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15/05/2018

Contemporaneità, cultura della scuola e cittadinanza

di Alba Sasso

Pubblichiamo l'intervento di apertura di Alba Sasso al Convegno "La storia/le storie del tempo presente", tenuto a Cosenza il 4-5 maggio 2018.

Sono molto contenta di essere qui a Cosenza, a un Convegno che intende approfondire il tema dell’insegnamento della storia più recente, a partire da esperienze, riflessioni, proposte operative già avviate nella nostra scuola. Una riflessione che intende riprendere il tema del rapporto tra cultura e contemporaneità, argomento che è parte importante della nostra storia.
Era il 1995 quando il Cidi organizzò a Napoli un Convegno nazionale che aveva proprio come titolo “ La cultura della scuola e la contemporaneità”, aperto dalla nostra cara Adriana Tocco. Già allora sentivamo l’urgenza di riflettere sul sapere della scuola, e sul  rapporto tra sapere della scuola e un mondo in profondo cambiamento, e su come trasformare quel che a scuola si insegna e si impara in sapere necessario, dicevamo allora, per diventare cittadine e cittadini del mondo. Un sapere di cittadinanza.

E mi piace riprendere qui una parte dell’intervento di Pietro Ingrao che molto volentieri accettò di venire e intervenire.

Su "insegnare", nel 2015, in occasione della morte di Pietro Ingrao, pubblicammo un ampio stralcio dell'intervento qui citato, tratto dalla relazione al 22° Convegno Nazionale del Cidi, Napoli, marzo 1995, pubblicato in Alba Sasso, a cura di, La cultura della scuola e la contemporaneità, La Nuova Italia, Firenze, 1996, pp. 151-157.
Già allora sottolineavamo come si tratti di una pagina di forte attualità che ci invita a riflettere su quanto nel frattempo la cultura della scuola si sia avvicinata o ancor di più allontanata dalla capacità di rispondere davvero alle sfide della contemporaneità.

Oggi si può dire che siamo a un mutamento di orizzonte: a fenomeni impressionanti di globalizzazione dell'economia, e anche di unificazione capitalistica del mondo, sino al sorgere di nuove istituzioni dell'economia (e anche della politica) come per esempio l'impresa transnazionale, che è qualcosa di diverso dalla stessa impresa multinazionale (quell'impresa che si espande in altri paesi, e tuttavia rimane fortemente radicata nel territorio nazionale). Siamo di fronte a una ristrutturazione mondiale delle grandi corporations industriali e finanziarie. Si aprono in questa situazione contraddizioni nuove, con mutamenti nella organizzazione del lavoro e processi finanziari, che ormai scavalcano le frontiere, uniti a fenomeni giganteschi di dumping sociale, che consentono alla grande impresa industriale di imporre i nuovi moduli - per così dire - postfordisti, dell'impresa-rete flessibile e snella.
Nello stesso tempo una precarizzazione violenta della condizione lavorativa apre problemi inediti e ardui di formazione permanente: una formazione che sia capace di misurarsi con le nuove forme di mobilità lavorativa. Tutto il rapporto tra l'atto lavorativo e l'insieme dei saperi è in discussione nell'impresa informatizzata del nostro tempo.
Insomma sta compiendosi una spettacolare e dolorosa mutazione del paradigma sociale, ma questo non viene per nulla immesso nel sapere di ogni giorno. Anzi accade che l'apprendimento di questa realtà, quando avviene, avviene in buona parte al di fuori della scuola; perché l'asse di lettura e cultura  che vive ancora oggi nell'istruzione scolastica è al di qua di questi fenomeni ad alta complessità e a forte differenziazione (…).

Concludeva infine: 

Mi preme sottolineare il ritardo, l'opacità con cui, nel paradigma di studi oggi in uso nella nostra istruzione scolastica, noi arriviamo a questo secolo, che è stato di profonde innovazioni e anche di tragedie mondiali. In qualche modo rovescerei lo studio della storia: comincerei dal più vicino per risalire al lontano.

Ecco, il rapporto con la contemporaneità non era, anche a nostro parere, solo un problema di contenuti culturali, ma riguardava e riguarda il modo di essere della cultura della scuola nel suo complesso. E ci chiedevamo come la scuola potesse progettare curricoli e percorsi in cui la comprensione della contemporaneità non fosse una semplice aggiunta ma la conquista di strumenti di lettura e di interpretazione, di capacità di problematizzazione e comprensione.

Furono temi all’attenzione della scuola, ma anche dell’Università. Erano anni in cui il mondo del sapere, della politica discuteva della scuola. Fu un dibattito ricco e intenso. Dalla commissione Brocca - che coinvolse la scuola e l’Università - al lavoro dei saggi di Berlinguer, alla commissione De Mauro. Sui grandi quotidiani come Repubblica viveva un dibattito acceso sull’insegnamento della storia, sulla storia dell’arte, sui saperi della scuola; molte riviste specifiche affrontavano i temi della cultura della scuola e della didattica delle singole discipline. Penso per esempio a quella bellissima rivista, I viaggi di Erodoto, edita da Bruno Mondadori e diretta da Tonio Brusa.
L’associazionismo professionale ma anche le singole scuole discutevano di contenuti, di metodologie, entravano a pieno titolo nel dibattito, se ne sentivano parte attiva, ne erano protagonisti. 

Negli ultimi decenni la scuola ha subito tagli pesanti e pessime riforme. Ha sofferto di disattenzione soprattutto sul terreno della sua cultura. Su quel che si insegna e si impara a scuola. Penso alla devastazione gelminiana di orari e di cattedre. Al gigantesco taglio di posti nella scuola (87.000 posti persi per sempre). Alla mortificazione del ruolo dei docenti.
E gli effetti immediati di quelle scelte ce li restituiscono ogni anno i Rapporti Ocse, drammaticamente sempre uguali a se stessi, anno dopo anno, nel denunciare i primati negativi del nostro sistema scolastico.
Ci raccontano di un paese ripiegato su se stesso. Ci dicono che gli investimenti nell’istruzione sono fermi in valori assoluti praticamente al 1995, che diminuisce il numero dei laureati e dei diplomati. Che le lauree, in Italia, sono la metà della media Ocse. L'Italia registra appena il 18% di laureati, contro il 37% della media complessiva: il dato più basso dopo quello del Messico.
Per di più, i titoli in Italia si concentrano in facoltà (ben il 30%) che il mercato del lavoro non riesce a valorizzare: Lettere, Scienze politiche, Sociologia, Scienze della comunicazione, Formazione artistica. Che sono pochi i laureati nelle discipline scientifiche. Nonostante gli impegni presi a Lisbona nel 2001. Che  i diplomati sono solo il 56% della fascia di età tra i 25 e i 64 anni.
O ancora, che i Neet in Italia sono ben 26 giovani su cento (15-29 anni), soprattutto concentrati nell'Italia meridionale. Quasi il doppio dei 14 su cento registrati a livello Ocse. Siamo penultimi, dietro di noi c’è solo la Turchia. E infine che siamo ultimi nell'area Ocse per spesa pubblica in istruzione. 
E tutto questo indica una crescita bloccata se non una regressione. Una rinuncia terribile. E i nostri giovani sono condannati dai tagli e dai meccanismi normativi bizantini e punitivi a un perenne precariato. O alla fuga. A consegnare ad altri paesi saperi, energie, intelligenza sociale, prospettive di crescita.

Il Cidi, da sempre, ha lavorato per una scuola che includa e che promuova, che si faccia carico delle diversità e delle fragilità e che garantisca a ognuna e ognuno quei saperi e quelle conoscenze necessari ad essere cittadine e cittadine  di un mondo sempre più vasto. Ma le ultime leggi, gli ultimi interventi sulla scuola si sono occupati della struttura, lasciando assolutamente in ombra i contenuti.
E invece, proprio nell’era delle tecnologie, in questo tempo dello smart e dell’easy, della cultura ridotta in pillole, bisogna tornare a ragionare di un principio educativo di formazione alla cittadinanza nella quale la cultura non sia solo la capacità di “cogliere i cambiamenti in atto e di adeguarvisi”. Ma sia intesa come occasione per formare donne e uomini liberi, in grado di pensare criticamente, di avere conoscenze e strumenti di lettura del mondo in cui vivono.
Perciò dobbiamo tornare a parlare di sapere della scuola, di quel patrimonio essenziale di saperi e competenze che la nostra scuola deve garantire, a cominciare dalla consapevolezza di sé e del mondo: uno degli obiettivi fondamentali dello studio della storia. Occorre inoltre riportare nel cuore del dibattito quel fiume carsico, sotterraneo, costituito  da un lavoro prezioso che tante scuole fanno, costrette da sole ad affrontare problemi nuovi e inediti.

Penso per esempio alla presenza sempre più forte di alunni stranieri, vissuta in molte situazioni nella maniera più giusta, come occasione formativa per tutte e tutti. Come possibilità di incontro tra storie e culture. Basta leggere il bel libro di Benedetta Tobagi, La scuola salvata dai bambini, viaggio nelle classi senza confini (Rizzoli 2016). Sono 800.000 i bambini di altra etnia nelle nostre classi e il 47% di loro è nato in Italia: sono quelli a cui è stato negato lo “ius soli”.
E a partire dal tema del sapere bisogna ricominciare a discutere non solo nella scuola, ma in quel vasto mondo di intellettuali, di associazioni che hanno a cuore la diffusione del sapere e la crescita culturale delle giovani generazioni.

Cosa significa oggi diritto al sapere  e alla cultura? Come si configura oggi un rapporto utile e significativo tra cultura della scuola e mondo contemporaneo? Con quali ostacoli deve combattere?
Intanto col fatto che  in Italia il 48% dei minori tra 6 e 17 anni non ha letto neanche un libro, se non quelli scolastici, nell'anno precedente, il 69% non ha visitato un sito archeologico, il 55% non ha mai messo piede in un museo. “Un bambino su tre - commentano i ricercatori - non solo non ha stimoli culturali, ma - non leggendo e non conoscendo le meraviglie del passato - perde la possibilità di avere degli stimoli a crescere, a conoscere e, in definitiva, ad affermarsi.”

Ma c'è addirittura di peggio: secondo i dati di Save the Children il 12% della popolazione (5,9 milioni di persone), non ha alcun titolo di studio. È una piramide appuntita. Al vertice, vi è il 7,5% di laureati, circa quattro milioni, alla base il 36,5%, di italiani senza alcun titolo di studio o in possesso della sola licenza elementare: circa 20 milioni.
La percentuale della popolazione che raggiunge il livello più alto - che cioè esprime  padronanza delle competenze necessarie per la comprensione, l’interpretazione e la produzione delle conoscenze e delle informazioni oggi indispensabili per svolgere in modo adeguato i compiti dell’età adulta e per acquisire nuove esperienze e nuove conoscenze - è in Italia solo del 30% contro una media Ocse del 49%.
Ma il diritto alla cultura èo no un diritto fondamentale di cittadinanza?

È con questo scenario di fondo, con questi problemi che la scuola italiana a vari livelli di consapevolezza deve fare i conti. Con un mondo profondamente cambiato, dove i media e i maître à penser discettano solo sul peggio che c’è, il bullismo in primo luogo, cercando di attribuire solo agli insegnanti la colpa di tutto quanto nella scuola non funziona. Lavandosi le mani da ogni responsabilità.
Nel bel libro Minima scholaria, (Laterza 2001), Tullio De Mauro riflette e ci aiuta a riflettere in primo luogo sul fatto che in Italia il concetto di cultura ha significato quasi esclusivamente cultura letteraria. Questione prevalentemente umanistica. E ci dice:
1. La cultura, in Italia intesa spesso solo come cultura letteraria, è da una parte repertorio di prodotti, dall’altra capacità di muoversi nello spazio culturale (codici, tecniche, repertori). Una scuola veramente buona dovrebbe insegnare a sapersi muovere in questo spazio, a conoscere le parole ma anche a saperle “accocchiare”.
2. Se vogliamo, attraverso la scuola, dare una formazione che consenta di vivere nella società dell’informazione non dobbiamo dilatare all’infinito la mappa dei saperi, ma riuscire a dare bussole, punti cardinali che consentano di capire e muoversi nel gran flusso di informazioni, che ogni giorno ci attraversano.
3. E infine, se vogliamo davvero perseguire questo obiettivo, l’unico degno di una scuola che non allevi sudditi, ma persone libere per una società libera, dobbiamo prepararci  a una non breve riflessione sui nostri modi di fare e pensare la scuola: lasciandoci alle spalle la scuola “pigliatutto” e costruendo una scuola che selezioni coraggiosamente ciò che serve davvero alla formazione della capacità critica di movimento nello spazio culturale, ma che non rinunci a essere, come diceva Gianni Rodari, "una scuola grande come il mondo".
Non sono programmi o indicazioni, sono riflessioni di un grande intellettuale del nostro tempo che possono diventare piste di lavoro inesauribili. 
Approfondire questi temi significa davvero tornare a riflettere sul sapere della scuola. Nel tempo presente.

Qualche tempo fa si avventarono contro la scuola, contro esperienze assai significative della nostra scuola (la meglio scuola, direi) ricostruzioni che additavano come colpevoli di una scuola lassista e incapace  Don Milani - che avrebbe contribuito a eliminare lo studio della grammatica dalla nostra scuola -, il comunista De Mauro e le sovversive rodariane maestre della scuola elementare (questa ricostruzione è di Paola Mastrocola). Per non dire del più recente documento di dirigenti scolastici e linguisti che accusavano la scuola e i docenti di non sapere insegnare la lingua italiana. Insomma c’è, continua ad esserci, un’ opa ostile nei confronti di una scuola che invece da tempo e in silenzio, quasi nascondendosi a un chiacchiericcio vuoto e improduttivo, si rimbocca le maniche e prova ad affrontare i problemi.

Ecco, mettendo da parte artificiose divisioni e soprattutto artificiose ricostruzioni accompagnate dal venticello della calunnia, è tempo di riprendere (il Cidi non ha mai smesso) un necessario e utile dibattito sul sapere della scuola, a partire da concrete esperienze già realizzate, da proposte che dalla riflessione su queste esperienze scaturiranno.
Dopo un ventennio di devastazione neoliberista sulla cultura e sulla scuola, bisognerà ricominciare dalla scuola migliore, che c’è, che non ha smesso mai di lavorare con sobrietà e passione per migliorare qualità ed efficacia del sistema.
Oggi occorre, a ogni livello del percorso scolastico, imparare a studiare, a usare sistemi di ragionamento, a porre e a porsi interrogativi, a confrontare punti di vista: niente, infatti, si conosce davvero se non partendo da un punto di vista.
E  una classe di studentesse e studenti che hanno imparato a discutere perché conoscono i temi di cui stanno parlando rappresenta una garanzia di libertà per tutte e tutti.
Perché il sapere è appunto libertà.