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di Maurizio Muragliastereotipando

14/07/2022

Utilizzare le conoscenze acquisite

Se si vuol perdere un po’ di tempo a esaminare i descrittori di molte griglie di valutazione, ci si accorgerà del frequente utilizzo (ops!) del verbo utilizzare. E se si vorrà perdere ulteriore tempo in disquisizioni semantiche, ci si potrebbe accorgere anche del rapporto ambiguo che questo costrutto intrattiene con la realtà del verificare e del valutare scolastico. Cosa si vorrebbe dire di concreto col verbo utilizzare, senza cadere nella trappola dello stereotipo? Meglio: cosa dovrebbe osservare un insegnante nei suoi allievi per potersi pronunciare in modo non dico attendibile (bello sarebbe), ma almeno comprensibile e comunicabile, sulla loro capacità di fare utilizzo di qualcosa?

Per fare un solo esempio tra tanti, a volere dare un’occhiata alla griglia di valutazione del colloquio degli Esami del secondo ciclo, ci si accorge che il verbo utilizzare dispone di almeno due oggetti: i metodi e le conoscenze. Per la verità, anche i contenuti talora sono implicati nel processo di utilizzazione quando vengono associati ai metodi, ma per lo più sono destinati in quanto tali a subire un altro genere di trattamento, quello della “acquisizione”. L’allievo acquisisce contenuti e utilizza metodi. Poi, ad un altro livello della griglia, utilizza le conoscenze, e sembrerebbe che le utilizzi perché le “collega”, una volta che le abbia acquisite (sì, anche quelle acquisisce).

Insomma, se si volessero radunare questi nostri amici lessicali in un'unica performance avremmo un descrittore come quel che segue, effettivamente previsto dalla nostra griglia: “È in grado di utilizzare le conoscenze acquisite collegandole in una trattazione pluridisciplinare articolata”. Si tratterebbe del quarto livello relativo al secondo indicatore. Significa che questo tipo di allievo sarebbe non proprio eccellente, ma certamente molto bravo, se gli insegnanti saranno stati - essi sì - in grado a loro volta di fare in sede valutativa la stessa cosa che fa l’allievo in sede performativa. Cioè di utilizzare le (loro) conoscenze (sull’alunno) acquisite (nel corso del tempo) collegandole in una trattazione pluridisciplinare (cioè la valutazione, frutto di pedagogia, psicologia, didattica, epistemologia, sociologia) articolata. Curiosa questa comunanza di destino tra allievo e commissione.

Come che sia, secondo la griglia occorrerebbe osservare se l’allievo abbia acquisito, utilizzato, collegato e, magari, argomentato. Ma il focus mi pare che resti quell’utilizzare, che in fondo assume in sé, e coordina, tutti i processi cognitivi che stanno nell’acquisire, nel collegare e nell’argomentare. A ben pensarci, dentro questo verbo è possibile mettere storia dell’educazione e dell’istruzione, dibattito contemporaneo, manuali di pedagogia e didattica, misure normative (tipo alternanza scuola lavoro o educazione civica). Utilizzare vuol dire rendere utile, fruibile, sdoganare da armadi cognitivi inerti, in cui il sapere sonnecchia senza che si riesca a svegliarlo dal torpore. Questo per il nostro esaminando. E dunque anche per chi insegna vuol dire risvegliare il verbo utilizzare dal torpore di aride griglie ministeriali, che rischia di ridurlo a stereotipo.

La questione se il sapere scolastico debba essere “utile” ha fatto versare, come si suol dire, fiumi di inchiostro, o di giga se vogliamo. Forse un tempo il sapere doveva essere acquisito e ripetuto, e stop. Poi le idee di “rielaborazione” (c’è pure il rielaborare nelle griglie) e di “ricostruzione” (troppo sofisticato per una griglia) hanno preso giustamente il campo e si è capito che il sapere va utilizzato, ma resta la domanda inevasa: che vuol dire che l’allievo utilizza quel che ha imparato? E in quali contesti deve farlo? E in sede di esame com’è possibile constatarlo? Il legislatore sembrerebbe  rispondere che l’evidenza dell’utilizzare, agli esami, consiste nel collegare e nell’argomentare e che quindi, poniamo ad esempio, se il contenuto - o la conoscenza: sinonimi? e se lo sono perché usare due termini diversi? - è il boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta in Italia, l’allievo non può limitarsi a far vedere che lo ha “acquisito”. Deve utilizzarlo. Bella faccenda. I commissari stanno lì ad attendere che egli a un certo punto faccia qualcosa di più che far vedere l’acquisizione: un effetto speciale, un colpo di coda, un’incursione in un’altra disciplina (ahi, la trasversalità!), un riferimento all’attualità del consumismo, un parere personale, insomma che dia un’anima a quel sapere meramente acquisito. Ma “dare un’anima” forse è troppo sentimentale e ripugnerebbe all’austero tecnico ministeriale. Insomma, ogni insegnante spera che il suo allievo utilizzi ciò che sa, senza che, per dimostrarlo, debba necessariamente avventurarsi nei famosi compiti di realtà o autentici che dir si voglia. A volte, piuttosto che di elefantiache unità di apprendimento (lo riconosco: anch’io ho insegnato ai docenti a farle), ci sarebbe bisogno di discutere con i nostri ragazzi.

Sì, discutere. Di ogni argomento che sta nella loro testa si può discutere. Discutere di ciò che è acquisito. O discutere per acquisirlo. Ma lo devi fare ogni giorno in classe, non puoi tirarlo fuori agli esami. Ogni giorno la scuola può essere utile, e se la parola fa allergia la si può sostituire con viva, vitale, magari democratica. Queste parole con tutta evidenza in una griglia non possono entrare, perché politicamente implausibili.  Ma come ci starebbero bene….

 

Di che cosa parliamo

Traendo spunto da espressioni molto popolari negli ambienti scolastici, la rubrica scava nelle logiche implicite di certe affermazioni e lascia intravedere quale concezione di scuola e di didattica a esse soggiace. È un’occasione per rimettere a fuoco alcuni fondamentali della professione tentando di smascherare le pedagogie implicite che si annidano dietro i miti e i riti linguistici della scuola.

L'autore

Insegna Lettere in un Liceo di Palermo. In qualità di esperto di questioni educative e didattiche svolge attività di formazione per le scuole e scrive su riviste specializzate. È  anche opinionista de "la Repubblica" di Palermo sugli stessi temi. I suoi interessi riguardano soprattutto il rapporto tra curricolo, saperi e competenze. Sul curricolo nel 2011 ha pubblicato un libro per Tecnodid.

www.mauriziomuraglia.com