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20/02/2017

Insegnare italiano a scuola: tra veritĂ  e proposte di cambiamento

di Maria Luisa Jori

La recente lettera di  denuncia dell’ignoranza dell’italiano, particolarmente scandalosa negli studenti universitari, firmata da  seicento intellettuali,  per lo più accademici, sebbene discutibile nei richiami nostalgici a un insegnamento della lingua astratto e normativo, ha comunque  il merito di aver  riportato e focalizzato  l’attenzione sulla funzione  propria della scuola, cioè l’istruzione dei giovani.  Da tempo le istituzioni, sebbene intenzionate a realizzare  una  necessaria riforma  dell’istruzione,  non  si sono più interrogate sui temi relativi   alla qualità dei contenuti e dei metodi dell’insegnamento.  Infatti la  legge 107, e i  molti  discorsi sulla “Buona scuola” che l’hanno preannunciata, non  hanno preso in considerazione né i programmi né la didattica. L’allarme che ora viene lanciato, soprattutto  dai docenti universitari, sull’incapacità dei loro studenti di usare correttamente la lingua materna, si affianca a quello di Tullio De Mauro, ancora una volta ribadito nell’ultima sua videointervista,  relativo al fatto che il 70% degli italiani tra i diciotto e i sessantacinque anni non  sono in grado di comprendere  testi scritti.

Appare assai utile ascoltare direttamente le parole di Tullio De Mauro, sia perché consentono di misurare il diverso spessore della sua denuncia rispetto a quella dei dirigenti scolastici del "Gruppo di Firenze", sia perché costituiscono, di fatto, una efficace risposta a quelle stesse considerazioni.  [ndr]

Dunque non  si può più ignorare la necessità e l’urgenza di  studiare  con quali mezzi, metodi, programmi è possibile migliorare l’apprendimento degli usi scritti e orali  dell’italiano nella  scuola pubblica.   Essendo  la lingua  il principale  strumento delle relazioni sociali,  è un obbligo democratico diffonderne la conoscenza nel modo più ampio possibile tra tutti gli allievi, superando   con adeguati metodi pedagogico-didattici  quelle disuguaglianze  delle situazioni dei genitori nella divisione sociale del lavoro che  si riproducono  nella scuola, generando tendenzialmente nei figli delle disposizioni e delle capacità diverse nei confronti  dell’apprendimento scolastico. Prima ancora di Don Milani  illustri sociologi avevano sostenuto e argomentato questa lettura della realtà scolastica (Cfr. Pierre Bourdieu, Jean-Claude Passeron : Les héritiers. Les étudiantes et la culture. Paris, 1964).  Quindi  Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo  “Il ribaltamento pedagogico che rovina la nostra lingua” (Corriere della sera, 6 febbraio 2017 ), volto ad attribuire  a Tullio De Mauro, recentemente scomparso, la responsabilità del degrado  delle conoscenze linguistiche degli studenti, ha dimostrato di non comprendere  proprio il significato fondamentale di quel   «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale» raccomandato dal grande studioso e storico della lingua  in ottemperanza alla piena attuazione dell’articolo tre della Costituzione  (È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese). 

Nel 1975 questi principi vengono codificati dal Giscel (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione linguistica)  nelle Dieci tesi per l’educazione linguistica democratica dalle quali non potranno più prescindere tutti  i successivi interventi di riforma dei programmi scolastici a tutti i livelli.  Ma se  oggi verifichiamo  una allarmante  ignoranza degli studenti  nella comprensione e produzione  di testi  scritti in italiano non dobbiamo trovarne la causa in tali principi, bensì nella relativa attuazione impropria e troppo spesso incompetente.
Infatti   quel «ribaltamento in senso democratico della pedagogia linguistica tradizionale», indicato come necessario  da Tullio De Mauro e  affermato dal Giscel più di quarant’anni fa, comporterebbe una preparazione specifica e  aggiornata degli insegnanti   in  teoria e didattica della lingua, che  continua a essere  invece carente  fin dalla prima basilare formazione del docente di italiano. Ne è una prova la seguente esperienza: durante il decennio della  SIS (Scuola Interateneo di Specializzazione degli insegnanti, dal 1999 al 2009, quando fu soppressa dal ministro Gelmini) all’università di Torino  la maggioranza  dei laureati in lettere che pure  avevano superato la selezione dei   test di ingresso venivano costretti a frequentare preliminarmente corsi integrativi di linguistica. Come avrebbero potuto infatti  sperimentare un valido, aggiornato  insegnamento della lingua italiana nelle ore di tirocinio, se privi di una tale preparazione? La SIS cercava di creare insegnanti adeguati alla scuola di massa e pertanto capaci di far accedere tutti gli allievi, secondo le  personali  capacità indipendenti dai relativi  vantaggi  o svantaggi delle   estrazioni  sociali, alle conoscenze che  rendono  ciascuno senza distinzioni cittadino della Repubblica.

 Negli  anni Settanta anche in Italia, come altrove nel decennio precedente, si  affermava  la “linguistica testuale”, cioè   l’analisi della lingua  nella sua  costruzione articolata e complessiva del testo.   Le più importanti proprietà della testualità sono state identificate  nella coerenza e nella coesione, ossia in tutti i fenomeni che mostrano rapporti logici e formali tra le parti del testo. Così hanno acquistato rilevanza interpretativa, per esempio, gli usi dei connettivi (avverbi e congiunzioni che indicano il tipo di  rapporto logico tra le affermazioni  espresse in due paragrafi in sequenza). Anche gli usi della punteggiatura sono stati studiati in questo senso. Gli insegnanti aggiornati  nella linguistica testuale hanno iniziato allora a sperimentarne il potenziale didattico (ricordiamo che  nel corso degli  anni Ottanta  in molte scuole italiane  sono state   attuate  sperimentazioni didattiche intense e valide, sulla cui base furono poi redatti gli innovativi “ Programmi Brocca”).  La prima conseguenza di un tale approccio allo studio della lingua, che incominciò ad apparire anche in alcuni libri di testo,   diede un   nuovo impulso alla pratica della  lettura, analisi e  soprattutto scrittura di  testi interi, resuscitando e rinnovando le indicazioni del grande pedagogista francese Celestin Freinet(1896-1966), non a caso ripubblicato in quegli anni ( L’apprendimento linguistico secondo il metodo naturale, La Nuova Italia, 1971 ). Lo stesso insegnamento della grammatica, tra morfologia e sintassi, coniugata  all’approfondimento  del lessico a essa a volte funzionale, diventa efficace attraverso la pratica della lettura e soprattutto della scrittura di un testo. Fondamentale però è la correzione continua dell’insegnante, svolta con metodo adeguato alle regole scientifiche della linguistica, soprattutto  mai  come sostituzione  del linguaggio del docente a quello dell’allievo.   Va aggiunto poi   l’esercizio di  riscrittura  del  testo  corretto. Per insegnare l’uso dell’italiano scritto, a tutti i livelli di scuola  è indispensabile far scrivere molto spesso, anche se poco ogni volta:   allievi e allieve  imparano di più scrivendo brevi testi, di tipo differente, frequentemente, a livello quasi quotidiano, che testi ampi   soltanto per le obbligatorie  verifiche quadrimestrali.

 Viviamo oggi in una cultura sociale   in cui  prevale l’uso dell’oralità, che linguisticamente è tale anche   nelle  comunicazioni  dei vari  Social network, attraverso Sms e chat. La stessa posta elettronica, d’altra parte, non ha più né il linguaggio né lo stile né l’ampiezza testuale delle lettere di una volta. Soltanto la scuola  può quindi  insegnare la correttezza della lingua scritta. Ma i rimedi agli esiti insoddisfacenti  in questo campo, suggeriti dai seicento firmatari dell’appello a chi governa, non si basa sulla conoscenza del problema.
È opportuno  pertanto  mettere sotto gli occhi di tutti costoro e della ministra in carica,  il quadro   delle cause effettive  dell’insufficiente apprendimento   della lingua italiana nella scuola,  oltre a ribadire che a monte c’è la scarsa formazione in  linguistica degli insegnanti, di cui si è parlato sopra:

-scarsa pratica di scrittura di testi con relativa correzione da parte dell’insegnante (attività sostituita sempre più dai  test a risposta multipla);

-mancanza di attenzione didattica all’insegnamento dell’italiano trasversale alle diverse materie;

-spesso elevato numero di allievi per classe, che riduce il tempo per la correzione degli elaborati (vengono pertanto ridotti di numero)  e per l’ascolto delle esposizioni orali individuali;

- aumento del numero delle classi per gli  insegnanti di lettere (da quando il docente di italiano e storia della secondaria superiore, per effettuare il servizio effettivo di cattedra -le 18 ore- e far  risparmiare lo Stato sul numero degli insegnanti, arriva ad avere troppe classi, anche quattro contemporaneamente tra biennio e triennio, di cui correggere  frequentemente gli  scritti è impossibile).

 Una  vera  riforma della scuola, che intenda rispondere utilmente, concretamente all’appello dei firmatari (nonostante la  arretratezza delle loro relative proposte) non può non porre rimedio a  tutto questo. 

 

 

Scrive...

Maria Luisa Jori Ha insegnato a lungo nelle scuole superiori; supervisore di tirocinio e docente di didattica della letteratura presso la SSis dell’università di Torino.