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Cidi TorinoSì, cambiamo la scuola (davvero)!

24/05/2015

Ragioniamo di valutazione dei docenti

Ospitiamo questo ampio contributo  di Nicoletta Gazzeri al dibattito e alla elaborazione,  pervenuto al Gruppo di coordinamento di "Sì, cambiamo la scuola (davvero)!" .

di Nicoletta Gazzeri

L'approvazione del Ddl sulla scuola alla Camera ha trovato ampia risonanza nell'opinione pubblica.
Il consenso che parole d'ordine come “merito” e “valutazione dei docenti” ottengono fuori del mondo scolastico (cui corrisponde una fortissima resistenza al Ddl governativo all'interno del sistema scuola) evidenzia che il dibattito si gioca su diversi ordini di problemi e di obiettivi non detti, forse neppure chiari alle stesse parti interessate.
La rapidità con cui si procede in Parlamento sorvolando sulle obiezioni e sulle motivate riserve contiene almeno un assunto non dichiarato. A esplicitarlo potrebbe suonare così: “nella scuola pubblica decenni di egualitarismo nel trattamento del corpo insegnante hanno prodotto un disagio di studenti e famiglie circa un certo numero (non meglio precisato) di docenti inadeguati e, di fatto, inamovibili”.
D'altra parte la natura della protesta degli addetti, che è arrivata a respingere e screditare completamente la proposta del governo malgrado altri aspetti certamente coraggiosi che essa contiene (ad esempio quanto alla formazione e all'ingresso in servizio dei docenti, alla fine del precariato, alla ripresa degli investimenti sul sistema scolastico), può far supporre che da parte di una o più componenti della scuola ci sia interesse a lasciare semplicemente le cose come stanno, tacciando di aggressione alla dignità dell'istituzione ogni proposta di cambiamento.
Detto ciò vorrei entrare nel dettaglio di una specifica questione: ossia la valutazione dei docenti, che nel Ddl, al di là degli slogan, non mi sembra posta in una forma appropriata per condurre a soluzioni efficaci. Anzi, ritengo che il dispositivo contenuto nel Ddl minacci molto concretamente di produrre, malgrado le intenzioni, effetti deleteri e durevoli, se non irreparabili, sul sistema scuola.

Valutare: cosa come e perché
E' francamente piuttosto impressionante che nel Ddl e nel dibattito politico avviato dalla pubblicazione del piano “La Buona scuola” si sia introdotto il tema della “valutazione dei docenti” senza che venga posto minimamente in discussione di che cosa si tratti. Con il risultato che parlando di “valutazione” si dice e si produce di fatto tutt'altro, senza neppure che se ne dia consapevolezza.
Chi ne discute, ne parla o ne ha scritto in questi mesi molto raramente si è posto le domande che dovrebbero precedere qualsiasi dibattito dotato di senso: che cosa si vuole valutare? In che cosa consiste il “merito” dei docenti? Valutare per quale scopo? Valutare su quali parametri?
Non se ne ravvisa traccia né nel Ddl (salvo in elencazioni di “criteri” che suonano come petizioni di principio), né nelle dichiarazioni governative.
Il documento della “Buona scuola” conteneva bensì il riferimento alla prevista definizione di un “quadro italiano di competenze dei docenti” (oggi assente) di cui successivamente si è persa traccia nel Ddl, salvo non chiarire affatto come esso fosse spendibile nella valutazione d'istituto e tra docenti “pari” posti tra loro in competizione, come nel testo si prefigurava.
Se ne ricava l'impressione innegabile che si debba “correre” a valutare i docenti, rafforzando a tale scopo i poteri discrezionali del dirigente, ma non sapendo, o non dicendo, su quali aspetti e con quali strumenti.

A costo di sfidare l’ovvio, mi sembra il caso di richiamare che in ogni processo valutativo bisogna definire in partenza almeno tre cose fondamentali:

  • l'oggetto della valutazione: “cosa” si sta valutando.
  • lo scopo con cui si valuta; quali obiettivi si perseguono.
  • il metodo con cui sarà conveniente valutare.

Per quanto riguarda l’oggetto, trattandosi di docenti, sembra evidente che ciò abbia a che fare con il tema della qualità del lavoro del docente. Tema per nulla definito, come si dirà oltre. 
Rispetto allo scopo, agli obiettivi perseguiti, c’è da chiedersi innanzitutto se si tratta di obiettivi interni o esterni all'attività di insegnamento vera e propria. Vale a dire: si vuole innalzare la qualità del lavoro compiuto dal docente “con” e “sugli” allievi? Oppure (più probabilmente) si vuole promuovere la compattezza del corpo docente dietro un unico modello di offerta formativa adottato dall'istituto scolastico, escludendo le “divergenze”? Oppure aumentare il grado di semplice disponibilità del docente stesso negli adempimenti e nelle funzioni aggiuntive rispetto all'attività di insegnamento (in parole povere: premiare chi sta a scuola più ore)? O forse si mira a sanzionare chi arriva in ritardo a lezione?
Ci si può chiedere in effetti chi sia il depositario della definizione di tali scopi. A chi “appartengono”? Al corpo docente, alle famiglie, al dirigente? Quale prospettiva andrà perciò abbracciata? A titolo di esempio sulla questione e sulla sua centralità, si può notare che c'è una bella differenza tra misurare la preparazione e il curriculum professionale del docente, registrare la soddisfazione degli studenti o delle famiglie oppure semplicemente la “soddisfazione” del dirigente scolastico e dei suoi diretti collaboratori.
Infine vi è il problema del metodo, che comporta anche la scelta degli strumenti da utilizzare.
Se si ha in vista la crescita professionale dei docenti nonché la loro motivazione dovrebbero consigliarsi modalità partecipative, che sono adatte a contenere la conflittualità, ad aumentare la collaborazione e l'“intelligenza collettiva” del corpo insegnante (oggi deboli) e quindi a fornire, insieme con i risultati, degli strumenti di autoanalisi e di arricchimento professionale, sia individuale sia condiviso (la direzione in cui sembra andare d'altronde, almeno nelle intenzioni, l'avvio del Sistema nazionale di valutazione con l'autovalutazione di ogni istituto scolastico).
Per obiettivi volti invece all'accountability del lavoro insegnante (qualità della prestazione erogata, ovvero dell'insegnamento) si dovrebbe prevedere una valutazione esterna, il più possibile competente, imparziale e oggettiva (del tutto assente nelle previsioni del Ddl). Per “competenza” si intende anzitutto, in modo del tutto evidente, che i valutatori dovrebbero tener conto della disciplina di insegnamento del docente.
Mentre non si giustificherebbe una valutazione “gerarchica” o anche “tra pari” se non per la verifica di una corrispondenza del docente a disposizioni superiori oppure a scelte adottate a livello di istituto. Il tema merita una postilla: questa è l'unica verifica riconducibile in modo oggettivo alla figura del dirigente scolastico. Tutto il resto è arbitrario. A meno che non si consideri il dirigente stesso come ministro di valutazioni esterne quali i test Invalsi o simili, su cui dovrebbe esercitare una vigilanza meccanica e sanzionatoria. Il tema della valutazione del dirigente – non a caso assai vago – rinvia a sua volta alla definizione di ciò che è, di fatto e non per affermazioni di principio, sotto il suo controllo.
Confondere tali metodologie, adottarne una per dichiarare poi di perseguire obiettivi incongruenti, oltre ad essere errato e inconcludente (un rischio concreto), può portare ad esiti deleteri.
Lo strumento ”dirigente scolastico + Comitato di valutazione” non sembra essere stato individuato in base a questo processo, ma - come vedremo- per altri generi di considerazioni, lasciate implicite.

Stabiliti finalità e oggetto della valutazione e il metodo più idoneo, allora si dovranno definire i risultati attesi e i parametri in base ai quali risulterà opportuno osservare il “merito” del docente. Chiunque si occupi anche poco della valutazione (e la scuola se ne occupa!) sa che, senza questo passaggio, si ricade nell'arbitrarietà di processi opachi, soggettivi, reticenti quanto a scopi e presupposti. In altre parole, privi di ogni serietà e forieri di sviluppi senza possibile controllo.
Difficile, insomma, pensare di valutare la qualità del lavoro didattico di un docente senza prevedere un quadro di riferimento delle conoscenze, esperienze, competenze, prestazioni attese. Che, in buona misura, dipenderanno anche dal diverso statuto epistemologico delle discipline insegnate, dall'evoluzione della rispettiva didattica, dal rango che a tali discipline è attribuito all'interno delle finalità del sistema di istruzione nazionale. E, in ultima analisi, dall'idea di scuola che si vuole perseguire, e dall'idea di docente funzionale a tale scuola.
E' possibile che si ragioni di questo tema senza aprire in merito un dibattito, o almeno chiarire i presupposti su cui si presume di “valutare”? La scuola italiana si merita questo livello di approssimazione e di disonestà intellettuale?

Se si volesse...
Quanto fin qui detto mostra a sufficienza come il tema della valutazione dei docenti sia al centro del disegno di scuola che si vuole adottare per il futuro e quindi non possa essere preso alla leggera, pena una indesiderabile eterogenesi dei fini.
Vorrei ricordare alcuni dei valori più forti in gioco, che chiunque lavori nella scuola sa  corrispondere a ricchezze ed energie di fatto.

Il “merito” del docente: un oggetto “plurale”
La qualità dell'insegnamento è un concetto plurale, composito. Al di là degli apprendimenti
quantitativi degli allievi (gli unici misurabili con il modello dei test; più difficile è il rilevamento
delle “competenze” che è tema sterminato ancorché legittimo), è troppo importante ricordare che vi rientrano molte altre dimensioni, non sempre ugualmente sviluppate in docenti diversi con diversi stili didattici. Vi rientrano la capacità di motivare gli allievi all'apprendimento anziché spaventarli o plagiarli. Di costruire pensiero critico. Di prevedere varianti creative di metodo per innovare e personalizzare il più possibile la didattica. Di fornire ascolto, empatia, aiuto, contenimento e modelli comportamentali.

– Chi e come ha titolo ad esprimersi
I testimoni di tali qualità “plurali” sono, di conseguenza, essi stessi plurali.
I primi ne sono gli allievi (e le famiglie) probabilmente da consultare con un po' di coraggio e di
metodo (personalmente incentiverei volentieri il ricorso, meglio se volontario, ai questionari degli allievi sul modello sperimentato in Trentino, di cui fare uso riservato al corpo docente e al dirigente scolastico). Non come “decisori” ma come testimoni necessari.
Sul tema della preparazione, disciplinare e didattica, i giudizi non possono essere invece che tecnici e il curriculum del docente deve comporsi di titoli formativi, scientifici e di eventuali osservazioni e misurazioni post-assunzione condotte con la serietà che si richiede.

– L'ambiente dell'istituto scolastico: uno spazio di valutazione dall'alto?
La comunità dei lavoratori dell'istituto di appartenenza, e con essa il dirigente, registrano invece
altre dimensioni del lavoro docente: le relazioni sul luogo di lavoro, l'adesione a un progetto
condiviso d'istituto, la disponibilità alla collaborazione e, non ultimo, gli adempimenti, ovvero sono in grado di identificare il docente “assenteista". Di questi aspetti, soltanto l'ultimo attiene
direttamente alla (non) qualità dell'insegnamento.

I primi possono essere bensì un elemento di valore per garantire la crescita di un istituto nel suo insieme o un fattore che può incidere sulla motivazione e sul senso di riconoscimento del singolo docente, oltre che una base per attribuire, a questo o quel docente, incarichi aggiuntivi retribuiti. Ma non c'entrano con la qualità dell'insegnamento. Come molti esempi dimostrerebbero, un docente splendido in classe può benissimo risultare un elemento poco collaborativo o conflittuale nell'insieme dell'istituto in cui opera. E viceversa.
E' interessante, per converso, che il testo del Ddl in approvazione, all'art. 13, dove si parla del
Comitato di valutazione dei docenti, consideri la “qualità dell'insegnamento” e il “contributo al
miglioramento dell'organizzazione scolastica” come se si trattasse di un identico obiettivo.
Significativo della confusione tra diversi piani che il provvedimento registra e finirà con il
rafforzare.

Difficile che una scuola che a fatica si attrezza per costruire un sistema plurale di auto-osservazione e diascolto dei suoi interlocutori e stakeholder possa rendere giustizia ai valori plurali dell'insegnamento. Ci sivaluta ascoltando studenti, famiglie, imprese. Misurando i propri risultati. Da questo punto di vista, ilpotenziamento dei processi di autovalutazione e di valutazione esterna a livello di istituto (oggi all'avvio)può, a mio avviso, innescare un progresso reale, non fittizio, avendo di mira la collettività del corpo docente:se i soldi da investire sono pochi, c'è da chiedersi perché non ci si limiti a sviluppare, e bene, questo processo, incentivando le pratiche migliori.

Quando invece si preveda di entrare nel vivo della valutazione del “merito” in termini di accountability del singolo insegnante, fino a “premiarlo” o a “castigarlo” – tema politicamente del tutto legittimo – la credibilità delle modalità di accertamento e il fatto che esse non mortifichino la qualità della preparazione didattica e disciplinare del docente non sono eludibili. Come stupirsi se gli insegnanti protestano, quando queste condizioni minime vengono a mancare? Sembra inevitabile che a tale scopo si debba prevedere un sistema trasparente di osservazione affidato a ispettori o esperti.
Chi scrive non è contraria a un sistema di valutazione periodico su base volontaria, agganciato a prospettive di avanzamento di carriera. O, secondo il modello francese, a un potenziamento delle funzioni ispettive centrali sulla base di parametri ampiamente discussi e sostenuti.
Basta che ci sia un'ampia trasparenza sui presupposti, gli obiettivi, il metodo. Una serietà di intenti e una coerenza di mezzi. Ciò che oggi non si vede.

Dove stiamo andando?
Il tema è, evidentemente, di portata molto ampia e indubbiamente ambiziosa nel contesto italiano. Sarebbe interessante valutare i costi di una riforma in tal senso, perché essa certamente non potrebbe essere a costo zero: però potrebbe legittimamente proporsi, questa sì, come investimento sui docenti per innalzare la qualità del sistema di istruzione nazionale.
Ragionare di avanzamenti di carriera dei docenti e anche di un trattamento economico differenziato, la cui base non stia unicamente nel Contratto collettivo nazionale, può riuscire perfino interessante per gli insegnanti, purché non si mortifichi il loro sentimento di esercitare una professione seria e di alta qualificazione che richiede un'osservazione qualificata sulla base di parametri definiti.

La sensazione è invece che, anche su questo terreno, dietro la spinta di una volontà di riforma “pur che sia” e del vento dell'austerità che i tempi impongono, si voglia spacciare per ridisegno della carriera dei docenti una proposta costruita al ribasso e su basi indigeribili.
Stando al Ddl approvato alla Camera, il dirigente scolastico, coadiuvato da un “Comitato per la valutazione dei docenti” composto di insegnanti dell'istituto, genitori e allievi (che non a caso non ha mai funzionato nelle scuole, se non, e in modo fittizio, per i neo-immessi in ruolo) con poca spesa instaura una sorta di controllo sui docenti, sul loro grado di corrispondenza a non meglio definiti “criteri”, che il Ddl elenca come segue: “qualità dell'insegnamento” (misurata da chi?); “risultati ottenuti dal docente o dal gruppo di docenti in relazione al potenziamento delle competenze degli alunni e dell'innovazione didattica e metodologica” (definiti e misurati in che modo? con i test?); “contributo al miglioramento dell'istituzione scolastica” e “responsabilità assunte nel coordinamento organizzativo e didattico e nella formazione del personale”.
Con l'esclusione degli ultimi due che sembrano semmai premiare i docenti che “si danno da fare” fuori aula e oltre il loro orario, si tratta di criteri che si prestano o alla più meccanica compressione degli stili di insegnamento a vantaggio di un modello univoco (ad esempio di ossequio ai - pur utili - test degli apprendimenti nazionali e internazionali), oppure alla più totale arbitrarietà.
La paura legittima dei docenti è che si “sequestri”, in un processo che si preannuncia conflittuale e poco controllabile, il governo degli elementi plurali di qualità del loro lavoro, esponendoli a pressioni nonché al giudizio arbitrario di un superiore e di colleghi, che può mortificare o cancellare modelli educativi solo perché divergenti. E che questo passi, per giunta, anche per una “valutazione” seria del loro lavoro, agganciata come se non bastasse alla distribuzione di un “bonus” ovvero di una retribuzione accessoria.

Stando così le cose, parlare di “valutazione dei docenti” tradisce, come sopra si diceva, ben altro.
Suggerisce all'opinione pubblica che ci sia un processo facile di scoperta dei docenti “buoni” da premiare rispetto ai “cattivi” da castigare o eliminare: l'idea che sia possibile eliminare le mele marce, insomma. Per cui non serve una valutazione esperta, che riconosca le effettive qualità professionali di un docente: basta un “vigile”, basta un Preside–sindaco e un comitato di “buoni” che registri le macroscopiche inadempienze del docente “lavativo” e, finalmente, lo “castighi” con mancati “bonus” di rendimento (dato che la scuola non se ne riesce comunque a liberare).

Ipotizziamo come funzionerà questo sistema.
A volerne vedere qualche vantaggio, potrà aggirare la mancanza di seri meccanismi disciplinari, che fino a oggi hanno consentito a qualche “mela marcia” di starsene tranquilla nella scuola: i docenti più volte richiamati per evidenti mancanze nel servizio non potranno ottenere premi. La sanzione finirebbe qui (non essendo pensabile di sostituire questo meccanismo alle sanzioni disciplinari vere e proprie).
Per il resto, gli scenari realistici sono due. La maggioranza delle scuole (sempre che si trovi chi non rigetti o boicotti il meccanismo) si accorderà per soluzioni a rotazione o ampiamente “distributive” del bonus: del resto, quali criteri attendibili di scelta potranno mai definirsi, tra colleghi chiamati a valutare altri colleghi? Quindi, non si otterrà nessun cambiamento.
Oppure – e lo scenario è, dei due, il più preoccupante - il dirigente, con il concorso di collaboratori disponibili, potrà fare valere per valutare gli insegnanti il punteggio delle classi nei test Invalsi, o ancora l'adesione o meno dei docenti a progetti esterni alla didattica d'aula, o la partecipazione a corsi di aggiornamento (peraltro proposta come obbligo di legge), o infine l'adozione di questo o quel metodo didattico. Cosa che non coincide necessariamente con la qualità della didattica.
Di quelli citati, i primi due sono casi realmente preoccupanti (chiunque conosce casi in cui la distribuzione degli allievi nelle classi crea classi di “serie A” e classi di “serie B” ad uso degli amici della Dirigenza, con punteggi nelle prove nazionali nettamente diversi). Incoraggiare il “darsi da fare” fuori aula, d'altra parte, va in senso contrario al potenziamento della qualità della didattica d'aula.

Aggiornamento e metodologie didattiche potrebbero, d'altra parte, essere utili termini di riferimento, sia pure riportati al rango di scelte d'indirizzo del singolo istituto e destituiti di un valore accertato e condiviso nella comunità scolastica.
A ben vedere, il “bonus” si configura quindi come uno strumento di indirizzo del dirigente, per potenziare l'adesione dei docenti agli obiettivi del Piano di offerta formativa, in linea di principio condivisi dal Collegio docenti.
Perché, dunque, non chiamare le cose con il loro nome? Perché non dichiarare che il Piano di offerta formativa diventa uno strumento di indirizzo cogente su cui avviare meccanismi premiali per chi meglio collabora (con tutto ciò che ne consegue)? Perché mescolare a questo, in modo umiliante e francamente populista, il tema ben più ampio e serio della valutazione del corpo docente?
Si va incontro a una stagione di confusione. Al prodursi di probabili abusi e rendite di posizione, in cui la scelta dei criteri di premialità, proprio perché destituita dell'oggettività che potrebbero dare seri meccanismi di valutazione esperta, creerà conflitti e frustrazione tra docenti che, legittimamente, potrebbero vedere non valorizzati i reali punti di forza del loro insegnamento, senza il riscontro di criteri omogenei per tutta la classe insegnante. Una stagione di nuova frustrazione, di cui proprio non si avverte il bisogno.

“Sì, allora cambiamo la scuola (davvero)”
Iniziativa promossa dal Cidi Torino per contribuire all’innovazione della scuola

Di che cosa parliamo


L’azione centrale di questa iniziativa pubblica è argomentare la nostra idea di scuola e costruire una campagna di ascolto, confronto e ulteriore approfondimento riuscendo a raggiungere tutti i soggetti del fare scuola.
Rimane forte l’idea di scuola come la più importante e significativa esperienza pubblica dell’infanzia e dell’adolescenza, necessaria per tutti e finalizzata alla costruzione degli strumenti culturali per affrontare gli ostacoli e le opportunità della vita adulta.
La proposta si basa sulla convinzione che:
a. è necessario cambiare la scuola perché c’è un divario tra il compito a cui è chiamata e la sua capacità di svolgerlo,
b. il cambiamento presuppone la convergenza delle azioni di politica scolastica con le azioni di innovazione del fare scuola quotidiano,
c. nelle scuole esistono le potenzialità per avviare e diffondere l’innovazione.

Chi siamo


Siamo il Cidi Torino 

Il “pubblico” nella sua accezione più autentica è il costituirsi di quell’arena simbolica, mediata dalla cultura, in cui prende forma l’autonomia individuale, in cui ha inizio quella particolare prassi sociale che è l’esercizio dei diritti: diritto di conoscere, di scegliere, di orientarsi, di agire.
(
Gianna Di Caro)


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