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07/02/2018

Comunicazione della scienza e cittadinanza

di Marcello Sala

Un’esperienza di Alternanza scuola-lavoro

Alcune premesse

Faccio parte di un’associazione, Scienza under 18 (Su18), che organizza una manifestazione in cui gli studenti presentano in pubblico le loro esperienze di conoscenza scientifica.
Quando ci è arrivata una richiesta di fare da “struttura ospitante” di un progetto di Alternanza Scuola-Lavoro (ASL) sono rimasto perplesso.

Non sull’idea, perché da tempo immemorabile gli “educatori più… educatori” si sono posti il problema di una scuola che “prepara alla vita”, compresa quella lavorativa, discostandosi in questo modo dall’essere essenzialmente un luogo di apprendimento di conoscenze formalizzate, per non dire autoreferenziali. Infatti, molte delle cose di cui si parla a scuola esistono solo nel contesto scolastico (comprese nozioni errate dal punto di vista scientifico), confezionate in un linguaggio “scolastichese”, che finisce per essere l’unico supporto comunicativo  ad essere stabilmente appreso (la scuola promuove chi ripete certe parole). La scuola offre rappresentazioni della realtà in una situazione protetta, il che va benissimo soprattutto per i piccoli, ma se le rappresentazioni sono inadeguate alla realtà? Così gli “educatori più… educatori” portano gli studenti fuori dalla scuola, e non per le “gite”, che sono per l’appunto “scolastiche”. Dovrei forse dire “portavano”, dal momento che è diventata una azione sempre più difficile, faticosa e rischiosa per l’insegnante. 

In questo quadro la ASL sembrava finalmente assumere la realtà dentro il percorso di sviluppo che dovrebbe rendere le persone capaci di vivere, lavorando, dentro quella realtà. Anche se nel frattempo è entrata in crisi la relazione tra vita e lavoro, ben venga una ASL.
Non mi ero interessato direttamente alla questione, tuttavia, avendo insegnato per molti anni, mi ero fatto qualche domanda sul versante organizzativo e gestionale. Per dire: improvvisamente viene aggiunto un monte ore di 200-400 ore in tre anni, 67-133 ore all’anno: come vengono inserite nell’orario scolastico? Beh: ci avranno pensato gli organismi scolastici. Quali imprese, aziende, enti ecc. sono attrezzate per “ospitare” gli studenti, seguendoli in una sorta di tirocinio lavorativo? Beh: avranno redatto un albo delle disponibilità organizzato per settori lavorativi. Niente di tutto questo… verrebbe da dire “ovviamente”, ma sembrerebbe disfattista.

All’interno della mia associazione ho posto la domanda: noi che cosa c’entriamo? Ovvero: che tipo di “luogo di lavoro” siamo?
Su18 è un’iniziativa nata venti anni fa nella scuola media sperimentale “Rinascita” di Milano sostanzialmente da due idee pedagogiche:
a) si impara facendo (scuola “attiva”);
b) quando un insegnante dice a un bambino “spiega tu questa cosa ai tuoi compagni” lo fa perché quel bambino, provando a “spiegare” ai compagni, in realtà capisce meglio; ovvero la comunicazione scientifica è un contesto che facilita l’apprendimento delle scienze.
Quello che fa Su18 è mettere gli studenti nel ruolo non di insegnanti (b), bensì di “animatori” scientifici che praticano una didattica interattiva (a).
L’attività di Su18 non è produrre oggetti, ma erogare un servizio; la sua “ragione sociale” è sviluppare le competenze scientifiche di cittadinanza, ovvero promuovere l’apprendimento e la pratica della scienza in un contesto sociale, attraverso la comunicazione interattiva della scienza. Per questo Su18 organizza una manifestazione in cui le classi, dalle elementari alle superiori, presentano al pubblico le loro esperienze scientifiche e prepara gli insegnanti e le classi alle attività di laboratorio e di comunicazione.

Se si guarda dal punto di vista del lavoro, si tratta di formare le competenze di “animatore scientifico”, che si spendono in una professione specifica (in musei, festival, contesti di divulgazione, di formazione…), ma sarebbe bene che queste competenze siano anche una componente di quelle dell’insegnante di scienze. Allora nella ASL noi avremmo potuto proporre un’esperienza di questa professionalità.
Noi però, come gli idraulici, lavoriamo “a domicilio” e questo crea un problema: per gli studenti è difficile percepire l’esperienza ASL come non scolastica, se la si fa nella loro scuola o, peggio, nella loro aula; la “L” di ASL rischia di sparire. È una condizione che dobbiamo controllare, tenendo sempre nel campo di attenzione la professionalità e il contesto sociale (la comunicazione pubblica della scienza).
 

L'esperienza

Avendo così risposto alle perplessità iniziali, nell’anno scolastico 2017-18 abbiamo incontrato la 4a GS del liceo scientifico “Casiraghi” di Cinisello (MI). Il percorso che abbiamo fatto insieme ha avuto due sbocchi: la partecipazione della classe alla manifestazione Su18 con la presentazione della sua esperienza di ricerca e la gestione da parte delle studentesse e degli studenti di un laboratorio didattico in una scuola media. La comunicazione-animazione verteva su un “oggetto scientifico a uso sociale“ prodotto dagli stessi studenti durante una precedente esperienza di ASL con l'Istituto di Matematica Applicata e Tecnologie Informatiche del CNR.

Il gruppo-classe, in quanto “produttore” di questo oggetto-servizio, aveva l’interesse e il problema di promuoverne l’uso da parte di possibili utenti. Ora, la soluzione può prendere due direzioni praticamente opposte: la via della pubblicità, che ha come obiettivo la massimizzazione della “vendita” e che si basa sulla manipolazione (emotiva) del pubblico, e quindi rende non pertinente la conoscenza nel merito dell’oggetto stesso, oppure la via della costruzione di conoscenza e di competenza d’uso dell’utente. Noi di Su18 potevamo aiutare gli studenti solo sulla seconda via: lavorare su una comunicazione del loro “oggetto scientifico” in modo che il destinatario ne abbia conoscenza e competenza d’uso.

Per capire come e perché l’ “oggetto scientifico” della 4a GS abbia un “uso sociale” occorre entrare nel merito. Si tratta di un software che implementa una specifica teoria statistica (bayesiana) e può aiutare una comunità a prendere decisioni collettive. Ma seguiamo la contestualizzazione che le studentesse e gli studenti della 4a GS hanno proposto nel laboratorio tenuto nella scuola media assumendo il ruolo di “animatori”.

“Io partecipo, Noi decidiamo”

Alla scuola sono stati assegnati dei fondi e le sue componenti  sono chiamate a decidere come investirli, scegliendo tra possibili soluzioni, per esempio: manutenzione e riparazioni nell’edificio scolastico, acquisto di un tablet per ogni studente, allestimento e attrezzatura di un’aula di musica, costruzione di un campo di pallavolo, finanziamento alle gite scolastiche…
Si chiede ai ragazzini come si può decidere ed è quasi inevitabile che propongano di votare per alzata di mano. Si registrano i risultati: vince l’acquisto di tablet con una sensibile maggioranza.

Come abbiamo sperimentato anche nell’ultimo referendum costituzionale del 2016, questa modalità di decisione porta a violente semplificazioni, per esempio quella di dire un unico SI/NO a un insieme di questioni diverse, su ognuna delle quali il cittadino può avere opinioni diverse e istanze critiche. Soprattutto la dinamica della ricerca di consenso della “campagna referendaria” porta ben presto a rendere pertinente solo una dichiarazione di schieramento da una parte o dall’altra, entrando sempre meno nel merito delle questioni e caricandole invece di altri elementi esterni che dipendono dallo schieramento, distruggendo così la complessità delle questioni stesse, che vengono estremizzate e ridotte a caricature rispetto alla realtà.

Il risultato della votazione è una condizione psicologica che ha un pesante impatto sulle dinamiche sociali e sulla convivenza civile, ovvero il fatto che qualcuno “vince” e qualcuno “perde”. Il non riconoscimento delle ragioni dell’altro crea “perdenti” frustrati/astiosi e “vincenti” arroganti, alimentando il clima di conflitto e consolidando l’abitudine a schierarsi “a prescindere”. È il trionfo della logica del tifo calcistico in una istituzione nata per aumentare la democrazia della partecipazione.

Ma c'è un’altra possibilità, che passa da una interazione sociale diretta. Si ricomincia da capo e prima di tutto si dà il compito agli stessi ragazzini di trovare possibili modi di investire la somma a disposizione: chiunque può suggerire possibili acquisti. Il passo successivo è una ricerca per conoscere i costi di ciascuna proposta e su questa base selezionare un elenco di possibili opzioni “realistiche”. In più, una successiva discussione a livello economico, può portare a distribuire la cifra a disposizione su più investimenti.
A questo punto si chiede di individuare ciò che è più importante per determinare la bontà di una opzione di acquisto (i “valori”): per esempio benessere a scuola, successo formativo, sicurezza,  numero di iscritti.
Tra il livello dei “valori” e quello delle opzioni finali si individuano i fattori in gioco rilevanti (per esempio: apprendimento, interesse per le lezioni, costo per le famiglie, informatizzazione della scuola, relazioni tra gli studenti, privacy, estetica…). Tra questi fattori si ipotizzano relazioni, attraverso una sessione di brainstorming, da cui si ricava una matrice e una rappresentazione grafica di una rete i cui nodi sono i fattori in gioco collegati con delle frecce “causali” (che cosa è effetto di che cosa).
Su ciascuna relazione (per esempio tra il miglioramento della reputazione della scuola e la diminuzione dei furti o i risultati delle prove INVALSI), si apre una discussione tra i ragazzini, divisi in gruppi guidati dagli animatori. La discussione si conclude con una espressione individuale SI/NO, ma alla relazione viene assegnato un “peso” (in percentuale) che è la misura collettiva delle opinioni all’interno di ogni gruppo e tra i gruppi: il SI o il NO non “vincono/perdono”, ma hanno un peso relativo (statistico).

Il dispositivo

Qui entra in gioco il dispositivo software, gestito da chi mette la competenza acquisita in merito al suo uso a disposizione della comunità che deve prendere le decisioni. Il software implementa una “rete bayesiana” in cui vengono assegnati valori condizionati ai nodi (sono i “pesi” assegnati nel passo precedente). È il software a calcolare, secondo una teoria statistica che estrae il significato di un sistema di dati, quale scelta finale è “migliore”, nel senso di più rispondente ai valori e alle relazioni che le persone stesse hanno collettivamente individuato e valutato.

Se il referendum iniziale aveva fatto “vincere” l’acquisto dei tablet, il software alla fine rivela che la soluzione ottimale, ovvero quella che massimizza l'utilità attesa, legata ai valori espressi dai decisori stessi, è quella di riparare 50 soffitti, 100 serrature e 4 bagni, comprare 70 banchi e dare un contributo a 50 studenti per una gita scolastica. Sorprendentemente la cura e la manutenzione delle strutture scolastiche si rivela una priorità per gli studenti!
Ma soprattutto la costruzione della rete causale dei fattori implicati nella decisione e la valutazione di ciascuna relazione, operazione contraria alla semplificazione referendaria perché restituisce la complessità tipica di qualsiasi situazione reale, permette di superare la dicotomia vincente/perdente. Intanto non si vota SI/NO sulla soluzione finale, ma si scompone il problema nei suoi componenti e si esprime il proprio parere su ogni punto dopo averlo esaminato, capito e discusso; e discutere nel merito significa comprendere, non tanto le ragioni dell’altro quanto le altre ragioni pertinenti alla questione indipendentemente da chi le ha espresse. Poi su ogni punto la valutazione non si risolve nello stabilire chi vince e chi perde, ma nel capire quanto e come è valida per la collettività la ragione sostenuta da ciascuno.  Una persona, che all’inizio era convinta di una scelta, alla fine può trovarsi di fronte a un’altra, tuttavia durante il percorso ha avuto modo di capire che in quest’altra è rappresentata anche, in una percentuale significativa, parte delle ragioni e degli interessi per cui aveva scelto la prima.

In un momento storico in cui uno come Donald Trump viene eletto presidente degli USA, a me come educatore è evidente quali sono, in questo percorso di acquisizione di competenze scientifiche, i risultati acquisiti in termini di cittadinanza, nella consapevolezza e nella pratica sociale di atteggiamenti culturali determinanti per una convivenza civile e per la democrazia. 

Trovo questo articolo molto interessante ed ... educativo. E a me, come educatore neppure troppo più di altri, viene un dubbio: che cosa c'entra in tutto questo l'alternanza scuola-lavoro?
Non sarebbe meglio occuparsi da parte del MIUR di diffondere questo modo di fare scuola e cultura, invece di incentivare la pratica per altro assai discutibile di andare a cercare l'acquisizione di competenze critiche di cittadinza (sempre che al MIUR ancora interessi) , "fuori", nella "realtà", nel "mondo del lavoro", anzi "dell'impresa"?
Anche perché qui gli studenti sono capitati in una associazione che di "lavoro" si occupa di come far meglio informazione scientifica, educazione e scuola... ma se fossero capitati davvero nella realtà del mondo del lavoro, anzi dell'impresa... avrebbero imparato ad acquisirne una coscienza critica e migliorativa? Intendo del lavoro e dell'impresa, come pratica di cittadinanza?
La prima parte dell'articolo pone il serio e antico problema dei rapporti educativi fra scuola/cultura e realtà/lavoro: davvero è l'ASL un modo di risolverli funzionale alle "competenze culturali di cittadinanza"? [mario ambel]

Scrive...

Marcello Sala Formatore in ambito scientifico, è stato Cultore di Epistemologia alla Facoltà di Scienze della Formazione di Milano Bicocca.

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