Hanno quindici, sedici anni, fanno sesso a pagamento, frequentano la scuola superiore e si vendono per poco -non importa la cifra- è sempre comunque poco. Fanno scommesse tra loro, si sentono grandi e postano foto su face book piene di baci, di capelli sugli occhi, calze a rete e smalto decorato sulle dita. Durante gli interrogatori nessuna vergogna, anche se meno spregiudicate delle telefonate in cui sono state intercettate. Solo una di loro ha pianto: quando le hanno portato via il cellulare.
È l’adolescenza che scivola tra web e realtà, che lascia sgomenti gli adulti e indignati i commentatori (come se ignorassero una regola aurea del giornalismo: le tre esse che fanno vendere sempre sono sesso sport e soldi). È l’adolescenza di cui sentiamo parlare da anni, che ogni volta scatena un fiume di parole. Le nostre, non le loro. Perché, da Roma a Milano, in questi giorni, c’è un dato che più sconcerta: non hanno molto da dire, niente nemmeno per giustificarsi. Quello che sono è tutto lì, nelle centinaia di scatti disseminati sul web. È il ground zero della narrazione: non si raccontano, non danno senso alla loro storia con le parole; l’identità si costruisce immagine dopo immagine, collezionando "mi piace" e cuoricini e adesivi sulle bacheche dei social network. Le foto restano, le vite continuano a bruciare, mentre gli adulti – quelli che non sono impegnati a sfruttare le ragazze – non sanno davvero cosa fare.
Adolescenze misteriose, in cui si corre in avanti nel tempo, si diventa grandi inoltrandosi nelle strade del sesso a pagamento. Sono figlie, queste adolescenze, di tanti anni televisivi, in cui hanno mosso i primi passi le ninfette, le letterine, le veline; sono cresciute, queste adolescenti guardando programmi pieni di balletti per ritrovare qualche tempo dopo le loro coetanee nel sottobosco dei palazzi di potere; e sono finite, queste ragazze che sono state a guardare e nel frattempo qualcosa hanno imparato, nei bagni delle scuole. Incapaci di aspettare persino il sabato pomeriggio o la sera in discoteca. Ogni momento è buono per fare quello che si vuole, con chi si vuole.
Non tutte le adolescenze sono così, certo. Solo quelle che non hanno avuto modo di vedere altro, nella vita; quelle che non hanno avuto l’opportunità di sentirla in un altro modo, la vita.
Andare a scuola non basta. Anzi, la cattiva scuola, quella che non richiede impegno, quella senza fiducia e senza passione un po’ assomiglia a loro: non dà peso a quello che accade, non costruisce la propria identità sulla narrazione, su raccordo del sapere e delle conoscenze con la vita di chi la frequenta, ma si accontenta della presenza e delle immagini prive di senso. Hanno bisogno di crescere entrambe, la scuola e l’adolescenza, di ritornare, ciascuna a vivere il proprio tempo e ad avere il coraggio di pensare, immaginare, persino sognare il futuro.
Nella zona grigia da "Repubblica. D Famiglia", 12.11.2013