di aggiornamento fatti per avere l’attestato… 

Nella seconda delle ipotesi sopra ventilate, cioè quella che auspica un energico richiamo all’ordine, avverrà che bisogna intimare all’alunno o alla classe di stare “attenti”. Ma perché un essere umano deve stare attento a qualcosa? Perché deve stare “dentro” a ciò che ascolta (stare in mezzo in latino è inter-esse)? Se non capisce il perché, qualcuno glielo spiegherà? Non è abusivo indicare il senso di ciò che si fa a scuola. Come dire che l’insegnante può indicare quel che per lui (o per lei) è il senso di ciò che spiega, ma il significato, cioè la lettura di quell’indicazione come segno di qualcos’altro, tocca all’allievo. E se l’allievo non percepisce il significato per sé di quello che ascolta, buonanotte ai richiami all’attenzione.

Tutto ciò vale a fortiori per i più piccoli delle primarie, che ancora, a quanto mi consta, fanno tanta scuola seduti su un banchetto ad ascoltare la maestra, alla faccia di tutta la retorica e i corsi di aggiornamento sullo spazio, il tempo, il movimento, il corpo e le emozioni. Se ne vedono maestre lamentarsi della distrazione dei piccoli, e ancora tutto sommato non si profila all’orizzonte l’imminente tutor. Ma quando la distrazione avrà accompagnato la pubertà, o insomma quel che si chiama preadolescenza, cioè il tempo delle scelte, prima ancora che spunti qualche diagnosi di ipercinesia (o forse contestualmente) si materializzerà il nuovo messia dell’inclusione e dell’orientamento, il Tutor, in grado di spiegare ai genitori che un alunno che si distrae continuamente sarà certamente portato-per-indirizzi-di-studio-pratici-dove-si-sta-impegnati-in-laboratorio-perché-l’astrazione-bla-bla…

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com